venerdì 10 febbraio 2017

Nikolaj Anciferov – Pietroburgo Passeggiate letterarie


Con l’avvento di Pietroburgo comincia ad esistere una letteratura russa” (Iosif Brodskij – Fuga da Bisanzio)

Libro per tutti gli amanti della Palmira del Nord e per gli appassionati bibliofili, che in queste pagine troveranno una puntuale descrizione di come Pietroburgo è stata raccontata dai grandi scrittori russi e anche un’analisi dei luoghi che hanno fatto da sfondo alle vicende narrate da Dostoevskij nei suoi romanzi.
Nella prima parte, L’anima di Pietroburgo, l’autore identifica il genius loci con il Cavaliere di Bronzo, la statua equestre di Pietro il Grande fondatore della città, che troneggia maestosa nella piazza delimitata sui quattro lati dalla cattedrale di Sant’Isacco, l’Ammiragliato, gli edifici del Sinodo e del Senato e dalla Neva e che incarna perfettamente quell’equilibrio tra grandezza e tragicità che da sempre accompagna la storia di Pietroburgo. Per riuscire a penetrare l’anima della città Anciferov considera dapprima la topografia dei luoghi, la natura (le notti bianche…) e le impressioni personali, ma si accorge che tutto questo non è sufficiente e quindi si affida al coro di voci che vengono dalla letteratura e che nel corso degli anni hanno saputo coglierne di volta in volta alcuni aspetti.
Si parte dal tentativo di Sumarokov di santificare Pietroburgo (Petropoli… sarai la Roma del Nord), evitando però pericolose fughe in avanti e tenendola ben salda nell’alveo della tradizione russa, creando un filone celebrativo nel quale si inscriveranno con qualche sfumatura anche le opere di Lomonosov, Deržavin, Vjazemskij e Batjuškov. A superare questa fase didascalica sarà Puškin che darà contenuto alla forma di chi l’aveva preceduto: il mito di Pietroburgo ha trovato finalmente profondità e spessore, due gambe possenti su cui reggersi, eppure proprio adesso che potrebbe cominciare a correre si siede, vittima del crepuscolo che gli impone la storia. Napoleone, i decabristi, il pugno di verro zarista… spengono la luce e la Pietroburgo che ritroviamo nei racconti di Gogol’ diventa lo specchio dei tempi, una città che sfugge all’interpretazione, nella quale la realtà si mescola con il sogno. È il crollo delle certezze di Puškin: tutto è inganno, la grandezza lascia malinconicamente il passo alla tragicità, le notti bianche alle lunghe giornate buie. Pečerin e poi Dmitriev elaboreranno questi temi spingendoli in un filone apocalittico, quello della fine di Pietroburgo sommersa dalle acque, rivincita della Natura sull’uomo.
Pietroburgo come città del contrasti, e se di tragedia e grandezza, di lotta tra uomo e natura e tra giorno e notte abbiamo detto, è ora il momento di aggiungere qualcosa anche sulla querelle tra occidentalisti e slavofili (su questo argomento ho trovato esaustivo Il mito di Pietroburgo di E. Lo Gatto). Si parte con Herzen che condanna la città come un’accozzaglia senza identità simile a quelle europee e che pure lo affascina per la sua tragicità, e si prosegue con Turgenev che sembra vedere intorno a sé solo sofferenza e poi con Grigorovič che insiste sul tema del declino irreversibile della città. A queste voci si oppone Belinskij, che ribalta completamente quello che sembrava essere il comune sentire e propone un punto di vista diametralmente opposto a quello in voga: Pietroburgo come finestra sull’Europa, entità in grado di unire la tradizione con il nuovo, un ponte tra passato e futuro, simbolo dell’orgoglio di un popolo che vuole rialzare la testa.
Un fuoco di paglia, perché a questa visione ottimistica si oppone quella figlia dei tempi di Nekrasov, che in continuità con Herzen e Turgenev ripropone con forza il tema di una città che corre verso il nulla, vuota e immersa in una nebbia reale e metaforica.
Originale è poi l’approccio a Pietroburgo di Belyi, che nel romanzo che le dedica osserva la città da punti di vista diversi ed inusuali, come vento che si infila in ogni direzione: un racconto visionario nel quale esplodono luce e colori in un corpo a corpo tra vita e sogno che finisce per mescolare e confondere i due contendenti. Per Blok Pietroburgo è la città-mondo con l’attenzione che si concentra soprattutto sugli strati più umili della popolazione.  Sarebbe troppo lungo dar conto di tutti i punti di vista proposti Anciferov in questo libro, aggiungeremo solo che per Achmatova Pietroburgo è il luogo dell’anima e per Majakovskij, figlio del futurismo, la città è invece trasfigurata in una specie di  mostro.
La Pietroburgo di Dostoevskij merita per l’autore un capitolo a parte, nel quale viene esaminata dapprima la topografia della città, i luoghi nei quali si svolgono gli avvenimenti dei suoi romanzi. Una città sospesa sull’acqua, senza radici o punti fermi, nella quale ognuno è solo con i suoi pensieri e nella quale i personaggi dostoevskijani vagano in continuazione in una specie di stato febbrile, attirati dalla possibilità di una vita diversa, in cerca di una via d’uscita alla loro solitudine. Anciferov punta l’attenzione sul ruolo importante delle case e quello delle finestre intese come occhi che guardano il mondo, sull’attenzione che Dostoevskij dedica all’anima fragile della città e sulla ricerca delle zone grigie, di quei contrasti di cui abbiamo detto e che non possono essere sciolti ma che sono destinati a rotolare aggrovigliati perché costituiscono la sostanza stessa di Pietroburgo. 

