Mi
scusi se le parlo così ma sono così stufo di sentirmi solo, così stufo della
farsa tragica e ridicola della mia vita, dell’hamburger dello snack–bar e della
donna delle pulizie che fa la cresta sulle ore e sul detersivo. Così stufo che
a volte, sa com’è, ho una gran voglia di allontanare da me l’inquieto disordine
del quale mi nutro con nausea come certi animali dell’immondizia, e ho voglia
di fischiettare’ allo specchio una contentezza senza macchia. Avrei voglia di
vomitare nel water lo sconforto della morte quotidiana: che trasporto nello
stomaco come una pietra di acido, che mi si ramifica nelle vene e mi scivola
attraverso le membra in un flusso oleato di terrore, avrei voglia di ritornare,
pettinato e sano, alla linea di partenza dove un circolo di volti
compassionevoli e affabili mi attende, la famiglia i fratelli gli amici, le
figlie, gli sconosciuti che si aspettano da me ciò che, per timidezza o vanità,
non ho saputo dargli e offrire loro la lucidità priva di risentimento e il
calore privo di cinismo di cui, finora, non sono mai stato capace. Avrei voglia
di espellere questi defunti rigidi installati sulle mie sedie in un’attesa
pallida e tenace, mia madre che passa indifferente accanto a me pensando ad
altro, mio padre che alza dalla poltrona uno sguardo che attraversa senza
vedermi, i fratellini avvolti nei loro complicati gomitoli interiori
impossibili da districare, avrei voglia di espellere i pianoforti verticali
coperti da damaschi i cui Chopin mi prendono nella tela di malinconie da
narciso, avrei voglia di Isabel, della realtà di Isabel, della realtà
indipendente da me di Isabel, dei denti di Isabel, del riso di Isabel, dei seni
di Isabel come musi di cerbiatta sotto la camicia da uomo, delle sue mani sopra
le mie natiche quando facevamo l’amore, e delle palpebre che tremavano e
vibravano come se fossero state trafitte da uno spillo crudele su un foglio di
protocollo. Può spegnere la luce: non ne ho più bisogno. Quando penso a Isabel
mi passa la paura del buio, un chiarore di ambra riveste gli oggetti con la
serenità complice dei mattini di luglio che mi pareva sempre disponessero
davanti a me, con il loro sole infantile, i materiali necessari per costruire
qualcosa di ineffabilmente piacevole, e per me sempre indecifrabile. Isabel che
sostituiva ai miei sogni paralizzati il suo pragmatismo dolcemente implacabile,
riparava le fessure della mia esistenza col rapido fil di ferro di due o tre
decisioni di sbalorditiva semplicità, e poi, ritornata all’improvviso bambina,
si coricava su di me, mi prendeva il viso fra le mani e mi diceva Lascia che ti
baci, con una vocetta supplicante che mi sconvolgeva. Penso di averla persa
come perdo tutto, di averla scossa via da me con il mio umore incostante, le
mie collere improvvise, le mie esigenze assurde, questa angosciata sete di tenerezza
che respinge l’affetto e rimane a pulsare dolorante nel muto appello pieno di
spine di un’ostilità priva di senso. E mi ricordo, con commozione e rapimento,
la casa dell’Algarve circondata da fichi e cicale, il tiepido cielo notturno
pennellato dall’alone lontano del mare, la calce delle pareti quasi
fosforescente nel buio, e la violenta e non formulata passione delle mie
carezze che sembravano arrestarsi senza soluzione a qualche centimetro dal suo
viso, e si dissolvevano infine in una carezza indefinita.
