sabato 25 maggio 2019

Juan Octavio Prenz – Il signor Kreck



Non alla moglie, né allo stato e neppure al lettore

Buenos Aires, anni Settanta. Rodolfo Kreck è un uomo ordinario: emigrante istriano, assicuratore, "incline sempre a riflettere sul passo più prudente da fare", "attaccato alle circostanze immediate" e convinto fin da giovane "che quando si viaggia il bagaglio più importante è se stessi", uomo le cui riflessioni "escludevano l'illusione o il sogno facile, che Kreck considerava imperdonabili, frutto, piuttosto, dell'impazienza". Un uomo che si muove nel mondo con circospezione, cercando di passare inosservato e che anche nelle scelte del cuore è "più attratto dall'aspetto di serietà che non dalla bellezza della ragazza". Corretto e rigoroso, Kreck "provava orrore anche per la più piccola bugia e si era sempre imposto il silenzio quando in qualche circostanza particolare non poteva dire la verità". "Lo si sarebbe a stento potuto separare, a prima vista, dall'idea convenzionale dell'impiegato corretto, quasi anonimo, il cui compito sembrerebbe consistere in una stessa e infinita risistemazione di circostanze che si ripetono ugualmente all'infinito. Solo che Kreck" – scrive Prenz – " prendeva questa apparentemente miserabile consuetudine come una vasta geografia sulla quale poter dispiegare quella felicità minima, quotidiana, di osservare il vasto mondo che lo circondava."
Un uomo qualunque che osserva il mondo con occhio contemplativo,  impegnato a comprendere il senso del quotidiano e a vivere più dentro di sé che fuori e che ad un certo punto decide di affittare un appartamento, tenendo tutti all'oscuro della sua decisione.
È concesso all'uomo ritagliarsi uno spazio privato, che sia solo suo, senza dover giustificare i motivi di questa scelta alla moglie, ai colleghi e neppure al lettore? Non nell'Argentina degli anni Settanta, quella dei Generali e dei desaparecidos, uno stato di polizia  dove ogni comportamento del singolo è spiato e poi interpretato in termini di pericolosità per il potere, uno stato dove "la giustizia è un'astrazione e ciò che si vede sotto il suo nome non sono che i meccanismi che ogni società ha per difendersi dai propri nemici".
Kreck diventa così un personaggio kafkiano, la vittima di un sistema che non riesce a comprendere e cerca di adattarsi alla vita da recluso con la stessa docilità con cui  da emigrante si era adattato alla vita nel Nuovo Mondo. Non c'è rabbia da parte sua, solo incredulità e difficoltà a capire le cose del mondo, gli uomini, la politica.
Prenz conduce la trama con un ritmo compassato e preciso che ricorda l'ultimo Saramago e attraverso una narrazione a più voci si arriva a un finale diverso da quello che si immagina e ad un sorprendente cambiamento di paradigma che trasforma il libro da romanzo dell'assurdo in romanzo dell'assenza. Kreck non si piegherà e il segreto della sua doppia vita sarà destinato a restare tale, l'oscurità che regna sopra la superficie trasparente del suo animo non si svelerà e a nessuno sarà mai permesso di accedere alla sua interiorità, non alla moglie, né allo Stato e neppure al lettore.

domenica 19 maggio 2019

Olga Tokarczuk – I vagabondi



"Muoviti, vai. Beato è colui che parte."