domenica 29 gennaio 2017

Giorgio Manganelli - Centuria

 Non solo esercizi di stile.

Piccoli quadri surreali (à la Magritte, verrebbe da dire) di raffinata eleganza formale. Finestre aperte sugli abissi dell’anima, brevi scene apparentemente senza peso, rarefatte, che muovono dalle banalità del quotidiano e che sotto l’aspetto di una finta innocenza celano un attacco alle strutture del reale, all’ordinario, al consueto. Tentativi di riappropriarsi dell’incerto, delle zone d’ombra; piacere dell’attesa per l’attesa.

Al centro c’è l’uomo, ripiegato su se stesso. La sua ricerca di ordine, di coerenza, di logica, che si scontra con l’elemento esterno, l’imprevisto, l’emozione. Appuntamenti mancati, ipotesi che potrebbero spiegare, tentativi di razionalizzare… e che finiscono con l’andare in tutt’altra direzione.

Protagonisti che sembrano chiusi in scafandri di ferro, personaggi anaffettivi che d’improvviso si trovano davanti i sentimenti e faticano a decifrarli, perché per leggerli usano gli strumenti della razionalità. Uomini descritti come viandanti ciechi che si aggirano smarriti in un mondo di domande senza risposte.

sabato 7 gennaio 2017

Roberto Bolaño – Notturno cileno




Un lungo monologo, con uno degli incipit più belli della narrativa contemporanea (come termine di paragone mi viene in mente solo Body Art di Delillo).



“Ora muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all’improvviso le cose sono emerse. La colpa è di quel giovane invecchiato. Io ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi punti. Quindi mi appoggerò su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa tremante, e cercherò nell’angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e perciò smentiscono le infamie che il giovane invecchiato ha sparso in giro a mio discredito in una sola notte fulminea. A mio presunto discredito. Bisogna essere responsabili. È tutta la vita che lo dico. Abbiamo l’obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi, perché anche i silenzi salgono al cielo e Dio li sente e solo Dio li comprende e giudica, per cui molta attenzione ai silenzi. Io sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è trascurabile. Dio no. Non so di cosa sto parlando. A volte mi sorprendo appoggiato su un gomito. Divago e sogno e cerco di essere in pace con me stesso. Ma a volte dimentico perfino il mio nome. Mi chiamo Sebastián Urrutia Lacroix. Sono cileno.”



