sabato 7 luglio 2018

Tom McCarthy – Satin Island



La Grande Relazione sulla nostra epoca.

Scrivere la Grande Relazione, “il Libro, la Prima e Ultima parola sulla nostra epoca, dare un nome a ciò che succede ora”, questo è il compito affidato a U. (you?) dalla società per cui lavora. Questo è anche l’ambizioso obiettivo che Tom McCarthy affida a Satin Island.
Libro importante, diciamolo sin da subito, di uno scrittore notevolissimo che segnerà gli anni a venire. Un altro di quei libri che escono dal postmoderno per aprire la strada del romanzo verso una direzione che per ora è priva di nome: neo-avanguardismo? post-postmoderno? Difficile dire, anche perché questo autore sembra battere una strada solitaria, un territorio che non è ancora una corrente letteraria. Delillo è il nome che mi viene in mente per fissare un punto di partenza al lavoro di McCarthy, tutto il resto probabilmente verrà con il tempo.
Satin Island  è un romanzo di idee, nel quale i personaggi non hanno spessore e la trama serve solo a veicolare i pensieri del protagonista. Il mondo descritto è quello in cui viviamo adesso, un mondo privo di un centro, costruito intorno a tanti hub, luoghi di transito, nodi reali o virtuali che tengono in connessione persone e idee. Siamo  dalle parti della società liquida baumaniana: bombardati da miliardi di notizie attraversiamo confusi le strade di un’epoca segnata dalla parcellizzazione della realtà. Una a una sono crollate tutte le certezze: la verità è morta, sostituita dall’opinione (più o meno condivisa).
Vita reale e virtuale si confondono in un orizzonte fatto di schermi e di link, di immagini che veicolano concetti contraddittori. McCarthy calca la mano proprio sull’indeterminatezza e sulla contraddittorietà del nostro tempo, presentando nel libro situazioni che si prestano a spiegazioni antitetiche ma che teoricamente potrebbero essere tutte vere. La fuoriuscita di petrolio in mare e la morte di un paracadutista sono notizie, immagini che si aprono a un ventaglio di interpretazioni sconfinato: la realtà è diventata una continua e impossibile interpretazione dei fatti.
È come se di colpo fossero crollati gli steccati che dividevano i concetti. Le definizioni sono diventate labili, discutibili e il disordine regna sovrano.
La sfida che McCarthy propone a se stesso con questo libro è titanica: raccontare la confusione della nostra epoca dal di dentro è come provare a cavalcare le onde del Pacifico sulla tavola di un bambino. Gli strumenti a disposizione sono inadeguati, la situazione muta ad ogni istante e soprattutto non conosciamo la direzione del nostro viaggio, costretti ad aggrapparci a un generico concetto di futuro in assenza di altri riferimenti validi. Impresa disperata, eppure McCarthy non cade, dimostrando di cavarsela più che bene in mare aperto. Non cade anche perché ha coscienza dei suoi limiti. È consapevole di trovarsi in una specie di loop: analizzare i meccanismi della società vuol dire analizzare anche se stessi, sapendo di essere soggetti alle stesse regole che condizionano gli altri, per questo non va alla ricerca di improbabili uscite di sicurezza ma concentra la sua ricerca sul tentativo di capire quello che sta accadendo. A questo proposito mi sembra perfettamente calzante la sua provocazione a proposito della Torre di Babele: “quello che conta davvero non è il tentativo di raggiungere il cielo, o di parlare la lingua di Dio. […]Questa torre diventa interessante solo quando ha fallito il compito che si era assegnata. Il suo valore sta nella sua inutilità. La sua inutilità la rende operativa: come simbolo, cifra, sprone all’immaginazione, alla produttività. La prima mossa per qualsiasi strategia di produzione culturale deve essere liberare le cose – gli oggetti, le situazioni, i sistemi – permettendo loro di essere inutili.”
Essere dentro alla realtà che si vuole raccontare significa allora che la Grande Relazione consiste più nel vivere le cose che nel raccontarle, questa è l’epifania di U. alla ricerca di una forma per dare voce alla sua ricerca: “ E se il solo fatto di coesistere con quegli oggetti e quella persona, a lasciare che i miei bordi di sciogliessero tra loro, occupando quel momento, o più precisamente permettendogli di occupare me, di asciugarmi e assorbirmi, invece di trattarli come dati da inserire per una valutazione futura… E se tutto questo, forse, facesse parte della Grande Relazione? E se la Relazione in qualche modo, chissà come, si potesse vivere, o essere, invece che scrivere? […] Mi sembrava che davanti a me si spalancasse sfolgorante un nuovo campo, un  nuovo regno, tutto un nuovo Ordine di esperienza antropologica, i cui pezzi scintillavano e ballavano all’impazzata mentre cominciavano a prendere posizione all’interno di quello che un giorno, sospettavo, si sarebbe potuto rivelare uno schema stabile e logico. Nella mia fantasticheria vedevo un futuro nel quale gli etnografi non scrutavano più nelle viscere morte degli eventi nella speranza di ridurre ai concetti di base il significato dei propri gesti, e si collocavano invece dentro gli accadimenti e le situazioni mentre si svolgevano – in modo innocente, avventato  soprattutto in diretta – e la loro “partecipazione dall’interno” trasformava la vita, portando in primo piano la sua vera essenza in ogni istante, nell’istante, non come sapere futuro ma come istante in quanto tale, che, come un baccello che matura, travalica i propri confini e si apre, generando senso, disseminandolo in ogni angolo della terra… Allora la Grande Relazione non sarebbe stata più qualcosa di prossimo venturo o di portato a termine, passato: sarebbe stata tutta nel qui e ora. Antropologia del tempo presente; antropologia come stile di vita. Trovato: Antropologia del Tempo Presente®; un’antropologia che s’immergeva nella presenza e nella contemporaneità: vi si immergeva come in una sorgente profonda, spumeggiante e colma di ninfe.”

