mercoledì 20 febbraio 2019

Mi scusi se le parlo così


Mi scusi se le parlo così ma sono così stufo di sentirmi solo, così stufo della farsa tragica e ridicola della mia vita, dell’hamburger dello snack–bar e della donna delle pulizie che fa la cresta sulle ore e sul detersivo. Così stufo che a volte, sa com’è, ho una gran voglia di allontanare da me l’inquieto disordine del quale mi nutro con nausea come certi animali dell’immondizia, e ho voglia di fischiettare’ allo specchio una contentezza senza macchia. Avrei voglia di vomitare nel water lo sconforto della morte quotidiana: che trasporto nello stomaco come una pietra di acido, che mi si ramifica nelle vene e mi scivola attraverso le membra in un flusso oleato di terrore, avrei voglia di ritornare, pettinato e sano, alla linea di partenza dove un circolo di volti compassionevoli e affabili mi attende, la famiglia i fratelli gli amici, le figlie, gli sconosciuti che si aspettano da me ciò che, per timidezza o vanità, non ho saputo dargli e offrire loro la lucidità priva di risentimento e il calore privo di cinismo di cui, finora, non sono mai stato capace. Avrei voglia di espellere questi defunti rigidi installati sulle mie sedie in un’attesa pallida e tenace, mia madre che passa indifferente accanto a me pensando ad altro, mio padre che alza dalla poltrona uno sguardo che attraversa senza vedermi, i fratellini avvolti nei loro complicati gomitoli interiori impossibili da districare, avrei voglia di espellere i pianoforti verticali coperti da damaschi i cui Chopin mi prendono nella tela di malinconie da narciso, avrei voglia di Isabel, della realtà di Isabel, della realtà indipendente da me di Isabel, dei denti di Isabel, del riso di Isabel, dei seni di Isabel come musi di cerbiatta sotto la camicia da uomo, delle sue mani sopra le mie natiche quando facevamo l’amore, e delle palpebre che tremavano e vibravano come se fossero state trafitte da uno spillo crudele su un foglio di protocollo. Può spegnere la luce: non ne ho più bisogno. Quando penso a Isabel mi passa la paura del buio, un chiarore di ambra riveste gli oggetti con la serenità complice dei mattini di luglio che mi pareva sempre disponessero davanti a me, con il loro sole infantile, i materiali necessari per costruire qualcosa di ineffabilmente piacevole, e per me sempre indecifrabile. Isabel che sostituiva ai miei sogni paralizzati il suo pragmatismo dolcemente implacabile, riparava le fessure della mia esistenza col rapido fil di ferro di due o tre decisioni di sbalorditiva semplicità, e poi, ritornata all’improvviso bambina, si coricava su di me, mi prendeva il viso fra le mani e mi diceva Lascia che ti baci, con una vocetta supplicante che mi sconvolgeva. Penso di averla persa come perdo tutto, di averla scossa via da me con il mio umore incostante, le mie collere improvvise, le mie esigenze assurde, questa angosciata sete di tenerezza che respinge l’affetto e rimane a pulsare dolorante nel muto appello pieno di spine di un’ostilità priva di senso. E mi ricordo, con commozione e rapimento, la casa dell’Algarve circondata da fichi e cicale, il tiepido cielo notturno pennellato dall’alone lontano del mare, la calce delle pareti quasi fosforescente nel buio, e la violenta e non formulata passione delle mie carezze che sembravano arrestarsi senza soluzione a qualche centimetro dal suo viso, e si dissolvevano infine in una carezza indefinita.