I vagabondi è un romanzo molto sui generis, costituito da frammenti più o meno eterogenei legati tra loro dalla voce dell'autrice che spesso racconta in prima persona e dall'argomento trattato che è quello del nomadismo. Attenzione, però: il libro è del 2007, qui si parla di un vagabondare per scelta e non per necessità, questo per dire che la questione dei migranti non sembra essere uno degli obiettivi della Tokarczuk.
La narrazione per episodi era già stata sperimentata dalla scrittrice polacca in Casa di giorno, casa di notte ma lì era giustificata dalla volontà di fare emergere l'anima del villaggio di Nowa Ruda attraverso le vicende dei suoi personaggi, brandelli di vita vissuta che andavano a cucire insieme un tessuto quanto mai colorato, qui invece la frammentarietà sembra essere elevata a sistema, quasi fosse l'unico modo per raccontare la complessità e la pluralità di voci che caratterizzano i nostri tempi.
I vagabondi è il racconto di mille viaggi: nel tempo e nello spazio, nella realtà e nella fantasia e anche all'interno del corpo umano, ma è anche un viaggio tra le pagine del libro, un girovagare sulle ali della curiosità senza uno scopo preciso, senza una meta da inseguire. Certo, per viaggiare sono necessarie le mappe e Tokarczuk non dimentica nemmeno queste: tentativi di schematizzare, di rappresentare la realtà, di collegare un punto ad un altro illudendosi che dare un nome a cose e luoghi significhi conoscerli, uno strumento per approssimarsi all'intero senza mai raggiungerlo perché i collegamenti tra le cose sono casuali, inesplicabili e allora la mappa che ci ritroviamo in mano sembra creata dal cartografo Zenone «secondo cui ogni distanza è in sé infinita, ogni punto apre un nuovo spazio impossibile da percorrere e ogni movimento è un'illusione, ciascuno di noi viaggia sul posto.»
Il viaggio come fine e non come mezzo, muoversi non per arrivare da qualche parte ma per sfuggire al controllo, per non dare punti di riferimento a che vuole controllarci:
«Dondola, continua, muoviti.» diceva con tono apocalittico la Fuggiasca Intabarrata «É l'unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte.
Quindi vai, dondola, cammina, corri, scappa perché il momento che ti dimenticherai e ti fermerai, le sue grandi mani ti afferreranno e ti trasformeranno in un burattino. […] Lui trasformerà la tua anima scintillante e colorata in una piccola anima piatta, ritagliata dalla carta, dal giornale, e ti minaccerà con il fuoco, con la malattia e la guerra, ti spaventerà fino a quando perderai la pace e smetterai di dormire. Ti contrassegnerà e ti iscriverà nel suo registro, ti darà un documento della tua caduta. Ti occuperà la mente con cose poco importanti, cosa comprare e cosa vendere, dove conviene di più e dove è più caro. Da questo momento ti preoccuperai di inezie. […]
Per questo i tiranni di ogni tipo, servitori infernali, hanno nel sangue l'odio per i nomadi – per questo perseguitano i gitano e gli ebrei, per questo costringono a diventare sedentarie tutte e persone libere, marcandole con un indirizzo che diventa la nostra sentenza.
Quello che vogliono è costruire un ordine solido, rendendo il trascorrere del tempo soltanto un'apparenza. Vogliono che i giorni si ripetano tutti uguali e non si distinguano e costruire una grande macchina nella quale ogni creatura dovrà occupare un proprio posto ed eseguire movimenti apparenti. […]
Vogliono bloccare il mondo con l'aiuto di codici a barre, etichettare ogni cosa, che sia chiaro di che prodotto si tratti e quanto costa. Che questa nuova lingua straniera sia illeggibile agli uomini, che la possano leggere soltanto le macchine e i distributori; così che di notte, nei grandi negozi sotterranei, possano organizzare letture delle proprie poesie in codici a barre.
Muoviti, vai. Beato è colui che parte.»

sabato 11 maggio 2019

Ádám Bodor – Boscomatto



C'è ancora tempo per la speranza?

