I
russi…
Si
dice, a ragione, che quello che la letteratura russa ha prodotto tra Otto e
Novecento sia pari a quello che altre culture hanno saputo fare nel corso di
tutta la loro storia.
Pil’njak
è un simbolista del primo Novecento. uno scrittore della generazione dell’epoca
d’argento, uno dei “Compagni di strada” (poputčki), come li
definì Trockij e l’anno nudo è un
libro indubbiamente importante e originale, che per certi aspetti ricorda Pietroburgo di Belyj.
L’anno
nudo di cui si parla è il 1919 e l’opera non è solo la descrizione del terzo
anno della guerra civile russa, ma la rappresentazione di un’incredibile serie
di conflitti. Sullo sfondo della lotta tra Rossi e Bianchi, si agitano infatti
le tensioni tra Occidente e Oriente, tra nobili e contadini, tra vecchio e
nuovo. Un miscuglio di interessi divergenti e di visioni antitetiche che solo
uno scrittore come Pil’njak, in parte russo asiatico, in parte tedesco, in parte ebreo (e che quindi i contrasti li
viveva sulla propria pelle) poteva raccontare.
L’anno nudo è un libro particolare, nel quale la scrittura
soverchia la trama, e si tratta di una scrittura ricca, ricchissima (laggiù, a mille verste, a Mosca, l’enorme
macina della rivoluzione aveva macinato l’Ilinka e la Cina si metteva
in moto strisciando dall'Ilinka, era strisciata... « Sin dove? » « Sino a
Taiezhevo! » «Menti! Mee-enti! Meee-eeenti! » Di notte, a Mosca, nella
Kitai-Gorod, il tubino faceva il giocoliere, in frac e una borsa sottobraccio,
ma di notte prendeva il suo posto la Cina, l’impero celeste, quello
che giace al di là della Grande Muraglia, senza tubino, con bottoni al
posto degli occhi. E dunque: possibile che adesso la Cina si sostituisca con il
tubino, il frac e la borsa sotto il braccio?... Non si presenta forse terzo al
turno chi può energicamente funzionare ? Tormenta. Marzo. Ah, quale
tormenta quando il vento divora la neve! Scioo-iaia, scio-oiaia,
sciooooiaiaaa!... Gviiu, gvaaau, gaaauL. gviiiuu, gviiiiiuuuuL. Gu-vu-zz!
Gu-vu-zz! !... Gla-vbum! Gla-vbumm... Scioo-iaa, gvi-iuu-gaau... Gla-vbum!
Guguz!... Ah, quale tormenta, che tempo di tormenta!... Quanto è bello!).
Si
passa dalle atmosfere decadenti della descrizione del disfacimento di una
famiglia aristocratica, alla forza imperiosa, alla violenza con cui viene
descritto il mondo nuovo che sta per imporsi. È tutto un alternarsi sincopato
di toni, un sovrapporsi di immagini. Colori, soprattutto, che spaziano dai
chiaroscuri più cupi ai rossi più sfolgoranti. Atmosfere di calma bellezza (Il cielo torrido riversava un torrido
chiarore rossastro, il cielo era venato d’azzurro e d’infinito. Fioriva il
giorno, fioriva luglio. Per l’intera giornata sembrava che le vie,
le chiese, le case, le strade si fondessero nell’aria e
vibrassero appena percettibilmente nell’arroventata aria d’oro. La
città dormiva il suo sonno da sveglia, la città d’Ordynin fatta
di pietra. I giorni entravano in fioritura, fiorivano, sfiorivano, in fila
continua, rifiorivano la domenica. Fioriva il luglio e le notti di luglio
si vestivano di velluto. Il luglio aveva sostituito le stelle di platino di
giugno con l’argento, la luna nasceva piena, rotonda, umida, avvolgendo il
mondo e la città di Ordynin in umidi teli di velluto e di raso. Di
notte salivano strisciando grigie nebbie canute. Le giornate
assomigliavano a una moglie di soldato di trent'anni che vestisse il sarafàn,
una di quelle che vivevano nelle foreste dietro Ordynin verso il lembo
settentrionale del cielo: è dolce le notti baciare nel fienile una di
queste donne di soldati. Le giornate opprimevano con la calura.), sembrano
indirizzare la narrazione in un solco, ma subito dopo ecco subentrare
situazioni quasi gotiche, che capovolgono la direzione del racconto (La città moriva senza esser nata. E fu
orribile in primavera, quando, come incenso a un funerale, nelle strade si
consumavano fuochi fumosi che bruciavano le carogne, che avvolgevano la
città in un’afa letale; nelle strade depredate, saccheggiate, insudiciate, con
le finestre infrante, con le case sprangate, con i tetti rotti. E gli
uomini, che prima andavano al ristorante con le cocottes, che amavano le donne
senza bambini, che avevano mani senza calli e verso i quarantanni la tabe,
che sognavano Monaco, che avevano gli ideali di Paul de Kock, ed erano stati
educati alla tedesca, volevano ancora, ancora rapinare, depredare
la città, ormai cadavere, per trasportare quanto avevano rubato in
campagna, barattarlo con grano conquistato con i calli, per non morire
oggi, per rimandare la morte di un mese, per poter di nuovo scrivere le
loro carte, amare (ormai con pieno diritto) senza bambini e attendere
bramosamente il putrido passato, non osando capire che per essi era
rimasta una cosa sola: emanar fetore di morte, morire, e che il desiato
passato non era che la morte, la via alla morte...).
L’anno nudo è un fiume che scorre impetuoso, trascinando a
valle tutto quello che incontra sul suo percorso. È un libro sulla Russia,
scritto troppo da vicino, troppo dentro al dramma che racconta, per poterlo
narrare con distacco. Ma è proprio dal suo essere così dentro che trae la sua
forza, la forza di essere un libro, come detto, per immagini, per istanti,
privo di una trama coerente, proprio perché è difficile trovare una coerenza
negli argomenti di cui tratta.