da piccola era capace di giocare un pomeriggio intero con una parola. Lui le chiedeva allora di inventarne di nuove. E lei non l’aveva mai desiderato tanto come in quei momenti. «Dimmi di nuovo cos’è Lalande» implorò lui. «È come lacrime d’angelo. Sai cosa sono le lacrime d’angelo? Come dei piccoli narcisi, che la minima brezza fa inclinare da una parte all’altra. Lalande è anche il mare all’alba, quando non un solo sguardo ha ancora sfiorato la spiaggia, quando il sole non è ancora nato. Ogni volta che dirò Lalande, dovrai sentire la brezza fresca e salata del mare, dovrai camminare lungo la spiaggia ancora buia, lentamente, nudo. Fra poco sentirai Lalande...
domenica 28 maggio 2017
domenica 30 aprile 2017
Samuel Beckett – Molloy
Allora rientrai in casa e scrissi, È mezzanotte.
La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte- Non pioveva affatto.
Ogni libro di Beckett è come un viaggio verso un
altrove sconosciuto. Ci si entra dentro in punta di piedi, poi si procede
guardandosi intorno con circospezione e quando meno ci se lo aspetta ci si
ritrova persi in mezzo al bosco, senza punti di riferimento che possano
indirizzare il nostro cammino.
Molloy non fa eccezione, anzi è paradigmatico in
questo senso. Beckett introduce da subito il protagonista con una narrazione in
prima persona dal ritmo martellante che attira il lettore nelle spire del
racconto. È nella camera della madre, non sa se lei è morta e da quando. È lì a
scrivere per qualcuno che tutte le settimane viene a prendere i fogli e a
pagarlo per il suo lavoro. Racconta di essere in attesa della fine e che nel
frattempo dimentica a poco a poco tutto quello che gli è successo. Parla della
gente che passa, di uomini senza nome che si incontrano e poi proseguono sulla
loro strada. Persone sole, che vanno seguendo le loro ragioni e poi spariscono.
Parla del suo viaggio alla ricerca della madre e della casa, attraverso una
città che non conosce. Parla e intanto subisce un processo di decomposizione,
invecchia rapidamente, perdendo anche l’uso della gamba buona.
Un viaggio che ricorda quello di Ulisse dove ogni
cosa è deformata come in un quadro di Bacon: l’eroe è un antieroe, l’oceano una
città indefinibile, Nausicaa una Lousse priva di grazia e così via. Un viaggio
allucinante che non approda a nulla, un viaggio al qual succede un altro
viaggio, quello di Moran alla ricerca di Molloy.
Se Molloy è pagato per scrivere, Moran è pagato
per cercare, se Molloy cerca la casa della madre, Moran cerca Molloy, se il
viaggio di Molloy ricorda l’Odissea quello di Moran rammenta a tratti la Bibbia
in un gioco di specchi nel quale Moran sembra un proto-Molloy nel senso che quello
che inizialmente ci viene presentato come il classico borghese finisce per subire
per strada un processo di disfacimento nel fisico e nella mente fino a
diventare quello che Molloy è all’inizio del racconto.
Una narrazione serrata, una spirale che ci
avvolge, la sensazione di finire avvitati in un loop che corre sempre più
veloce, fino a perdere il controllo di quello che succede intorno a noi.
Succede di sentirsi risucchiati da una forza esterna, al centro del vortice
generato dallo sciacquone tirato da una mano sconosciuta, vittime inconsapevoli
di un estremo Infinite Jest.
domenica 23 aprile 2017
Juan Carlos Onetti – Per una tomba senza nome
Tutti noi sappiamo com’è
un funerale a Santa María…
…Ma questo non lo sapevamo.
C’è molto Onetti in questo racconto. Sembra quasi
di vederlo, il grande maestro, mentre prende una storia come tante, quella della
morte di Rita e del suo caprone, e si dirige verso la finestra, sollevandola
verso l’alto chiudendo prima un occhio e poi l’altro per osservarla in
controluce. Lo seguiamo discreti mentre si avvicina con passo pesante al tavolo
da lavoro, spegne con cura la sigaretta nel portacenere, poi si siede e inserisce
con gesti precisi la storia all’interno del suo caleidoscopio. Lo osserviamo in
silenzio, mentre si toglie gli occhiali, sfrega due dita sugli occhi e poi si piega
sullo strumento, iniziando a maneggiarlo con cura. Non ha fretta di terminare
il lavoro, ogni tanto distoglie lo sguardo e poi si china di nuovo, aggiustando
più volte l’apparecchio fino a quando non è soddisfatto. Solo allora alza la
testa e fa un cenno verso di noi, porgendoci il caleidoscopio e invitandoci finalmente
a guardare. Ed ecco la meraviglia: la storia di Rita e del suo caprone non
esiste più, si è dissolta, scomposta. Al suo posto ci sono le storie: quella di
di Jorge Malabia, quella del suo amico Tito Perotti, quella del dottor Diaz
Grey (chi si rivede!). Al posto della storia di Rita e del suo caprone c’è ora la
storia di Onetti.
Per una tomba senza nome ci parla del bisogno dell’uomo di costruire storie e insieme dell’impossibilità
di approdare con esse a qualcosa di sicuro e definito. Onetti si premura di togliere
al lettore qualsiasi appiglio, facendo piazza pulita di ogni certezza, a
cominciare dallo scenario che sceglie per fare da sfondo agli avvenimenti, un’estate
bugiarda che incarna “le illusorie
promesse di tante estati precedenti”, per proseguire con gli stessi
personaggi, uomini che percorrono la strada della vita trascinandosi dietro il
loro bagaglio di contraddizioni. Contraddittorio è il ragazzo, Jorge, spaccone
e vigliacco al tempo stesso, che fugge quell’onda che racconta di voler
cavalcare. Contraddittorio è il dottore, cinico e solitario, una monade che
osserva il mondo come se lui ne fosse da tempo al di fuori.
