sabato 23 ottobre 2021

Ebdòmero – Giorgio de Chirico



La letteratura come pittura con altri mezzi

Ebdòmero è un originalissimo libro fatto di immagini, nel quale il grande artista depone per un attimo il pennello per continuare a dipingere con le parole. Un monologo in bilico tra il ballo in maschera e la fuga, una passeggiata tra i quadri di una pinacoteca che è anche un'autobiografia sotto mentite spoglie dell'autore.

Sogni, ricordi, fantasie… immagini che mettendolo sulla carta danno realtà al mondo interiore di de Chirico e ci offrono il privilegio di entrare in contato più stretto con l'Arte del Maestro. Ebdòmero è uno spazio sospeso fuori dal tempo, un romanzo nel quale la trama non si sviluppa per collegamenti logici ma attraverso associazioni di idee, contrasti e analogie. Ad ogni passo dell'autore corrisponda un salto nel vuoto per il lettore, che deve stare attento ad afferrare al volo la liana che gli permetta di volare sopra l'apparenza.
Il protagonista è una via di mezzo tra Ulisse e Gesù, una specie di misantropo, in bilico tra ricordo del passato e voglia di scoperta, che lungo il cammino non manca di dispensare consigli ai suoi discepoli:

«perciò io vi dico, amici miei: metodizzatevi, non sprecate le vostre forze, quando avete trovato un segno, voltatelo e rivoltatelo da tutti i lati; guardatelo di faccia e di profilo, di tre quarti e di scorcio; fatelo sparire ed osservate quale forma piglia al suo posto i ricordo del suo aspetto.»

Un cammino accompagnato dalla nostalgia del passato e dal senso di solitudine, circondato da intellettuali «impotenti e stizziti che ignoravano l'ironia e il vero talento», individui nei quali «sentiva qualcosa di legati; sentiva che un nodo impediva loro di muovere liberamente le braccia e le gambe, di correre, di arrampicarsi, di saltare, di nuotare e di tuffarsi, di raccontare qualcosa con spirito, di scrivere e di dipingere, per dirla in poche parole di capire e di creare», attorniato da ostinati «cercatori metafisicizzanti», scettici che non riescono a vedere quello che vede lui «e pretendevano che i centauri non fossero mai esistiti».

 





sabato 2 ottobre 2021

Solenoide – Mircea Cărtărescu


Letteratura d'evasione


Cărtărescu appartiene alla categoria degli scrittori che scrivono sempre lo stesso libro. In Solenoide ritornano infatti i temi che erano già in nuce nei racconti di Nostalgia per essere poi sviluppati nella trilogia di Abbacinante e che rappresentano una vera e propria ossessione per l'autore rumeno.
C'è Bucarest, «progettata come un grande museo a cielo aperto, museo della malinconia e del decadimento di ogni cosa», il mondo che si apre alla vista dalla finestra di via Ştefan cel Mare e la toponomastica dell'anima che abbiamo imparato a conoscere negli altri romanzi di Cărtărescu.
C'è la solitudine del protagonista, quella solitudine che unendosi alla compagnia dei libri genera un miscuglio classico e micidiale in grado di dar fuoco alle polveri di un viaggio introspettivo ai limiti (e probabilmente oltre) della follia.
C'è il tema del doppio, la figura di Victor fratello-gemello morto piccolo o forse mai nato. Ma anche il permanente senso di incompletezza del personaggio principale, alla ricerca della sua parte mancante nel tentativo di ricomporre quell'unità del sé che rappresenta un aspetto particolarmente importante di tanta letteratura europea del secondo Novecento.
Ci sono le riflessioni sulla letteratura e soprattutto l'idea di letteratura di Cărtărescu. «Così doveva essere la letteratura per significare qualcosa: una levitazione al di sopra delle pagine, un testo pneumatico, senza alcun punto di contatto col mondo materiale.» La letteratura come strumento per indagare i misteri della vita («l'unica ragione di essere che la scrittura abbia mai avuto: quella di comprendere te stesso fino in fondo, fin nell'unica stanza del labirinto della mente in cui non hai diritto di penetrare.»)
C'è la sovrapposizione dei piani, con realtà, sogno, allucinazioni, ricordi e fantasie che rappresentano terreni di pari dignità per sviluppare la ricerca matta e disperatissima dello scrittore, il suo tentativo di aprire una crepa nel perimetro che delimita il nostro spazio e provare ad affacciarsi sull'ignoto della terza e quarta dimensione, su mondi sconosciuti che devono esistere da qualche parte, in una realtà parallela alla nostra, mondi ugualmente veri come quello in cui viviamo.
E poi c'è la scrittura, massimalista, con metafore originali, ricche descrizioni d'ambiente e i classici scatti in avanti già visti in Abbacinante, le impennate lisergiche e visionarie nelle quali partendo dalle esperienze sensoriali la penna di Cărtărescu accelera improvvisamente e si impenna espandendosi nella sfera delle emozioni e della fantasia pura, imboccando con decisione la strada che sale verso vette immaginifiche, una scrittura che lascia il lettore per un attimo sul posto, indeciso se seguire o meno il narratore nella sua follia, incuriosito e spaventato dall'altezza e dalla maestosità della montagna che si staglia davanti a sé.