Boscomatto è un libro strano ad iniziare dal titolo, perché in realtà qui non si parla mai di un bosco matto ma, eventualmente, di un bosco muto e allora meglio sarebbe stato attenersi alla traduzione letterale del titolo originale, gli uccelli della Verhovina.
Un libro nel quale ritroviamo le atmosfere sinistre di Satantango di Krasznahorkai ma anche personaggi bislacchi che ricordano quelli de La scuola degli sciocchi di Sokolov, come Danczura con la sua camicia gialla con la quale attira le farfalle che poi si mangia, la signorina Klara Burszie che trascorre il tempo in attesa che si avveri il vaticinio che le è stato fatto dell'arrivo di un ufficiale ungherese che la porti via da lì, la sarta Aliwanka che profetizza utilizzando l'acqua, Nika Karanika che è in grado di richiamare i morti alla vita e mille altre strane figure di cui è inutile sta qui a dar conto.
Il paesino di Jablonska Poljana sperso nella regione della Verhovina cui si accennava, è un microcosmo inospitale abbandonato anche dagli uccelli che dopo esser stati respinti dall'uomo hanno ormai rinunciato a nidificare in quelle zone; quello dipinto da Bodor è un mondo in disarmo, abitato da silenzi e da strani uomini che sembrano vivere più per abitudine che per convinzione. Un mondo chiuso, che sembra essere controllato dall'esterno, con il tempo che è diventato un lunghissimo presente ("Scuoto la testa, lo sguardo, alzo gli occhi al cielo: domani? Dopodomani? Anche quello è ormai oggi."). Si vive nell'attesa e nel timore di qualcuno che arrivi da fuori a cambiare la status quo, un qualcuno che si ignora chi sia e non si sa perché dovrebbe sovvertire quell'ordine. Un libro di atmosfere, più che di fatti, con la sensazione di incombenza e insieme di ineluttabilità ed inesplicabilità che accompagna il lettore dalla prima all'ultima pagina. Boscomatto è il racconto della lunga attesa di una comunità ("Attendiamo che magari venga qualcuno. […] A dire il vero attendiamo solo il passare del tempo.") che ha messo la sordina ai sentimenti  e che riesce a provare al massimo pulsioni perché quando qualcuno dei personaggi prova ad avvicinarsi ad un altro sembra aver dimenticato il modo di farlo, i gesti, le parole: gli abitanti di  Jablonska Poljana sono uomini e donne disabituato al contatto, induriti dalla vita.
Un microcosmo che sembra essere la metafora della nostra società: le cose succedono – sembra dire Bodor – ed è inutile provare a dare loro un senso perché la vita non ha senso e l'unica possibilità che ci è data è quella di provare ad adattarci ad essa per non finire travolti da quello che sarà.
Boscomatto è il racconto di un lungo crollo, la morte di un sistema per autoconsunzione, un gran libro, elegante ma duro, che sembra non lasciare spiragli di luce al lettore. Attenzione, però, perché alla fine si affacciano in cielo dei piccoli uccelli, i codirossi: c'è ancora tempo per la speranza?

