sabato 25 agosto 2018

Tom McCarthy – C



C è un romanzo complesso, che dietro l’apparenza di uno stile “classico” nasconde una ricerca quanto mai moderna. In superficie corre una trama lineare ma metafore, sottotesti, simboli e intertestualità aprono gli spazi a interpretazioni e chiavi di lettura che scavano parecchio in profondità. Un Pynchon travestito da E.M. Forster, verrebbe da dire, per un libro che si può leggere sia in orizzontale che in verticale.
Le vicende di Serge Carrefax, il protagonista della storia sono legate a doppio filo con il tema portante del romanzo, la divulgazione delle informazioni: da quella verbale al linguaggio dei segni, dai primi esperimenti di trasmissione senza fili  alle onde sonore ai messaggi subliminali, con corollario di crittografia e interferenze. Terreno complesso sul quale si combattono  conflitti non da poco, come quelli tra ordine e disordine, superficie e profondità, corpo e anima, razionalità e arte.
C è un romanzo circolare (che inizia e finisce con il richiamo kafkiano allo scarabeo) e complesso, a cominciare dal titolo che allude in mille direzioni diverse senza indicarne nessuna: C come Carrefax, ma anche come cloroformio (che usa la madre di Serge), cianuro (la sorella) e cocaina (il protagonista stesso). C come crittografia, carbonio… C come altre mille parole che saltano fuori dalle pieghe della storia e che individuano altrettante piste che il lettore potrà divertirsi a seguire, magari con il rischio di approdare lontanissimo da dove era partito.  
C, in ultima analisi è un romanzo sul messaggio e sulla sua interpretazione, sulla ricerca del punto ultimo, quello dove spazio e tempo si fondono, sul tentativo di trovare un senso alla vita, senso che McCarthy, in accordo con la sua appartenenza alla International Necronautical Society, sembra voler individuare nella morte.

Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo;
Né muove da né verso; al punto fermo, là è la danza,
Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,
Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,
Né ascesa né declino. Tranne che per il punto, il punto fermo,
Non ci sarebbe danza, e c'è solo la danza. (T.S. Eliot – Quattro quartetti)

sabato 18 agosto 2018

Tom McCarthy – Déjà-vu



Circoletto rosso

Reminder (questo è il titolo originale dell’opera) come ricordo ma anche come residuo, rimanenza.
Il libro racconta la storia di un uomo colpito da un oggetto non precisato che gli ha provocato la perdita della memoria e che lo ha costretto a reimparare i movimenti, a capire il significato di ogni singolo gesto prima di poterlo, lentamente, mettere in atto. Un risarcimento multimilionario e il déjà-vu di un momento del passato (o forse inesistente) saranno la molla che porterà il protagonista a cercare di rivivere quel momento specifico e più in generale tutti quelli in grado di farlo sentire vivo e sereno inscenando delle rappresentazioni il più accurate possibili. Il risultato sarà però quello di trascinare l’uomo in un gorgo mortale, una coazione a ripetere fatta di continue limature, di gesti rallentati all’infinito alla ricerca di una perfezione impossibile da raggiungere perché l’asticella delle sue ambizioni si alzerà ogni volta di una tacca, rilanciando la sfida a se stesso fino a precipitarlo in un loop senza via d’uscita.

Déjà-vu è un’opera sorprendente, una scatola magica che una volta aperta esplode contenuti, idee e suggestioni in ogni direzione. C’è il tema della memoria, intesa come unico luogo dove l’uomo riesce a essere autentico, ma c’è anche il suo contraltare, quei falsi ricordi che stanno lì a ricordarci quanto la memoria a volte possa essere fallace. Il tema della memoria è inevitabilmente un chiaro richiamo a Proust ma quella che ne fa McCarthy è una rilettura attualizzata perché qui non c’è solo l’interiorizzazione del ricordo ma anche tentativo di portarlo fuori, di inserirlo nelle realtà. C’è poi il tema del denaro, come serpente tentatore che si insinua nelle nostre vite e le cambia. C’è il solipsismo, l’incapacità a vivere con gli altri, l’uso degli altri per perseguire la propria felicità. C’è la ricerca della spontaneità, la consapevolezza che siamo tuti attori che recitano una parte (viviamo per recitare e recitiamo per vivere). Ci sono riflessioni sul tempo che l’uomo cerca di manovrare, manomettere, rallentare per diventarne il dominus, con risultati disastrosi. Ci sono riflessioni sull’arte (con un accenno michelangiolesco allo  sbarazzarsi della materia in eccesso). C’è il tema dell’inganno delle parole, che possono significare altro da quello che sembrano (come reminder), parole che rappresentano un terreno minato perché, analogamente al ricordo, se ripetute all’infinito si trasformano in qualcosa di diverso. E c’è, appunto, l’infinito, simboleggiato dal numero otto che si ripete dall’inizio alla fine del libro, il simbolo della ricerca di assoluto, di una perfezione irraggiungibile che porta l’uomo che tenta di trascendere il limite a precipitare nell’abisso.
Déjà-vu  è un’opera vertiginosa e Tom McCarthy è l’avanguardia. Circoletto rosso su questo nome.