Un inizio ipnotico, una scrittura quasi bernhardiana, un ritmo suadente, che ti attira tra le sue spire, ti porta dentro la storia e non ti molla più fino alla penultima riga. Poi, quando tutto è finito, ti sputa fuori senza tanti riguardi (“E poi si scatena la tempesta di merda”) per restituirti alle miserie del tuo mondo.

Notturno cileno è la storia di Sebastián Urrutia Lacroix, prete dell’Opus Dei e scrittore, intento a tracciare un bilancio della sua vita, a fare i conti con se stesso e con quel misterioso “giovane invecchiato” che rappresenta probabilmente la sua coscienza. Ricordi, storie, incontri: da Farewall, il famoso critico letterario, a Neruda, da Pinochet a Jünger, a María Canales, intrecciando personaggi veri e personaggi inventati per raccontare la storia di un uomo e insieme la storia del Cile degli ultimi quarant’anni. Parole e silenzi, azioni e omissioni, sogni e bassezze, il tutto sembra mescolarsi in maniera straordinariamente fluida nella figura del protagonista ed è tenuto insieme dall’assenza di sensi di colpa.  Sebastián Urrutia Lacroix vede le cose, le riconosce per quello che sono, eppure non le sente sue, non gli appartengono. È un uomo che vive il suo tempo senza sentirsi sfiorato dalle tragedie che lo circondano, che attraversa la vita curandosi solo di quello che lo interessa e trascurando il resto: un uomo che vive scotomizzando la realtà. Ma non è solo, perché intorno a lui si muove e prospera un’umanità fatta di suoi simili, il che spiega perché le cose sono successe e perché succederanno di nuovo.


Se Hermann Broch aveva cercato di spiegare il suo tempo mettendo il dito sulla piaga dell’indifferenza, Bolaño sembra raccogliere in questo libro il suo testimone, dimostrando come le cose non siano tanto cambiate dagli anni Trenta ad oggi: Sebastián Urrutia Lacroix sembra essere a tutti gli effetti il degno erede di Pasenow e la mancanza di sensi di colpa la diretta conseguenza di quell’indifferenza.

sabato 31 dicembre 2016

Best book award 2016


Consueto appuntamento di fine anno con il "classificone" dei libri letti.
Invariati i membri della giuria (io, Lars W. Vencelowe, Héctor Genta, Xenia Dubinina e S.A. Samoilov) e invariati i criteri di voto (per ogni lettura un punteggio da 1 a 10).

Il livello dei libri scelti è risultato decisamente alto, anche in virtù dei classici (che occupano i  piani nobili della classifica). 
Segnaliamo l'ottimo piazzamento del primo volume della trilogia di Moresco e la conferma di Calvisi
Lispector, Di Benedetto, Wieringa, Aira e soprattutto Volodine sono nomi nuovi sui quali concentrare l'attenzione per il futuro. 
Cărtărescu e Gospodinov suggeriscono di guardare ad Est se si cerca qualcosa di nuovo nel panorama letterario europeo (e non solo).


Ecco i risultati finali:

I sonnambuli (Hermann Broch) 50
I fratelli Karamazov  (Fëdor Dostoevskij) 50(
Le botteghe color cannella (Bruno Schulz) 50
Sopra eroi e tombe (Ernesto Sabato) 50
Il cantiere (Juan Carlos Onetti) 50
L’idiota (Fëdor Dostoevskij) 50
Herzog (Saul Bellow) 50
Gli esordi (Antonio Moresco) 50
Il pozzo (Juan Carlos Onetti) 50

Dalla vita degli oggetti (Adam Zagajewski) 48
Piccola apocalisse (Tadeusz Konwicki) 48
La coscienza di Andrew (E.L. Doctorow) 48
Abbacinante. L’ala destra (Mircea Cărtărescu) 48
Angeli minori (Antoine Volodine) 48
Cuore di tenebra (Joseph Conrad) 48
Murphy (Samuel Beckett) 48
Gli addii (Juan Carlos Onetti) 48
Notturno cileno (Roberto Bolaño) 48