Penso
a Isabel, e una specie di marea vibrante d’amore, indomita e vigorosa, mi sale
dalle gambe fino all’inguine, mi indurisce i testicoli con ondate di desiderio,
mi si spande nel ventre come se aprisse grandi ali colme nelle mie viscere in
agitazione. Visitiamo di nuovo i rigattieri polverosi di Sintra alla ricerca di
vecchi mobili entriamo nell’acquario azzurro del localino notturno dove per la
prima volta, come incantato, ho toccato la sua bocca, ci inventiamo il
fantastico futuro di una profusione di culle e di figli bruni, e mi sento
felice, giustificato e felice, mentre abbraccio il suo corpo nella bassa marea
delle lenzuola, con le pieghe che formano una susseguirsi di onde rifrante
sulla spiaggia bianca del cuscino, dove le nostre teste, la sua scura, la mia
chiara, si riuniscono in una fusione che possiede i germi strani di un
miracolo. Può spegnere la luce: forse non resterò poi tanto solo in questa
stanza enorme, forse Isabel o lei verrete a trovarmi uno di questi giorni,
sentirò la voce al telefono, la voce scandita e precisa attraverso i fori di
bachelite della cornetta, il ciao di Isabel o il suo ciao mi entreranno
nell’orecchio come l’oleosità piacevole e tiepida delle gocce auricolari della
mia infanzia, andrò o verrò a prendervi in ufficio, aspetterò in macchina
fumando impazientemente e aggiustandomi il nodo della cravatta nello
specchietto in punta di chiappe, forse Isabel, o lei, si siederà accanto a me nell’oscurità
dell’automobile, mi sorriderà, infilerà la cassetta di Maria Bethània nello
stereo, e mi passerà intorno al collo le sue solide braccia di tenerezza.
Lascia che ti baci. Lasci che la baci mentre si veste, mentre si allaccia il
reggiseno con gesti mancini che conferiscono alle sue scapole sporgenti
l’aspetto delle ali di un pollo, mentre cerca gli anelli d’argento sul comodino
con una ruga verticale e infantile sulla fronte, mentre lotta con la spazzola
sulla resistenza ondulata dei capelli gli abbondanti capelli che con la mia
calvizie invidio di invidia feroce e invincibile. Tutte le mattine mi chiedo
quando comincerò a fare la scriminatura vicino all’orecchio, con un bel
riporto, leggo attentamente e senza ironia gli annunci dei parrucchini sul
giornale, accompagnati da foto di irsuti ex–calvi soddisfatti, sorridenti
sorrisi pelosi da gorilla. Mi allontano dalle mie fotografie dell’anno scorso
come una barca dal molo, e mi sembra di assomigliare a una bizzarra caricatura
di me stesso deformata dalle rughe in una specie di smorfia. Lascia che ti
baci: chi mai potrà voler baciare la parodia triste di ciò che sono stato, lo
stomaco che si dilata, le gambe che si assottigliano, il sacco vuoto dei
testicoli ricoperto di lunghi peli biondastri? Ripensandoci, non spenga la
luce: chissà che questo mattino non nasconda una notte ancor più opaca di tutte
le notti finora attraversate, la notte che abita nelle bottiglie di whisky, nei
letti sfatti e negli oggetti dell’assenza, una notte con un cubetto di ghiaccio
in superficie, tre dita di liquido ambrato e un silenzio insopportabile in
fondo, una notte in cui mi perdo, inciampando da una parete all’altra,
intontito dall’alcol, raccontando a me stesso il discorso della solitudine
grandiosa degli ubriachi, per i quali il mondo è un riflesso di giganti contro
cui ribellarsi è inutile. Non spenga la luce: quando se ne sarà andata la casa
diventerà inevitabilmente più grande, e si trasformerà in una specie di piscina
senz’acqua dove i suoni si amplificano ed echeggiano aggressivi, tesi, enormi,
sbattendo con violenza contro il mio corpo come le maree dell’equinozio contro
il muraglione della spiaggia, facendo rotolare su di me una schiuma fosca di
sillabe. Ascolterò di nuovo il rumore del frigorifero che ronfa nel suo sonno
da mammut, le gocce che gocciano dai rubinetti come le lacrime dei vecchi,
grevi di rugginosa congiuntivite. Esiterò a scegliere la camicia, la cravatta,
il vestito, e finirò per sbattere la porta di casa come se abbandonassi dietro
di me una tomba intatta dove la morte fiorisce nei vasi di vetro e negli steli
imputriditi dei crisantemi.
[António Lobo Antunes "In
culo al mondo"]
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