sabato 8 dicembre 2018

Julio Cortázar – Rayuela. Il gioco del mondo



 Il bombarolo


Rayuela è un romanzo sperimentale sospeso tra Francia ed Argentina, tra surrealismo (e patafisica) e tradizione. Rayuela è un mandala, Rayuela è un gioco. Rayuela è una bomba piazzata nel bel mezzo dei romanzo che lo fa esplodere in mille pezzi; parole che schizzano da tutte le parti imbrattando i muri della storia e che noi ci affanniamo a rincorrere e poi raccogliere per provare a incollarle di nuovo insieme in modo da ricostruire un discorso che abbia un senso, per riallacciare i fili di una trama che abbia una logica che ci tranquillizzi. E mentre noi ci sforziamo di ricostruire il puzzle, ecco che da una parte c'è lui, Cortázar, il bombarolo, che ci guarda e sorride, perché non abbiamo capito che le parole devono restare lì dove sono finite, confuse e confondenti, perché quello è il loro scopo.
Attenzione, però. L'intento dell'autore non è quello di divertire o stupire il lettore annoiato dalla lettura di tanti libri sempre uguali, qui ci viene richiesto di passare da un ruolo passivo ad uno attivo, cercando nella trama un percorso di lettura personale, ricostruendo a partire da Rayuela un altro libro che sia  solo nostro. E allora possiamo dire che questo libro è il tentativo di Cortázar di negare una realtà unica per andare alla ricerca di altre realtà, di percorrere contemporaneamente tutte le strade possibili, senza fermarsi né al disordine della Maga, né alla ricerca dell'ordine perfetto di Horacio; Rayuela vuole raccontare il divenire, il movimento, il passaggio da qualcosa a qualcos'altro, rappresenta lo sforzo dell'uomo che consapevole di essere imperfetto cerca di trascendere se stesso senza sapere però quale direzione prendere, e allora inventa, genera, e la sua verità diventa quella dell'invenzione.
Sovvertire l'ordine esistente, questo è ciò che importa, rompere gli schemi, i dogmi che limitano il nostro orizzonte. Anche il linguaggio deve essere superato, non tanto le parole quanto le regole che le tengono assieme, con Rayeuela l'obbiettivo diventa quello di incamminarsi in una direzione nuova, una strada che non ha una meta definita ma che vale la pena di essere percorsa perché rappresenta il cambiamento, il viaggio verso il nuovo.

domenica 2 dicembre 2018

Norman Manea – Il ritorno dell'huligano



 Quando l'autobiografia è anche grande letteratura

L'autobiografia di Norman Manea in forma di romanzo. La storia di un esule nel mondo accompagnato da un senso di colpa, prima per non essere partito e poi per averlo fatto. La storia di un ebreo errante perennemente in fuga, dalla dittatura del generale Antonescu prima e da quella di Ceaușescu poi: dallo sradicamento dalla Bucovina per finire in Transnistra durante gli anni dell'infanzia, fino all'espatrio nel 1986 in America, il "Paradiso" dove non manca niente, nemmeno la depressione ("Non manca niente in Paradiso: cibo, vestiario e giornali, materassi, ombrelli, computer, scarpe, mobili, vini, gioielli, fiori, occhiali, dischi, lampadari, candele, lucchetti, catene, cani, uccelli esotici e pesci tropicali. E negozianti, saltimbanchi, poliziotti, parrucchiere, lustrascarpe, contabili, puttane, mendicanti: tutte le fisionomie, le lingue, le età, le altezze e tutti i pesi").
Manea è l'huligano del titolo, termine da intendere non nell'accezione moderna di teppista ma in quella che fa riferimento a un libro di Mihail Sebastian: huligano nel senso di marginale, non allineato al pensiero comune, escluso, "l'altro" per antonomasia.
Un libro che con una scrittura ricca racconta la storia dell'autore e quella della sua famiglia: ricordi, immagini, echi di voci lontane, fotografie dalle quali prova a ricostruire fatti accaduti tanto tempo prima. Non si procede in ordine cronologico, ma per episodi che come tessere vanno a comporre un mosaico nel quale c'è la vita di Manea ma anche la storia della Romania moderna. L'infanzia, la fascinazione del comunismo, la menzogna come rifugio e poi il risveglio dall'illusione, la scelta della facoltà di Ingegneria, la malattia dello scrivere, il rapporto con la madre… un racconto nel quale vita e letteratura si intrecciano e si confondono, perché per Manea la letteratura è vita.
La lingua rimane l'unico punto fermo, il suo rifugio, la vera Patria dell'autore, quella che definisce "la casa della lumaca", l'elemento in grado di conferirgli quella coerenza e quella di identità che niente e nessuno possono portargli via.
Lettura interessante di un autore che merita un ulteriore approfondimento.