domenica 10 giugno 2018

Mathias Énard – Bussola




 Gli orientali non hanno alcun senso dell’Oriente. Il senso dell’Oriente siamo noi occidentali ad averlo.”

Énard è considerato uno dei nomi più interessanti della narrativa contemporanea e con Bussola ha vinto il premio Goncourt nel 2015. Autore da leggere quindi, anche se di non facilissimo impatto.
In effetti ho impiegato oltre un centinaio di pagine per riuscire ad entrare in empatia con la sua scrittura, ma devo dire che nel mio caso la perseveranza è stata ripagata.
Non è certo l’intreccio a creare problemi, la trama di questo libro è quanto di più sottile si possa immaginare: Énard racconta le vicende di un amore che non decolla, quello di Franz, studioso austriaco di musica classica, per Sarah, un’orientalista francese, tutto qui. In realtà la trama è poco più di un pretesto per raccontare un’altra storia, quella dei rapporti tra oriente ed occidente negli ultimi duecento anni. Da Istambul a Theran, da Vienna a Damasco, passando anche per Palmira, Tubinga, Parigi, Bandar Abbas. Da Listz a Szymanowski, da Henri Rabaud a Wagner, a Schumann a Beethoven e Bizet. Ma anche da Kafka a Balzac, da Annemarie Schwarzenbach a Félicien David, da Marga D’Andurain a Edward Said, senza dimenticare Benn e Trakl, Alois Musil, Charles Mardus e Lucie Delarue-Mardus, Proust, Henry Levet, Rimbaud, Pessoa, Thomas Mann, German Nouveau, Nietsche, Goethe, Freud… per limitarci agli occidentali, perché mettersi a citare anche gli autori arabi sarebbe troppo lunga. Un bel po’ di luoghi, un bel po’ di artisti. Troppi? Probabilmente sì, eppure tanto sfoggio di erudizione non è sterile, perché se sulle prime spaventa, col procedere della storia si rivela interessante e mai fine a se stesso, rappresentando il tentativo dell’autore di far dialogare due mondi, di trovare una lingua comune, un terreno di incontro fra culture diverse, le cui diversità però risultano sfumate da mille contaminazioni e influenze reciproche, due mondi che finiscono per essere permeati da un “troppo” che ne ha eroso l’identità, quel vuoto che è ricerca, indagine, spazio da riempire.
Ma Bussola non è solo un libro su come Oriente e Occidente siano definizioni difficili da scindere e ridurre ad archetipi, sfrondandole dalle interpretazioni che ne sono state fatte, ma è anche un romanzo “aperto”, nel senso che non si limita a seguire una trama uniforme ma che apre la riflessione in direzioni diverse: il sentimento amoroso come viatico per “schiudere le difese del sé”, i collegamenti tra le cose, la malinconia per i sogni giovanili e soprattutto il ricordo, la memoria intesa come l’unico argine per resistere alla piena del tempo che cancella tutto.

domenica 3 giugno 2018

David Means – Il punto




 “E così adesso l’universo è un cazzo di casino. Non c’è un cazzo di niente che possiamo fare.”