Pornografia (Witold Gombrowicz) 47
La cognizione del dolore (C.E. Gadda) 47
Legami familiari (Claire Lispector) 46
Questi sono i nomi (Tommy Wieringa) 45
La volpe d’oro (Jerzy Andrzejevski) 45
Per questa notte (Juan Carlos Onetti) 45
L’uomo del silenzio (Antonio Di Benedetto) 44
Il poema dell’acquaio (Mircea Cărtărescu) 44
Moby Dick. La balena (Herman Melville) 43

Una questione privata (Beppe Fenoglio) 43
Centurie (Giorgio Manganelli) 43
L’inondazione (Evgenij Zamjátin) 42
I giovani. Tre racconti (J.D. Salinger) 42
Trans-Atlantico (Witold Gombrowicz) 42
…e altre storie (Georgi Gospodinov) 42
Gli uccelli (Tarjei Vasaas) 42
Imbalsamare animaletti mutanti (César Aira) 41
Il tunnel (Ernesto Sabato) 41
Adieu mon coeur (Angelo Calvisi) 41
Testamento (Witold Gombrowicz) 40
Romanzo naturale (Georgi Gospodinov) 40

Travesti (Mircea Cărtărescu) 40
Anatomia di un istante (Javier Cercas) 39
Prima della fine (Ernesto Sabato) 39
Benedizione (Kent Haruf) 38
Innovazioni americane (Rivka Galchen) 38
La luce smeraldo nell’aria (Donald Antrim) 36
Il paradiso degli animali (James Poissant) 36
La caduta delle consonanti intervocaliche  (Cristóvão Tezza) 36   
Watt (Samuel Beckett) 36

Diario di un uomo superfluo (Ivan Turgenev) 35
Un viaggio terribile (Roberto Arlt) 35
Perché amiamo le donne (Mircea Cărtărescu) 32
La lucina (Antonio Moresco) 30
Anaconda (Horacio Quiroga) 28
Stato di minorità (Daniele Giglioli) 27
Clandestini (Angelo Calvisi) 27
Il rap spiegato ai bianchi (David Foster Wallace) 26  
Gli anni (Annie Ernaux) 26
Più pene che pane (Samuel Beckett) 25
Dalle rovine (Luciano Funetta) 18

The winner is...