domenica 25 novembre 2018

Tom McCarthy – Uomini nello spazio



Leggere Tom McCarthy è come stendere un tappeto prezioso e poi provare ad interpretarlo, sforzandosi di individuare i collegamenti tra le parti e il significato dei simboli; provando ad entrare nella costruzione, indugiando alla ricerca di nessi, di certezze alle quali ancorarci per procedere verso un livello più profondo.
Uomini nello spazio è la storia di un gruppo di anime alla deriva nell'Europa di fine millennio. Sullo sfondo di un'atmosfera bohèmienne, trafficanti bulgari e altri strani personaggi incrociano le loro vite a Praga nei giorni in cui la Cecoslovacchia sta per dividersi in due stati, in un momento storico in cui il mondo sembra privo di un centro, quasi destinato ad espandersi in ogni direzione.
La trama è ricca e contorta, ma in realtà è poco più di un pretesto per tessere una rete nella quale sono identificabili idee caratteristiche dei romanzi di McCarthy: l'importanza dei simboli (in questo caso l'ellisse) e poi riflessioni sulla comunicazione e sulla trasmissione, lo spazio, la copia e il suo rapporto con l'originale ma soprattutto la ricerca del senso più profondo delle cose. In questo caso centrale è un'antica icona e il tentativo di decrittare il significato delle tre parole che vi sono incise. Capire per accedere a uno stadio nascosto che ci apra le porte per una comprensione più "completa" delle cose si rivela (e sempre si rivelerà) un'illusione e il mistero che occhieggia nel buio un sistema di scatole cinesi che attirandoci verso di sé finisce per allontanarci dal vero.

sabato 17 novembre 2018

Wolfgang Hildesheimer – Tynset



Strano destino, quello di Tynset. Hildesheimer teorizza la fine della letteratura e per dimostrarlo scrive questo libro che in realtà si rivela un gran romanzo (se possiamo definirlo tale, perché sulla classificazione di quest'opera lo stesso autore sembra nutrire dei dubbi).
Tynset è un lungo monologo, che a tratti rimanda a Bernhardt  a tratti a Sebald. Pensieri in libertà di un uomo che vive tra il letto e la stanza, quasi paralizzato in un'immobilità beckettiana, presente e assente al tempo stesso. Un solitario che vive con l'unica compagnia di Celestine, la domestica che sembra uscita dalle pagine di un romanzo di Dostoevskij, una donna che beve e prega, occupata a portare il fardello della sua colpa (qualunque essa sia) perché convinta che questo sia il suo ruolo.
Tynset è un'idea, il nome di una cittadina norvegese che serve a muovere le acque del pensiero del protagonista, a sollecitarne la fantasia per costruire progetti destinati a rimanere sulla carta. Tynset è qualcosa a metà tra uno scopo, un gioco e un sogno.
Pensieri in libertà, si diceva. Pensieri che spaziano dalla superficie delle cose alle profondità, arrivando a sfiorare l'irrisolto, il non detto che giace nel fondo dell'anima tedesca, quel senso di colpa con il quale molti ancora convivono. Uomini che vivono come fantasmi e che il protagonista rincorre per un po' per spingerli a fare i conti con la loro coscienza.
Il protagonista del libro è un uomo che ha rinunciato alla vita attiva ("Ma io so dove mi trovo? Dove? Qui… da nessuna parte: ecco l'unico luogo dove posso respirare, libero, sciolto da ogni cosa, non assalito da nient'altro che dalle intemperie. Non aver colloqui, non eseguire incarichi, non pronunciar sentenze, non avere colpe. […] mi lascio portare finché non esisto più.") e che combatte l'insonnia dedicandosi alla memoria e ad imitare la vita. Ha provato a scrivere un elenco telefonico inesistente per immaginare un mondo che però finisce sempre per dover fare i conti con quello  reale. Un uomo che vive nella quotidianità  ma solo a mezzo servizio ("sono nel quadro e sono fuori del quadro, lo contemplo dal di fuori, sono solo e siamo in due… in due? Ma con chi?"). Un uomo bernhardiano, che definisce la vita "inganno e menzogna e umiliazione", una "gabbia che non offre possibilità", un luogo che abita "senza sapere qual era il mio posto". Unico scopo è il nulla, inteso come "lo spazio frapposto tra una cosa e l'altra, questo soltanto", un nulla però che gli risulta inaccessibile.
In Tynset ricordi e fantasie si mescolano, aiutati dall'alcool confondono i loro confini in una dissolvenza che lascia filtrare solo immagini sbiadite, figure vere e inventate che si incrociano in una danza assurda, abitanti di un labirinto dal quale sembra impossibile uscire, impresa che poi forse è anche inutile perché ogni sforzo è inutile, perché non c'è un altro posto dove stare, e allora non vale nemmeno la pena dedicare troppo tempo ad ognuna delle storie che il protagonista immagina e poi abbandona. Una serie di bozzetti sterili, di possibilità inespresse che servono solo a far trascorrere la vita e che fanno di Tynset un grande romanzo espressionista.

