"Io accolgo tutto come se me
ne fossi già separata in anticipo."
Operazione
coraggiosa e meritoria di Voland, perché probabilmente l'importanza letteraria
e il valore storico dei Taccuini di
Marina Cvetaeva sono inversamente proporzionali al numero di copie che questo libro riuscirà a
vendere.
Un
autoritratto senza sconti, una lettura dalla quale emerge la figura di una
pessima madre (almeno nei confronti della seconda figlia Irina) ma anche quella
di una donna per la quale vita e poesia costituirono un unicum indivisibile (in
questo mi ha fatto pensare a Sylvia Plath). Di più: una donna per la quale gli
avvenimenti della vita – gli amori, ma non solo – rappresentarono la materia
sulla quale poté esercitare la propria arte, il substrato su cui edificare un
vertiginoso castello di parole e sentimenti ("Amo tutto ciò che mi fa
battere forte il cuore. Sta tutto qui").
La
realtà come tramite verso qualcosa di più alto: "ora, a 27 anni, mi
piacerebbe provare a vivere per…", scrive a un innamorato, "Non per
Voi – Mio Dio! – Voi non ne avete bisogno (e per questo non ne ho neanch'io!) –
ma per così dire attraverso di Voi, - insomma Voi potete prendermi per mano e
condurmi direttamente a Dio". E ancora: "per me 'scrivetemi' è lo
stesso che 'amatemi', perché amare senza scrivere posso ancora farlo, mentre
scrivere senza amare...".
La
poesia sopra ogni cosa: "Voi siete
troppo convinto che i versi siano solo versi. Non è così, per me non è così,
io, quando scrivo, sono pronta a morire! E molto tempo dopo, rileggendo, mi si
spezza il cuore. Io scrive perché non riesco a dare questo (la mia anima!) –
altrimenti".
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