sabato 4 maggio 2019

Emanuele Trevi – Qualcosa di scritto




Con Qualcosa di scritto  Trevi affronta Petrolio, l’opera incompiuta di Pasolini, e lo fa dicendo fin da subito che a suo avviso si tratta di un libro spartiacque per la storia della letteratura che da quel momento in poi subirà un vistoso cambiamento di prospettiva:
“Fino alla fine, insomma, P.P.P. lavorò da perfetto rappresentante dell’età moderna, senza sapere che era uno degli ultimi. […]
Finché è durata, la modernità ha convinto tutti di essere eterna. Ogni generazione alzava l’asticella, come un saltatore che si mette alla prova, e trovava la maniera di scavalcarla. Poi, all’improvviso, proprio nel periodo in cui lo scartafaccio di Petrolio aspetta nell’ombra il suo momento, questa prodigiosa macchina si arresta – forse per sempre. Non che la letteratura «muoia», come da più di cent’anni si sperava o si temeva (o tutte e due le cose insieme). Rimane – ahimè – più viva e vegeta che mai: semmai restringe drasticamente, una volta per tutte, le sue potenzialità e le sue prerogative. […]
A metà degli anni Ottanta, lo scrittore più significativo della sua epoca è sicuramente Raymond Carver. Artista tutt'altro che modesto rappresenta alla perfezione lo straordinario cambiamento che si è verificato. Nei suoi libri, noi assistiamo allo sconcertante spettacolo di una letteratura che non pensa più nulla. L’unico compito che lo scrittore si assegna è quello di essere uno storyteller. L’unico mondo di cui parla, è quello che conosce empiricamente – la porzione di gabbia che gli è toccata in sorte. L’unica sua speranza, è che quelle storie piacciano a un buon numero di lettori.”
Insomma: Trevi ci va giù duro, tanto per mettere le cose in chiaro su come la pensa.
Di più: in Qualcosa di scritto, Petrolio travalica l'ambito del romanzo, finendo per costituire una sorta di "iniziazione", il libro sacro del culto del dio Pier Paolo Pasolini, al quale veniamo introdotti dalla figura della sacerdotessa pazza Laura Betti.
Entriamo in una dimensione mistica che comprende anche un pellegrinaggio ad Eleusi: Petrolio si dilata fino a diventare un "rito", un tentativo di andare oltre la realtà nella quale viviamo e il doppio (la metamorfosi sessuale, ma anche il binomio violenza/pietà) diventa lo strumento per avventurarsi in territori inesplorati alla ricerca della visione suprema:
"P.P.P. ha scoperto l’orrenda verità che si nasconde dietro le apparenze, e bussa alle porte dei suoi simili per comunicare le sue scoperte prima che arrivi qualcuno a farlo fuori. Bisogna insistere sul modo della conoscenza, che è corporeo prima che intellettuale, ed è la diretta conseguenza di uno stile di vita, non di un sistema di pensieri e definizioni. L’intellettuale, lo scrittore, in genere è un individuo che possiede un corpo come tutti gli altri, e ne può godere come tutti gli altri, ma al momento di conoscere, conosce solo con la sua mente, mentre P.P.P. butta nella mischia ogni centimetro, ogni grammo della sua carne."

domenica 28 aprile 2019

Emanuele Trevi – Sogni e favole: un apprendistato



Come un sasso nell'acqua

Questo libro mi ha fatto subito pensare all'immagine del sasso che da bambini gettavamo nell'acqua e a come osservavamo affascinati le onde concentriche che generava la sua caduta.
Un andamento a spirale che si nota già a partire dalla scrittura, che non è quello che sembra, nel senso che il libro parte come un romanzo, ma un romanzo "ibrido", che si allarga man mano verso altri generi letterari, come il saggio e l'(auto)biografia.
Ma è un sonetto del Metastasio il nucleo forte, il "sasso" che da il là alla formazione dei cerchi nell'acqua: si tratta di versi che fanno riferimento a come l'immedesimazione dell'autore sul suo mondo interiore generi in lui emozioni vere e che si espandono in anelli sempre più ampi coinvolgendo non solo lo scrittore ma anche il lettore e i suoi sentimenti, in una carrellata che collega Metastasio, Puskin, James, Kafka e Pessoa.
Quelle di Trevi sono riflessioni che partono dalla solitudine dell'uomo e si allargano al suo bisogno di finzione, di qualcosa che lo aiuti a sopportare la realtà, anzi a crearne un "credibile surrogato". C'è necessità di storie – dice l'autore – di una narrazione in cui credere, di indossare maschere che sappiamo essere una menzogna ma che pure ci servono a vivere, a conferirci un'identità, perché "dietro questa apparente infinità di maschere c'è un vuoto uniforme, uno smarrimento universale, nessuno si orienta, nessuno se la cava veramente".
La narrazione, la poesia, la pittura, la fotografia (il ritratto) rappresentano così altrettante finzioni, ma necessarie, perché è solo attraverso l'Arte che l'uomo può aspirare al passaggio dal particolare all'universale, all'assoluto, "quella porzione irriducibile di vita concreta che si sottrae ad ogni forma di genericità, che vale solo per chi la vive, e che fa di ogni essere umano il primo e l'ultimo della sua specie, senza colleghi, senza fratelli, senza nessuno dietro cui ritirarsi al momento decisivo, quello in cui tutte le regole si dissolvono nell'eccezione che sei tu, solo tu."
Si torna così al punto di partenza, alla solitudine dell'uomo, che chiude l'ennesimo cerchio di un viaggio colto e ricco di spunti di riflessione.