Hermann Broch

I sonnambuli




domenica 11 dicembre 2016

Hermann Broch – I sonnambuli


---Hors Catégorie---

Leggere il proprio tempo è impresa difficile, difficilissima. Molti si confrontano con questa montagna, pochi, pochissimi ne vengono a capo. Con il paradosso che spesso a riscuotere più successo è chi fallisce e non chi riesce nell’impresa, come se vedere nel profondo ci facesse paura, come se in realtà non volessimo capire davvero quello che ci succede. E così succede che ci si affidi alle voci di comodo e che si accomodi sotto l’ombrello protettivo del senso comune, del pensiero condiviso, privilegiando di volta in volta le voci consolatorie o quelle apocalittiche, sempre seguendo la corrente.
Broch è stato uno di quelli in grado di leggere il suo tempo e I sonnambuli è un libro enorme, uno di quelli che sta dalle parti dell’Uomo senza qualità, tanto per capirci. Perché I sonnambuli non è solo un’opera che spiega la realtà mitteleuropea a cavallo del Novecento, ma parte dal particolare per giungere ad una riflessione sull’uomo tout court,  con riflessioni che superano la prova degli anni tanto da poter essere considerate valide anche per i tempi che ci troviamo ad abitare.
Romanzo realistico o romanzo psicologico, si è scritto; romanzo-mondo, dico io. Opera che contiene al suo interno talmente tante idee che necessiterebbe di letture ripetute e più attente di quelle che io sono riuscito a concedergli: tre volumi che narrano accadimenti che si svolgono rispettivamente nel 1888, nel 1903 e nel 1918, a distanza di quindici anni uno dall’altro, tre protagonisti, Pasenow, Esch ed Huguenau, che incarnano in ognuna delle tre parti lo spirito del tempo.
Pasenow è l’uomo legato alla disciplina, il soldato che affida alla divisa il ruolo di “indicare e stabilire l’ordine del mondo ed eliminare l’aspetto incerto e fluido della vita”. Avrebbe bisogno di una guida, di qualcuno in grado di dirgli cosa fare e di aiutarlo ad orientarsi nelle cose del mondo, non trovandolo decide di sacrificare la libertà e di affidarsi alle regole della vita militare, limitandosi a galleggiare nella quotidianità. Non capisce la realtà, è attratto da chi è diverso da lui, dal nuovo, ma non sa muoversi su questo terreno per cui si ingegna a costruire collegamenti improbabili che gli consentano di spiegare quello che succede, perennemente sospeso tra ciò che vuole e ciò che crede gli altri si aspettino da lui.
Se Pasenow è il vecchio, lo spirito di un’epoca destinata a scomparire, l’ultimo rigurgito di un secolo superato che cerca di arroccarsi nella difesa ottusa di un ordine fine a se stesso, rifiutandosi di confrontarsi con il cambiamento, Esch invece incarna la forza per certi versi “dionisiaca” delle nuove idee. Dibattuto tra sensi di colpa e ricerca del piacere inteso come via per trascendere l’angoscia che lo domina, riscattare la solitudine dell’animo umano (unica strada verso la salvezza), sente il dovere morale di fare qualcosa, di espiare in qualche modo e portare giustizia (“sacrificarsi per l’avvenire ed espiare il passato; un galantuomo si sacrifica, se no non ci sarà mai un ordine!”). Un Esch dostoevskijano, direi, che si trova a confrontarsi con idee nuove, a percorrere con passo insicuro quelle stesse strade che Pasenow rifiutava, terreni impervi che confinano con l’anarchia.
Per quanto diversi, Pasenow ed Esch hanno un tratto che li accomuna: entrambi si sforzano di leggere il loro tempo ed entrambi sembrano farlo filtrando la realtà attraverso un paio di occhiali sbagliati. Faticano ad interpretare i rapporti tra i fatti e quelli tra le persone, ci costruiscono sopra teorie strampalate e poi agiscono a base a queste costruzioni fallaci.
Il terzo volume de I sonnambuli rappresenta la summa dell’intera opera, un cambio di marcia rispetto ai due volumi precedenti espresso anche dal punto di vista stilistico: la narrazione è contaminata da inserimenti di saggistica, testi poetici, teatrali, riflessioni filosofiche, dialoghi, critica, storia dell’arte, articoli di giornale, lettere… che rendono farraginosa la lettura ma contemporaneamente costituiscono le tessere necessarie alla composizione del puzzle che Broch ha in mente. Huguenau, il protagonista di questa terza parte, è il simbolo dell’epoca, un opportunista chiuso in se stesso, privo di valori, una personalità sterile figlia di una logica che non porta a nulla ma guarda solo al proprio interesse. Huguenau incarna alla perfezione la crisi di valori che Broch vuole descrivere, una crisi figlia dell’indifferenza, di una frammentazione della realtà in mille rivoli, sfere di interesse che finiscono per svilupparsi autonomamente una dall’altra e per radicalizzarsi fino a schiacciare l’uomo facendolo diventare ingranaggio. Sono sfere che, come detto, seguono logiche personali, perseguono fini diversi, vanno in direzioni diverse e tendono a conclusioni diverse: il risultato è uno smembramento della realtà con l’individuo che diventa “incapace di afferrare un qualunque valore al di fuori della sua strettissima sfera individuale”, perché “l’uomo sciolto da ogni gruppo etico, è diventato unicamente portatore del valore individuale, l’uomo metafisicamente “espulso”, espulso perché il gruppo si è dissolto e polverizzato in individui, è affrancato dal valore e dallo stile e a determinarlo non resta ormai che l’irrazionale”. Razionale ed irrazionale sono le parti che Broch identifica come necessarie e complementari alla costituzione di un unicum  inteso come entità superiore posta al di fuori delle nostre competenze e verso la quale dovrebbe tendere l’uomo  per arrivare alla salvezza.


Semplicemente una delle letture più importanti di sempre.