domenica 10 febbraio 2019

António Lobo Antunes – In culo al mondo


Viaggio al termine della notte

La guerra come spartiacque dell'esistenza dell'autore/protagonista e che separa un prima, quello della giovinezza e dell'innocenza, da un dopo che è consapevolezza del male.
In culo al mondo è l'elaborazione di questa esperienza: un lungo monologo in forma di dialogo con una lei che rimane silenziosa, il ripercorrere contorto le tappe della vita secondo lo schema tipico della narrazione di Lobo Antunes, fatto di sovrapposizione dei piani temporo/spaziali e cambi di voce narrante. Rispetto alle opere successive dell'autore portoghese qui c'è in più un uso ridondante della metafora e una prosa nella quale la frase mantiene ancora (almeno parzialmente) la sua articolazione. Prosa, al solito, baroccheggiante: la trama non si sviluppa secondo lo schema classico ma per sovrapposizione di immagini, pensieri, ricordi, allegorie… e le frasi lunghe incalzano il lettore con il loro ritmo vertiginoso, lasciandolo quasi senza fiato all'arrivo del punto.
A dirla così, In culo al mondo sembrerebbe un'opera fatta di molto mestiere e in parte è vero. Ma non c'è solo quello, perché la scrittura ricca, ricchissima, con la quale Lobo Antunes veste il romanzo nulla toglie all'onestà del pensiero dell'autore. Questo è uno di quei libri dolorosi e necessari che parlano dell'uomo, un viaggio al termine della notte e dentro la memoria. Un libro vero, un grande libro di un grande scrittore.

mercoledì 6 febbraio 2019

Appunti di scrittura


…necessità di penetrare la cosa, di arrivare alla sua essenza, non più di descriverla, ma di riprodurla tramite la parola. «Tu stesso diventa ponte o che il ponte diventi te stesso, identificati o identifica. Sempre — devi dire in altro modo. Dire (dare la cosa) — è meno di tutto descriverla. Il pioppo visivamente è già dato; tu dallo internamente, dall'interno del tronco: tramite il midollo.»

(Marina Cvetaeva - da un quaderno del 1924)

sabato 2 febbraio 2019

Marina Cvetaeva – L'armadio segreto


Un saggio (Il mio Puskin) e un paio di raccolte di poesia (Insonnia e Versi per Blok). Notevole soprattutto lo scritto su Puskin che finisce per dire molto anche sull'autrice. Cvetaeva parla della sua scoperta del padre della letteratura russa all'età di quattro anni, partendo dalla fascinazione esercitata su di lei dal dipinto di Naumov raffigurante il duello con D'Anthes e dalla statua in bronzo del grande poeta. Da questa prima fase (nera come il monumento) passa poi all'incontro con le sue opere, un incontro caratterizzato da una comprensione più emotiva che reale di quei versi. C'è la fase azzurro-lilla, come il colore del volume trovato nell'armadio della sorella: dapprima Gli zingari e la convinzione che l'amore sia perdita non incontro e poi l'Onegin, a rafforzare il concetto ("Io né allora, né dopo, mai amai, quando si baciavo, sempre – quando si separavano. […] Questa prima mia scena d'amore ha segnato tutte le mie successive, tutta la passione in me dell'amore infelice, non corrisposto, impossibile. Da quel preciso momento io non volli essere felice e con ciò mi votai – al non amore"). Ma, come scrive Cvetaeva, "in molto altro Evgenij Onegin ha segnato il mio destino. […] Lezione di coraggio. Lezione di orgoglio. Lezione di fedeltà. Lezione di destino. Lezione di solitudine."
C'è poi il Puskin sottile-azzurro dei libri di scuola e quello dell'antologia del fratello dell'autrice con il Puskin storico e le "poesie spaventose" (l'annegato, il vampiro, i demoni) con la consapevolezza che paura, compassione, collera e nostalgia saranno compagni di strada che l'accompagneranno per tutta la vita.
Anche le poesie successive (Al mare su tutte) rafforzano nella Cvetaeva bambina la convinzione che l'amore viva nella lontananza e nella solitudine ("io tutte le cose della mia vita le ho incominciate ad amare e le ho amate nell'addio, e non nell'incontro, nella separazione, e non nell'unione, non per la vita, ma per la morte"), con la conclusione che siano i versi "l'unico elemento da cui non ci si accomiata – mai."