Tra gli scrittori di racconti statunitensi contemporanei, David Means è uno dei due o tre che considero imprescindibili. Lui, Saunders e D’Ambrosio (ci sarebbero anche Mary Robison e Amy Hampel, ma di loro ho letto troppo poco). Poi vengono Aimee Bender, Canty, Adrian, Lipsyte… ma dopo.
Means è Means: scrittura non particolarmente scorrevole e di impatto non immediato per racconti stranianti e duri, sia per gli argomenti trattati ma soprattutto per il vuoto interiore dei personaggi descritti. Un vuoto doloroso, soprattutto emotivo, che li spinge a muoversi come anime perse nella nebbia. A guidarne i comportamenti non c’è più la luce della ragione, la morale è diventata una parola svuotata da ogni significato e loro sono simulacri che vagano nel buio di esistenze vuote, cercando di afferrare qualcosa usando l’istinto come unica guida. Quello che balugina nella loro notte sono solo brandelli di sentimenti, qualche emozione, luci sempre più fioche, sempre più rade.
I racconti de Il punto ci parlano di furti, violenze, rapine, omicidi, di momenti di svolta che non rappresentano però delle epifanie, ma solo istanti durante i quali è cambiato o avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Sono racconti costruiti con perizia e mestiere: spesso Means ci introduce nella narrazione come se conoscessimo già i fatti, altre volte omette particolari e frequentemente la trama si sviluppa su un doppio binario, da un lato quello che accade e dall’altro quello che i protagonisti pensano. Ecco, mi sembra che uno dei tratti comuni ai racconti di questa raccolta sia proprio la necessità da parte dei personaggi di raccontarsi storie  per provare a tenere  insieme una realtà che sembra andare alla deriva.

domenica 20 maggio 2018

David Szalay – Tutto quello che è un uomo



Fotografando l’anima del tempo.

Con il nuovo millennio la bussola della letteratura mondiale sembra essersi decisamente spostata verso la Vecchia Europa: Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, Tom McCarthy… scrittori accomunati dal fatto di non appartenere a nessuna corrente letteraria comune ma di seguire ognuno un percorso diverso e personale.
Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, McCarthy… e David Szalay, potremmo dire adesso, anche se in questo caso si tratta di un autore europeo solo per parte di padre (ungherese) e nato a Montréal da madre canadese.
Poco importa, con Tutto quello che è un uomo (il suo quarto libro e il primo tradotto in Italia), Szalay dimostra di essere scrittore vero. Osservatore attento della realtà, che filtra ed elabora con grande capacità di attenzione e poi restituisce con uno stile moderno e scorrevole, un linguaggio attento al parlato comune (lezione salingeriana?) con il quale caratterizza bene i personaggi. Attenzione ai particolari, riferimenti colti alternati ad aspetti del quotidiano, misura perfetta nell’alternanza di dialoghi e riflessioni, protagonisti che vengono fuori un po’ alla volta, personalità non esplicitate ma che emergono da quello che dicono e da come si comportano.
I racconti che compongono questa raccolta sono istantanee di momenti di vita scattate sulla sfondo di un’Europa nella quale i protagonisti sono colti in pieno movimento. Uomini in viaggio, che trovano tanto semplice spostarsi quanto complicato capire la realtà, quello che succede a loro e intorno a loro. Uomini che hanno smarrito le coordinate della vita e non sono più in grado di comprenderla. Il campionario è vario: diciassettenni in cerca di identità e ventenni privi di aspirazioni con un orizzonte che arriva poco oltre il proprio naso, giovani adulti già temprati da cinismo ed arrivismo per i quali esiste solo l’interesse personale. E poi, ancora: vite immolate al dio-lavoro, vite bruciate in caduta libera senza mai essere decollate e vite che crollano rovinosamente dopo essersi arrampicate sulle vette del successo. E vite alla fine: che provano a guardarsi con lucidità alle spalle per cercare un senso in quello che è stato, come quella di Tony, il protagonista  dell’ultimo racconto. Un senso che però è destinato a sfuggire, come testimonia una poesia del nipote, Simon, uno dei personaggi del primo racconto della raccolta e che torna qui quasi a dare un senso circolare a tutto il libro:
“una passeggera immersione nella trama
dell’esistenza, l’eterno trascorrere del tempo.”
“Il trascorrere del tempo.” – pensa Tony – “Ecco che cosa è eterno, che cosa non ha fine. E si palesa soltanto nell’effetto che esercita su tutto il resto, sicché nella propria impermanenza, tutto il resto incarna l’unica cosa che non finisce mai.
Sembra quasi un straordinario paradosso.”
Szalay sembra voler fotografare o filmare l’anima del nostro tempo, e ci riesce benissimo. Un tempo contraddittorio, che non sta fermo, che rifiuta di mettersi in posa. Di qui l’abilità del fotografo che riesce a coglierne l’essenza.

domenica 13 maggio 2018

Walter Siti – Troppi paradisi



Chi la scatterà la fotografia?”

