domenica 21 aprile 2019

Clarice Lispector – Il segreto



 "e le sembrava inoltre di essere arrivata al limite di se stessa, là dove gioia, innocenza e morte si confondevano."

Secondo romanzo di Clarice Lispector, Il segreto segue di un paio d'anni Vicino al cuore selvaggio, e per certi aspetti ne continua la ricerca interiore che caratterizza del resto tutta la produzione letteraria della scrittrice brasiliana.
La trama di per sé è sottile ma l'opera è importante e ricca di spunti: romanzo di formazione, dramma psicologico e flusso di coscienza in puro stile tardo-modernista. Lispector scava nella personalità di Virginia: prima adolescente che vive di passioni, di devozione verso il fratello Daniel e che soprattutto si nutre di istanti, di ognuno dei quali cerca di arrivare al nucleo per succhiarne il nettare e poi ragazza che non sa (non vuole) liberarsi della sua parte infantile.
Virginia è consapevole di una diversità che la condanna alla solitudine ma è troppo attratta dalla sua interiorità per curarsi di quello che accade fuori da lei. Basta una vertigine, uno svenimento, o una specie di auto-ipnosi a sprofondarla dentro a se stessa, a proiettarla in quel mondo "ignoto e folle" del quale non sa fare a meno. E una volta sprofondata negli abissi della coscienza Virginia non sa più uscirne ("sì, sì, per poter esistere lei aveva bisogno di una vita segreta"), o meglio, quello a cui aspira è una coscienza "espansa", che attraverso il sogno le faccia superare i limiti della natura umana.
Nella geografia del suo mondo la realtà diventa menzogna, finzione che nasconde la verità e le parole strumenti inutili i quali lei preferisce le sensazioni. Vivere diventa così un gioco d'equilibrio "orribile e irrimediabile", una passeggiata sul filo che non può concludersi che con la caduta di Virginia.

sabato 13 aprile 2019

Jorge Baron Biza – Il deserto



V.I.T.R.I.O.L. (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem)

Il deserto è un'autobiografia romanzata, la storia della madre dell'autore sfregiata dall'ex-marito con l'acido e il racconto nelle parole del figlio della dolorosa ricostruzione del suo volto. Colpisce fin dall'inizio il tono impersonale con il quale il protagonista descrive il drammatico episodio, quasi un tentativo di prendere le distanze da una tragedia familiare che è un buco nero voracissimo che ingoia tutto quello che incontra ("Avevo deciso di improntare la mia vita all'esatto opposto, di essere tutto il contrario:" dice Mario/Baron Biza riferendosi al padre Arón/Raúl Biza "niente violenza, niente risentimento, niente ira. Dato che non mi sentivo un santo, comincia molto presto a praticare l'apatia").
È il male il tema del libro, un moloch che l'autore dapprima prova ad esorcizzare sforzandosi di vederlo come qualcosa di ridicolo ("l'idea che il male non fosse qualcosa alla portata della volontà, che se mai colpiva l'uomo era nella stessa forma che assume in natura: involontario, totale e assente, come nei deserti rocciosi"), e che poi cerca di sfuggire rifugiandosi nell'alcool e nella solitudine. Ma il male è dappertutto, ritorna sempre, anche negli anfratti, nelle storie minime della storia; solo una vecchia, verso la fine del libro, riuscirà a darne una chiave di lettura lucida e convincente, raccontando la sua sofferenza durante la guerra e descrivendo la differenza tra ira e odio, differenza che consiste nella presenza o meno della possibilità di riconciliazione. Senza riconciliazione si passa dall'una all'altra e poi, quasi inevitabilmente, alla follia che è uno stadio dal quale non si torna indietro, e quello di Arón era stato odio, male totale, deserto, perché aveva toccato la sacralità del volto dell'ex-moglie.
Apatia, fuga dalla realtà, rifugio nella bottiglia, sforzo di comprenderne le radici… Il deserto è un campionario dei tentativi compiuti da Baron Biza per sfuggire a un gorgo che sapeva l'avrebbe annientato; non mancano la ricerca del Bello (esemplari a questo proposito le pagine che dedica ai piccoli borghi dell'Italia, alla ricchezza artistica che spunta fuori un po' dappertutto nel nostro paese) ed anche un richiamo religioso ("mi trovo nel punto esatto in cui Dio non è più un sermone e diventa una necessità") che non a caso chiude il libro, ultima ratio destinata però al fallimento.
Troppo forte fu il peso da portare perché Jorge Baron Biza non ne finisse schiacciato, lasciando ai posteri un unico, meraviglioso, libro.