sabato 4 settembre 2021

Le femmine. Vecchio scorticatoio – Wolfgang Hilbig


Un viaggio al termine della notte tra Dostoevskij, Céline e Lamborghini

Le femmine e Vecchio scorticatoio sono due monologhi potenti, apocalittici e disperati con i quali Hilbig urla al mondo la sua rabbia e impotenza nei confronti della società che lo circonda, figlia di una generazione che non ha fatto ancora davvero i conti con la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Quello che descrive con un'efficacissima scrittura "espressionista" è un cammino di sconfitta, un viaggio al termine della notte tra rifiuti, incubi e fantasie distorte, un viaggio che parte da un'ossessione e lo precipita in un vuoto esistenziale.
Il protagonista de Le femmine è un uomo perduto, un'anima solitaria incapace di comunicare con gli altri, di sentire come loro sentono. Vive tra bidoni di immondizia, scarto tra gli scarti, diviso dal mondo e avvitato su se stesso, vittima anche della sua incapacità di definirsi.
«Sì, la mia era una malattia della parola…»
 «Fuori il mio corpo correva nella notte, del tutto insensibile, mentre dietro di me la parola era immersa nel miasma stantio, diffuso e tuttavia tenace di un'angoscia vecchia e impenetrabile, i vocaboli si dibattevano imprigionati in reti nebulose, e più i guizzi di terrore laceravano fili e maglie, più quelle si tendevano fitte e sottili. Che cosa ci facevano le mie parole in mezzo a quel groviglio, mi domandavo: forse cercavano di accoppiarsi e non ci riuscivano; va' via, su vieni, resta qui…erano parole guastate dalla diffidenza verso il luogo in cui venivano pronunciate.»
Il dramma nasce anche da questo: dal comprendere di essere affetto da una specie di schizofrenia della parola proprio nel momento in cui ci si è appesi alla scrittura come ciambella di salvataggio da un mondo che va alla deriva. Incapace di entrare in sintonia con la realtà, il protagonista de Le femmine si rifugia in un solipsismo esasperato, finendo per perdere anche il contatto con se stesso e precipitando in uno stato di abulia, solo con l'unico conforto delle sue visioni.


Simile è il percorso del protagonista di Vecchio scorticatoio, un ragazzo che cerca di scomparire, alla ricerca di un luogo fisico che in realtà è un luogo dell'anima, esule in un terra di mezzo ai margini della società. Il suo è un viaggio veloce verso il dubbio, la confusione, il nulla. Anche qui le parole, ultima bussola per orientarsi nello disfacimento generale, perdono il loro significato e lasciano l'uomo solo, abbandonato al suo destino. Solo a urlare il suo grido afasico nel vuoto.

Link
http://www.altrianimali.it/2021/04/09/contaminati-paese-la-gente-linguaggio/