domenica 5 agosto 2018

Antoine Volodine – Gli animali che amiamo




Non sei tu, sono io…

Sbaglierò, sicuramente sono io a non aver compreso il valore dell’opera, il suo intento, il disegno che c’è dietro e le intenzioni dell’autore… ma questo libro proprio non mi è piaciuto.
Peccato perché la copertina è bella, il progetto grafico accattivante ma l’impressione è che alla fine il pacchetto sia migliore del contenuto, che Volodine sia rimasto prigioniero della sua creatura e che a forza di teorizzare sul post-esotismo si sia dimenticato per strada la trama o non l’abbia supportata a sufficienza.
Ma chi sono io per criticare l’autore di Angeli minori e di Terminus radioso, uno che è pubblicato da Gallimard e che ha vinto il Prix Médicis nel 2014? Nessuno, proprio nessuno. E allora, scusa tanto Volodine se non ho capito questo libro. Non sei tu, sono io.

mercoledì 1 agosto 2018

Assonanze

 L’onda


Blandisce,
forse lenisce.
Poi scivola  
lieve.
Lascia una scia
ed esce di scena


[Xenia Dubinina: "Assonanze"]

sabato 28 luglio 2018

Clemens Meyer - Eravamo dei grandissimi



  
“Era l’epoca dei grandi incontri, e lui li aveva persi tutti.”

Formidabili quegli anni. Gli anni del crollo del Muro e della fine della DDR, anni in cui dall’altra parte finalmente si iniziava a sentire il profumo della libertà, anni carichi di euforia e possibilità, quando tutto sembrava fosse a portata di mano.
Formidabili quegli anni. Già, andatelo a dire a Dani, a Rico, a Walter, a Mark e agli altri personaggi del libro di Clemens Meyer… probabile che ne usciate come minimo con una bella frattura del naso. Figa, se quelli erano dei grandissimi! Eroi di un’epica moderna, nella quale gli adulti hanno abdicato al loro ruolo e recitano un ruolo da comprimari.
Le storie di Dani, Rico, Walter, Mark e degli altri sono le storie di un gruppo di ragazzi che si potrebbe sbrigativamente etichettare come “difficili”, mentre difficili erano il tempo che si trovavano a vivere e i contesti familiare (pressoché assente) e sociale nei quali crescevano. Cosa poteva rappresentare per ragazzi come questi il passaggio dall’Est all’Ovest? Forse solo il passaggio dall’alcool alla droga, altro che euforia e possibilità…
Eravamo dei grandissimi racconta storie minori sullo sfondo della Grande Storia, nessun intento moralistico o pedagogico da parte di uno scrittore che quegli anni li ha vissuti sulla propria pelle. Capitoli che potrebbero essere ognuno un racconto a parte, avvenimenti narrati senza una logica cronologica, quasi a collegare la frammentarietà della struttura del libro con la frammentarietà delle vite dei personaggi.
Il branco come succedaneo della famiglia, la violenza come protezione dell’identità del gruppo, la vitalità adolescenziale trasformata in una rabbia che non trova motivazioni vere (risuonano nella mente i perché? perché? perché? della madre di Daniel, destinati a rimanere senza risposta). Una rabbia che confina con la frustrazione, perché i protagonisti sono consapevoli di essere condannati ad una sconfitta che cercano di rinviare attraverso piccoli successi parziali, sbruffonerie, eccessi, tentativi di vivere sopra le righe il poco tempo che hanno a disposizione.
Figa, se quelli erano dei grandissimi!
Figa, se questo è un libro grandissimo!

Aggiungo che questo è uno dei pochissimi libri per i quali ho trovato il titolo italiano molto migliore di quello originale (“Quando sognavamo”).