sabato 26 gennaio 2019

Roberto Arlt – Scrittore fallito



Scrittore fallito è un'antologia che purtroppo poco aggiunge a quanto su Roberto Arlt già sapevo. Discutibile la scelta dell'editore di mescolare racconti provenienti da raccolte diverse (El jorobadito, El criador de gorilas ed altre) e che dimostra quanto discontinua sia la vena narrativa di questo autore.
Tra le composizioni di questo libro mi sono sembrate notevoli solo le prime due, quella che da il titolo al libro e soprattutto Ester Primavera, un gioiellino incentrato sulla cattiveria gratuita del protagonista che decide di interrompere sul nascere una relazione, condannando se stesso e la ragazza all'infelicità piuttosto che mettersi in gioco. Un personaggio per certi versi simile all'Erdosain de I sette pazzi e al protagonista de Il giocattolo rabbioso, una personalità oscura e tormentata che sceglie di condannarsi al rimorso perenne, all'espiazione, a una vita al negativo perché incapace di emozioni positive.

domenica 20 gennaio 2019

Roberto Arlt – Il giocattolo rabbioso




Memorie del sottosuolo

Roberto Arlt è stato un "irregolare" nel panorama culturale argentino, un battitore libero non attratto dalle tematiche estetizzanti degli intellettuali appartenenti al gruppo di Calle Florida, ma neppure organico a quelli del gruppo di Avenida Boedo, dei quali pure condivideva parte delle istanze, soprattutto sociali. Il giocattolo rabbioso è la sua opera prima, un romanzo di formazione di stampo realista che pesca parecchio nella biografia dell'autore, e che costituisce una lettura decisamente interessante e propedeutica a quella de I sette pazzi e I lanciafiamme.
In queste pagine ritroviamo infatti accennati alcuni dei temi che caratterizzeranno la sua produzione più matura, così come l'attenzione all'ambiente, alla Buenos Aires sul punto di diventare metropoli con l'inevitabile corollario di contraddizioni e conflitti tra vecchio e nuovo e quel sottosuolo di umili, violenti e trafficoni che abiterà tutta la produzione letteraria di Arlt.
C'è, fin dalle prime pagine, la letteratura: il rapporto con i libri, da quelli dozzinali a quelli importanti, dalle avventure di Rocambole (il personaggio dei romanzi popolari di Ponson du Terrail con il quale Silvio Astier, il ragazzino protagonista del romanzo, si identifica) a Baudelaire. La letteratura come fuga, contraltare a quella vita priva di soddisfazioni con la quale Silvio è chiamato a confrontarsi quotidianamente. E la difficoltà di accesso ai libri, affittati, rubati o presi in prestito, ma sempre presenti nelle avventure del nostro antieroe. C'è la sofferenza del vivere, la povertà, la fatica (l'impossibilità) ad alzare la testa dalla palude di un'esistenza di stenti, la sconfitta che segna tutte le sfide con le quali ci si deve confrontare e c'è, soprattutto, l'infamia, la scelta consapevole di fare i male allo scopo di condannare se stesso all'eterno disonore, infamia che segna in maniera drammatica l'ultimo capitolo del libro (Giuda iscariota) e che mi sembra essere un tema forte, probabilmente il più forte, di tutta la poetica arltiana e che qui è ancora una fiammella che balugina a sprazzi ma diventerà più avanti un fuoco impetuoso in grado di incendiare le pagine del dittico dello scrittore boarense.