sabato 14 agosto 2021

La metà del doppio – Fernando Bermúdez

Esercizi di scrittura del più importante scrittore argentino contemporaneo


Sette racconti nei quali ciò che più conta non è tanto la trama quanto l'architettura e le tecniche narrative che l'autore mette in campo per costruire strutture labirintiche, reti sempre diverse che inevitabilmente finiscono per avviluppare il lettore alla storia.
Quella di Bermúdez è una scrittura complessa, non lineare, che scrive se stessa come le mani che disegnano di Escher. Sette racconti sui quali aleggia l'idea della perdita, della ricerca o dell'inseguimento. Si passa dalla narrazione classica (Mezzanotte passata) a quella che sovrappone i piani narrativi (Hugo Talmann, morto a New York), dall'uso di tecniche cinematografiche (La condizione genuina) a storie che partono dal reale per sconfinare nel surreale (Circostanziale di tempo).
L'autore gioca con le parole, in apparenza elevandole a simboli di precisione ma in realtà gettandole nell'indeterminatezza con continui cambi di registro da un racconto all'altro, con un cambiamento dei punti di vista che richiede la costante attenzione del lettore: non conta ciò che è vero e ciò che è falso ma quello che succede o, meglio, come succede, cosa provoca nei personaggi e in noi stessi. Sono storie che si aprono ad altre storie, in un labirinto di trame, un affascinante gioco di scatole cinesi in cui è bello smarrirsi per cercare la propria strada, sapendo che a una lettura successiva potremmo trovare una nuova traccia, una pista diversa da seguire.

domenica 8 agosto 2021

Tre orfani – Giorgio Vasta


Il 12 marzo 2020, giorno del suo cinquantesimi compleanno, lo scrittore Giorgio Vasta trova seduti alla sua tavola Bartleby e il capitano Achab.
Questo è l'inizio di Tre orfani, un racconto surreale che non ha paura di mescolare autofiction e metaletterario per raccontare il disagio dell'uomo (anche) al tempo della pandemia.
«tre figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti»
I personaggi melvilliani sono trattati da Vasta in maniera fedele all'originale letterario, sia nei comportamenti che nel linguaggio: a un Achab che scruta inquieto il buio della notte palermitana credendo donchisciottescamente di vedere cetacei dietro ogni ombra, fa da contraltare un Bartleby silenzioso, impegnato a cancellare prima le mail dal computer dell'autore, poi gli impegni dalla sua agenda, quelli della rubrica telefonica e i contatti di whatsapp.
«Seduto sulla sponda del letto, mi ero reso conto di non essere attraversato da nessun sentimento», 
scrive Vasta, prima di andare in bagno a lavarsi le mani, gesto che in questi mesi abbiamo ripetuto tutti fino allo sfinimento facendolo diventare automatico, e sono parole e comportamenti che ben rappresentano lo straniamento dell'autore e di noi con lui, abitanti di un mondo che è diverso da come era prima.
Bartleby rimuove, Achab è il visionario, quello che cerca qualcosa di indefinito, e Vasta si trova nel mezzo delle due visioni, sospeso tra una e l'altra, sospeso tra il non fare e il fare (ma comunque senza saper oggettivare quel fare). Liberatorio, oltre che simbolico, risulta così il gesto con cui nelle ultime pagine scaglierà ina scopa diventata arpione non tanto nella realtà del giardino ma nel vuoto dell'immaginazione, della letteratura.
«era stato solo allora, dicevo, che indietreggiando ancora di un passo avevo rinsaldato a presa, sollevato il braccio e fatto ruotare la spalla fino a battere l'estremità arrotondata contro il pavimento dietro di me; poi avevo mosso qualche passetto in avanti – avrei dovuto darmi una spinta e avevo traballato, avrei dovuto giocare di gambe per ottenere slancio e avevo vacillato: il movimento era venuto fuori storpio, ma lo stesso, non so come, ero riuscito a disegnare con il corpo un arco ampio e poi a richiuderlo schiudendo il pungo: il bastone di scopa intagliato aveva lasciato la mia mano e lungo la sua traiettoria, prima verso l'alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, era diventato un rampone che trapassava senza suono, uno strato dopo l'altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari, l'etereo e il subacqueo, una babele di silenzi, dirigendosi cieco verso il suo bersaglio – la balena di Achab, il muro di Bartleby, e ogni scrittura fatta di solchi e schegge, e i mio cinquantesimo anno pandemico e tutto il tempo chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato, il tempo preso nelle camere, disperso nel mio corpo, quello che mi si scioglie alle spalle e quell'altro, se è un altro, che a ogni respiro mi brancola fuori dal petto, che sempre più piano balbetto con le labbra e con le dita – finché, no so più quando, avevo sentito l'impatto: la punta del rampone che con un rumore colmo, profondo, tenero e aspro, si conficcava nella carne del buio.»