Così cantava Raf alla fine degli anni ’80. Già, la fotografia. Quella degli anni ’80 ma anche degli anni ’90. Gli anni della televisione, di Sua Emittenza, dell’effimero, del rampantismo… gli anni di plastica e della Milano da bere, trascorsi a ballare sulla tolda del Titanic senza curarsi dell’iceberg in arrivo.
Quella fotografia l’ha scattata Walter Siti e per essere precisi si tratta di un selfie. Troppo comodo mettersi dall’altra parte dell’obiettivo, sport troppo praticato quello del sottrarsi alle responsabilità perché sono altri che hanno detto, fatto… Siti ci mette la faccia ed è impietoso anche verso se stesso. Attenzione però: la fotografia è solo la facciata, la superficie sotto la quale c’è il lavoro dello scrittore. Siti non si accontenta di descrivere un fenomeno, ma lo analizza con un’attenzione e un’intelligenza che mi hanno fatto pensare, mutatis mutandis, a certe pagine di David Foster Wallace.
Un’intelligenza della quale lo scrittore è consapevole ma che confessa fin da subito gli serve solo per evadere. Il protagonista della storia infatti si definisce “campione di mediocrità”, un uomo animato non tanto dalla pretesa di cambiare il mondo quanto da quella di passarci attraverso con il minimo dei danni. Un uomo sereno e mediocre, che considera la serenità una specie di equilibrio che gli permette di allontanarsi dal dolore del passato e la mediocrità una forma di “impermeabilità alla disperazione e al rischio”, lo scegliere sempre la strada più facile.
È la televisione uno dei motori narrativi del romanzo, televisione che il protagonista considera il suo “centro di calore, la distributrice di emozioni”, televisione che non chiede niente allo spettatore e dalla quale lui può prendere quello che vuole. Evasione, comodo rifugio, droga legale e apparentemente innocua, “surrogato inoffensivo della realtà”, artefice di un mondo rassicurante, di una “realtà depotenziata” (ma forse sarebbe meglio dire mistificata), priva di picchi emotivi ma che mescolando vita e anti-vita finisce per confonderle tramite una sorta di “pantografatura dei sentimenti”. La televisione rappresenta emozioni e stereotipi, tutto quello che mostra deve essere evidente e di facile accesso e lo spettatore deve adattarsi ai modelli proposti.
Dalla descrizione all’analisi: secondo il protagonista del romanzo la televisione è il mezzo utilizzato dall’Occidente  per costruire una nuova forma di religione che pone al centro il consumismo, spostando il paradiso in terra e conferendo alla merce il ruolo di surrogato di felicità. Anche l’Arte è stata travolta da questo ciclone e ha dovuto abdicare al suo ruolo di strumento per trascendere la realtà, finendo ingabbiata, ridotta in cattività: poco a poco tutto è stato trasformato in immagini così che ora anche nel campo del pensiero si maneggiano immagini di idee invece che idee vere e proprie. È la televisione (di nuovo) che traccia la rotta, regolando tempi e modi di questa distribuzione di immagini, proponendoci una realtà finta, edulcorata, manipolata, che finisce per soddisfarci ma che, abituandoci al procedimento per cui l’immagine è la realtà, ci trasforma in un mondo di spettatori e di consumatori, interessati solo al possesso probabilmente perché non più attratti dalla conoscenza.
Scenario desolante, nel quale non si capisce più cosa è vero e cosa falso, territorio in cui il protagonista del libro sceglie di muoversi con atteggiamento di distacco, convinto che l’ipocrisia che manifesta sia preferibile a un cinismo che sarebbe troppo impegnativo. Inutile combattere battaglie di retroguardia, più semplice riconoscere la sconfitta e ritirarsi nel privato limitandosi a una sopravvivenza dedicata al tentativo di appagare pulsioni e sentimenti e di tenere a freno quel ribollire di demoni e delitti che agitano il suo animo.
Pur non proponendosi a modello di nulla, forse è proprio quello privato l’ambito  nel quale l’autore suggerisce di organizzare ognuno la propria forma di resistenza, se è vero che quelli che il suo protagonista ci propone con (eccessiva?) dovizia di particolari sono amori eccessivi, malati, estremi è anche vero che sono reali, che muovono da un sentimento forte, sicuramente più veri dei modelli proposti dalla televisione.