sabato 10 novembre 2018

Ernesto Sabato – Lo scrittore e i suoi fantasmi



La vera patria dell’uomo è quella zona intermedia e terrena, duale e lacerata da dove scaturiscono i fantasmi della finzione romanzesca. Gli uomini scrivono finzioni perché sono incarnati, quindi imperfetti. Dio non scrive romanzi.

Un quaderno di appunti assai interessante, uno zibaldone di pensieri di uno dei più importanti scrittori argentini del Novecento.
Riflessioni sulla scrittura e sugli scrittori, con pagine di vera e propria critica letteraria (notevoli e “pungenti”, ad esempio, quelle su un mostro sacro della levatura di Borges).
Sabato prende le mosse dalla considerazione che “la letteratura non è né un passatempo né un’evasione, ma il modo – forse il più complesso e profondo – di esaminare la condizione umana” e che nell’analisi dell’individuo è implicita anche l’analisi della società in cui egli vive.
Una visione antropocentrica del romanzo quindi, inteso come “destinato a suscitare la ricomposizione dell’uomo scisso tra idee e passioni, sintesi tra l’io e il mondo, tra l’inconscio e la coscienza, tra la sensibilità e la ragione”. Romanzo quindi come sincretismo tra ragione e sentimento, sintesi di contrari che solo filosofia e narrativa sono in grado di esprimere.
Per Sabato, che fu anche scienziato, solo l’Arte può provare a spiegare l’uomo perché “alla severa oggettività della scienza corrisponde un linguaggio univoco e letterale, che culmina nella tranquilla carrellata di simboli della logica. Ma agli uomini concreti quel linguaggio non serve […] perché l’uomo concreto non solo non si propone di comunicare verità astratte, ma ha bisogno di esprimere sentimenti ed emozioni, cercando di agire sull’anima degli altri, incitandoli alla simpatia o all’odio, all’azione o alla contemplazione. Per questo fa uso di un linguaggio assurdo ed efficace, contraddittorio e possente”.
“Dio non scrive romanzi” è uno degli assunti fondamentali di Sabato, convinto che il torrente che porta acqua al mare della scrittura possa sgorgare solo dalle passioni, dalle turbolenze e dalle contraddizioni dell’anima (oltre che dalle altezze dello spirito).
Oltre alle osservazioni sulla natura del romanzo, l’autore dedica pagine interessanti anche a pensieri sullo scopo della letteratura, sostenendo che quella attuale ha sostituito la finalità estetica che caratterizzava la letteratura delle epoche precedenti con quella escatologica e anche pagine sulla struttura (che per Sabato ha sempre il primato rispetto al linguaggio) del romanzo moderno e sui motivi per i quali è più difficile da comprendere rispetto a quanto avvenisse in passato.
Libro decisamente interessante e utile per una miglior comprensione della trilogia del grande scrittore sudamericano.