“Nessuno può
capire”, dice ad un certo punto il giovane. Ma nessuno può smettere di
provare a capire, a cercare di costruire la sua storia.
E allora avanti, con quell’insieme di fatti,
reticenze, interpretazioni e menzogne di cui ogni storia che si rispetti è
impastata. Brandelli, perché come dice Jorge “i brandelli che mi si presentavano via via erano ben separati da ogni
brandello precedente, soprattutto dal tempo e dalle cose che avevo fatto negli
intervalli tra uno e l’altro. Non ho mai veramente veduto lo storia nella sua
completezza. […] Tutti i brandelli sella storia che riuscii a ricordare mi
servivano soltanto ad attizzare la mia pietà, a restare in quelle ore dell’alba
nel punto esatto della sofferenza che mi faceva felice; un poco al di qua delle
lacrime, che mi sentivo nascere dentro e non uscire. […] E neppure quando
parlavo con Tito della storia sono riuscito a sentirla come una cosa completa,
con il suo ordine illusorio, ma implacabile, come qualcosa con un principio e
una fine, come qualcosa di vero, insomma.”
Quel che resta, alla fine, quando dopo aver
guardato nel caleidoscopio lo restituiamo nelle mani di Onetti, è nulla, come
ci dice lo stesso dottor Diaz Grey, “una
confusione senza speranza, un racconto senza un finale possibile, dai
significati incerti, smentito dagli stessi elementi di cui disponevo per
comporlo”.
domenica 16 aprile 2017
Poeti
Non ho mai capito la musica, un’arte che noi non coltiviamo o coltiviamo molto raramente. In realtà non coltiviamo e quindi non comprendiamo quasi nessuna arte. A volte salta fuori, mettiamo, un topo che dipinge, oppure un topo che scrive poesie e inizia a recitarle. Normalmente non ridiamo di lui. Anzi lo commiseriamo, perché sappiamo che la sua vita è votata alla solitudine. Perché alla solitudine? Be’, perché per il nostro popolo l’arte e il godimento dell’opera d’arte sono un esercizio impossibile, per cui le eccezioni, quelli diversi, scarseggiano e se, per esempio, arriva un poeta o un banale declamatore, la cosa più probabile è che non nasca un altro poeta o declamatore fino alla generazione successiva, per cui il poeta si vede privato dell’unico che forse potrebbe apprezzare i suoi sforzi. Questo non vuol dire che la nostra gente non si fermi nella sua frenesia quotidiana ad ascoltarlo e addirittura applaudirlo o non presenti una mozione perché al declamatore sia permesso di vivere senza lavorare. Al contrario, facciamo tutto quello che è nelle nostre possibilità, che non è molto, per dare al diverso una parvenza di comprensione e affetto, perché sappiamo che, in fondo, è un essere bisognoso d’affetto. Alla lunga però tutte le parvenze crollano come un castello di carte. Viviamo nella collettività e la collettività ha bisogno soltanto del lavoro quotidiano, dell’attività costante di ognuno dei suoi membri per un fine che trascende le aspirazioni individuali e che, tuttavia, è l’unico a garantire la nostra esistenza come individui.
[Roberto Bolaño: "Il gaucho insopportabile"]
sabato 15 aprile 2017
Luigi Serafini – Codex Seraphinanus
“Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità
d'esecuzione.“
E non solo. Dopo la lettura del Codex, potremmo integrare la definizione
di genio data dal grande Perozzi in questa maniera: genio è (anche) capacità di
inventare qualcosa di nuovo partendo da un materiale strausato.
Parliamo del materiale-libro in una delle sue
varianti più noiose: l’enciclopedia.
Già, il Codex
è più di un triplo salto mortale senza rete, più di una scalata di un ottomila,
più di un salto dalle cascate del Niagara dentro ad una botte, più…, più. Con
il Codex Serafini sfida le leggi della narrativa e
le stravolge scrivendo un libro stranissimo, nel quale l’iconografia mescola
immagini di fantasia con altre riconoscibili ma usate fuori dal loro contesto
abituale e la scrittura è in una lingua asemica, fatta di segni che si
ripetono, di maiuscole e minuscole, di tratti in grassetto, quasi a indicare la
presenza di regole che pure sono destinate a rimanerci sconosciute.
Non comprendete le tavole che vi propongo? –
sembra dirci l’autore – Nessun problema, ecco in calce la spiegazione. Peccato
che anch’essa rimanga fuori dalla nostra portata, in una specie di gioco che da
una parte ci attira e dall’altra ci rimbalza, ci spinge a cercare di
comprendere e poi ci nasconde gli strumenti necessari.
Uno scherzo? Forse, ma non solo.
Un passatempo per bibliofili un po’ snob?
Sicuramente.
Un modo di épater le bourgeois? Possibile.
Il Codex
è tutto questo e anche molto di più: un libro da leggere con il cuore di un bambino
e la testa di un adulto, camminando in bilico tra sonno e veglia, fantasia e
ragione. Forse quello che ci chiede il Codex
non è capire, spiegare, dare un senso, trovare una trama, procedendo in
linea retta dall’inizio alla fine… ma lasciarci andare, seguire il ritmo, la
nostra musica, aggirandoci tra le pagine del libro come tra i fiori di un
prato, lasciandoci colpire da una figura, da un accostamento di immagini, da un
gesto.
Rimettere il lettore al centro. Suscitare
emozioni, ricordi, pensieri. Far vivere un’immaginazione troppo spesso tenuta controllata
da mille regole, questo credo sia lo scopo del Codex.
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