Penso a Isabel, e una specie di marea vibrante d’amore, indomita e vigorosa, mi sale dalle gambe fino all’inguine, mi indurisce i testicoli con ondate di desiderio, mi si spande nel ventre come se aprisse grandi ali colme nelle mie viscere in agitazione. Visitiamo di nuovo i rigattieri polverosi di Sintra alla ricerca di vecchi mobili entriamo nell’acquario azzurro del localino notturno dove per la prima volta, come incantato, ho toccato la sua bocca, ci inventiamo il fantastico futuro di una profusione di culle e di figli bruni, e mi sento felice, giustificato e felice, mentre abbraccio il suo corpo nella bassa marea delle lenzuola, con le pieghe che formano una susseguirsi di onde rifrante sulla spiaggia bianca del cuscino, dove le nostre teste, la sua scura, la mia chiara, si riuniscono in una fusione che possiede i germi strani di un miracolo. Può spegnere la luce: forse non resterò poi tanto solo in questa stanza enorme, forse Isabel o lei verrete a trovarmi uno di questi giorni, sentirò la voce al telefono, la voce scandita e precisa attraverso i fori di bachelite della cornetta, il ciao di Isabel o il suo ciao mi entreranno nell’orecchio come l’oleosità piacevole e tiepida delle gocce auricolari della mia infanzia, andrò o verrò a prendervi in ufficio, aspetterò in macchina fumando impazientemente e aggiustandomi il nodo della cravatta nello specchietto in punta di chiappe, forse Isabel, o lei, si siederà accanto a me nell’oscurità dell’automobile, mi sorriderà, infilerà la cassetta di Maria Bethània nello stereo, e mi passerà intorno al collo le sue solide braccia di tenerezza. Lascia che ti baci. Lasci che la baci mentre si veste, mentre si allaccia il reggiseno con gesti mancini che conferiscono alle sue scapole sporgenti l’aspetto delle ali di un pollo, mentre cerca gli anelli d’argento sul comodino con una ruga verticale e infantile sulla fronte, mentre lotta con la spazzola sulla resistenza ondulata dei capelli gli abbondanti capelli che con la mia calvizie invidio di invidia feroce e invincibile. Tutte le mattine mi chiedo quando comincerò a fare la scriminatura vicino all’orecchio, con un bel riporto, leggo attentamente e senza ironia gli annunci dei parrucchini sul giornale, accompagnati da foto di irsuti ex–calvi soddisfatti, sorridenti sorrisi pelosi da gorilla. Mi allontano dalle mie fotografie dell’anno scorso come una barca dal molo, e mi sembra di assomigliare a una bizzarra caricatura di me stesso deformata dalle rughe in una specie di smorfia. Lascia che ti baci: chi mai potrà voler baciare la parodia triste di ciò che sono stato, lo stomaco che si dilata, le gambe che si assottigliano, il sacco vuoto dei testicoli ricoperto di lunghi peli biondastri? Ripensandoci, non spenga la luce: chissà che questo mattino non nasconda una notte ancor più opaca di tutte le notti finora attraversate, la notte che abita nelle bottiglie di whisky, nei letti sfatti e negli oggetti dell’assenza, una notte con un cubetto di ghiaccio in superficie, tre dita di liquido ambrato e un silenzio insopportabile in fondo, una notte in cui mi perdo, inciampando da una parete all’altra, intontito dall’alcol, raccontando a me stesso il discorso della solitudine grandiosa degli ubriachi, per i quali il mondo è un riflesso di giganti contro cui ribellarsi è inutile. Non spenga la luce: quando se ne sarà andata la casa diventerà inevitabilmente più grande, e si trasformerà in una specie di piscina senz’acqua dove i suoni si amplificano ed echeggiano aggressivi, tesi, enormi, sbattendo con violenza contro il mio corpo come le maree dell’equinozio contro il muraglione della spiaggia, facendo rotolare su di me una schiuma fosca di sillabe. Ascolterò di nuovo il rumore del frigorifero che ronfa nel suo sonno da mammut, le gocce che gocciano dai rubinetti come le lacrime dei vecchi, grevi di rugginosa congiuntivite. Esiterò a scegliere la camicia, la cravatta, il vestito, e finirò per sbattere la porta di casa come se abbandonassi dietro di me una tomba intatta dove la morte fiorisce nei vasi di vetro e negli steli imputriditi dei crisantemi.

[António Lobo Antunes "In culo al mondo"]

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