sabato 6 aprile 2019

Douglas Anthony Cooper – Amnesia



Holden 2.0 (e non solo)

Romanzo stranissimo, complesso e sorprendente, Amnesia è un viaggio ai confini del postmoderno, alla ricerca di nuova linfa per l'albero della narrativa. Una trama ricchissima e ingarbugliata che fin da subito si suddivide in sottotrame che si alternano procedendo in parallelo con ritmo incalzante, facendosi strada tra citazionismo, metaletteratura, metafore, sogni, narrazione per immagini e chissà quant'altro, per poi tornare al punto di partenza.
Un uomo entra nell'ufficio di un archivista della biblioteca e inizia a raccontare la sua storia, da qui tutto prende le mosse, in un crescendo ipnotico che finisce per attrarre il lettore dentro alle pagine del libro. È una frase di Freud, "la mente è come una città", l'idea forte sulla quale è costruita l'architettura dell'opera, una città fatta di vie che corrono parallele, si incrociano, si uniscono e poi si separano, ma anche di stradine, vicoli ciechi, edifici che con il tempo si modificano, si accrescono mantenendo sempre memoria degli strati precedenti, di com'erano un tempo. "Se vi dimenticherete della vostra storia, la casa crollerà su se stessa, vittima delle sue stesse impossibili fondamenta. Ma quando una casa crolla qualcosa fa sì che i ricordi vengano trascinati nella terra. Quando la casa non ci sarà più, ci disse, sarete in grado di leggere la sua storia dalle rovine". Un libro sull'importanza della memoria, dunque. E sui rischi collegati ad una sua perdita. "Trovare la storia e raccontarla,"- dice il protagonista - "raccontarla bene e ricordarla, così da non essere costretti a ritornare, strisciando nella gola", intendendo per gola ciò che è fuori dalla città, il limbo, il regno degli istinti, dell'irrazionale, di ciò che non ha strutturazione logica. La memoria che permette di non fermarsi all'impressione del momento ma di vedere le cose nel loro complesso, in un arco di tempo sufficiente a ragionare in maniera lucida, senza lasciarsi influenzare dalle passioni.
Difficile, almeno per me, afferrare tutti i mille fili di questo libro: Amnesia è anche un romanzo di formazione (seppur molto sui generis), una riflessione sui rapporti all'interno della famiglia e sui rapporti in generale, sullo sviluppo della personalità, sul linguaggio, sulla dicotomia ragione/sentimento, sul tempo… Amnesia è una lettura interessante e stimolante, da far sedimentare e poi riprendere più avanti perché si tratta di un libro che necessiterà di riletture.

sabato 30 marzo 2019

Marina Cvetaeva – Taccuini 1919-1921



"Io accolgo tutto come se me ne fossi già separata in anticipo."

Operazione coraggiosa e meritoria di Voland, perché probabilmente l'importanza letteraria e il valore storico dei Taccuini di Marina Cvetaeva sono inversamente proporzionali al  numero di copie che questo libro riuscirà a vendere.
Un autoritratto senza sconti, una lettura dalla quale emerge la figura di una pessima madre (almeno nei confronti della seconda figlia Irina) ma anche quella di una donna per la quale vita e poesia costituirono un unicum indivisibile (in questo mi ha fatto pensare a Sylvia Plath). Di più: una donna per la quale gli avvenimenti della vita – gli amori, ma non solo – rappresentarono la materia sulla quale poté esercitare la propria arte, il substrato su cui edificare un vertiginoso castello di parole e sentimenti ("Amo tutto ciò che mi fa battere forte il cuore. Sta tutto qui").
La realtà come tramite verso qualcosa di più alto: "ora, a 27 anni, mi piacerebbe provare a vivere per…", scrive a un innamorato, "Non per Voi – Mio Dio! – Voi non ne avete bisogno (e per questo non ne ho neanch'io!) – ma per così dire attraverso di Voi, - insomma Voi potete prendermi per mano e condurmi direttamente a Dio". E ancora: "per me 'scrivetemi' è lo stesso che 'amatemi', perché amare senza scrivere posso ancora farlo, mentre scrivere senza amare...".
La poesia sopra ogni cosa:  "Voi siete troppo convinto che i versi siano solo versi. Non è così, per me non è così, io, quando scrivo, sono pronta a morire! E molto tempo dopo, rileggendo, mi si spezza il cuore. Io scrive perché non riesco a dare questo (la mia anima!) – altrimenti".


sabato 23 marzo 2019

Juan José Saer – Glossa



Il nicciano anti-socratico.

Romanzo esistenziale di raffinata eleganza di uno degli autori sudamericani più importanti del secondo Novecento, Glossa è anche racconto della drammatica situazione argentina ai tempi della giunta militare, indagine filosofica dei meccanismi che sottendono i nostri comportamenti, ma soprattutto grande letteratura. Opera formalmente perfetta, attenta ad ogni aspetto della narrazione, dalla scelta curatissima degli aggettivi, alle descrizioni precise dei comportamenti che accompagnano i pensieri dei protagonisti. Il tutto espresso attraverso un ritmo che mutua alcuni aspetti dell'oralità e che ben si accorda alla trama, con l'uso sapiente di analessi e prolessi che danno profondità e respiro al racconto e di metafore convincenti (una su tutte: le tre zanzare che rappresentano i protagonisti del libro).
Glossa è la storia di una passeggiata per le strade del centro di Buenos Aires durante la quale Leto incontra il Matematico e della descrizione che quest'ultimo fa di una festa alla quale nessuno dei due ha partecipato, quella per il compleanno di Washington, un conoscente comune. Ognuno dei due organizza nella propria testa le immagini e gli episodi di quella sera secondo i suoi schemi, immagini ed associazioni che con il tempo si legheranno in maniera non più districabile e andranno a formare ricordi basati su impressioni più che sull'esperienza diretta: l'oggettività non esiste, esiste solo il punto di vista, l'interpretazione.
Interessante osservare come la costruzione del romanzo ricordi, per certi versi, i dialoghi platonici. Probabilmente non è un caso, anche se forse quello che Saer vuole sottolineare attraverso l'analogia della forma è la dissonanza con il pensiero socratico: tutto è interpretazione.
Paradigmatiche, a questo proposito, sono le parole che l'autore dedica a Leto: "Molti anni dopo saprà, grazie a prove successive, che ciò che altri chiamano carattere, stile, personalità non è altro che una serie di ripetizioni irrazionali la cui natura è oscura soprattutto all'individuo che costituisce il terreno su cui si manifestano, e ciò che altri chiamano vita è una serie di riconoscimenti a posteriori dei luoghi in cui una deriva cieca, incomprensibile e senza fine va depositando, loro malgrado, gli individui eminenti che dopo essere stati trascinati da essa si mettono a elaborare sistemi che pretendono di spiegarla, ma per il momento, a vent'anni appena compiuti, crede ancora che i problemi abbiano una soluzione, le situazioni uno sviluppo, gli individui un carattere e gli atti un significato." Un Saer anti-socratico, che sembra porsi senza indugi sulla scia di Nietzsche.
Ma c'è di più: anche il dialogo, la comunicazione appaiono all'autore difficili, per non dire impossibili. Più che conversare, Leto e il Matematico seguono il corso dei loro pensieri, le conversazioni sono in realtà il frutto di incroci casuali, come due rette che si incontrano in un punto ma che stanno seguendo traiettorie diverse. Ognuno parla a se stesso, vive la propria storia che non è e non può essere quella dell'altro: la verità assoluta non esiste.