sabato 29 febbraio 2020

Dall'ombra – Juan José Millás



Damián Lobo, licenziato dalla ditta in cui ha lavorato per venticinque anni, è un uomo solo che riempie gli spazi della sua solitudine immaginando assurde interviste televisive che lo vedono protagonista. In esse parla di sé, identificandosi con la murena perché "non è gregaria e si mimetizza con il paesaggio", "una murena nascosta tra le rocce di corallo, in agguato, a caccia di una preda, o per proteggersi da un predatore", parla anche del capitalismo senz'anima nel quale se l'è cavata "come il polpo che non ha bisogno di capire l'oceano per viverci dentro", dei rapporti sessuali con la sorella adottiva cinese e del fatto che lui legge solo manuali d'uso e libretti di istruzioni.
Una critica della società dei consumi e della TV spazzatura fatta dal di dentro, dal punto di vista di chi ha vissuto per un po' nel sistema e poi ne è stato sputato fuori, la lucida follia di chi dai margini della società cerca di tirare avanti in qualche modo per non impazzire e non si accorge di essere già sull'altro lato della strada.
Vivere un po' nella fantasia e un po' nella realtà è difficile, soprattutto quando la realtà è avara di stimoli. Succede che il mondo immaginato finisce per occupare sempre più spazio invadendo pericolosamente il territorio della vita vera.
In un centro commerciale Damián Lobo ruba un fermacravatta d'oro con incise le iniziali S.O., proprio quelle di Sergio O'Kane, il suo fantomatico intervistatore. Per evitare l'arresto si nasconde in un armadio in vendita in un mercatino d'antiquariato e mentre attende il momento propizio per darsi alla fuga si ritrova chiuso dentro e trasportato a casa di una famiglia che nel frattempo ha comprato il mobile.

Al lettore scoprire quel che succederà in seguito, all'estensore di queste brevi note il compito di dire che quello di Millás è un gioiellino raffinato, una critica sociale che travestendosi da racconto surreale evita triti luoghi comuni e toni accesi.
"- Lei è un tipo poco socievole?", chiede ad un certo punto O'Kane al protagonista.
"- Diciamo che sono strano.
- In che senso, strano
- Nel senso che sono una brava persona, io sono una brava persona, non ho mai fatto del male a nessuno, e questo mi ha allontanato dal mondo.
- La bontà allontana?
- Sì.
- Crede che il mondo sia cattivo?
- E anche pericoloso.
- E lei con questa avventura lo stava migliorando o lo stava rendendo un po' meno pericoloso?
- Chissà, sarà il tempo a deciderlo.
- Non sarebbe più giusto affermare che si stava vendicando?
- Del mondo? Non ci avevo pensato."
Damián Lobo per gli altri è uno schizofrenico e un dissociato, in realtà è solo un personaggio in cerca d'autore, un uomo sensibile che si è ritrovato in un mondo di lupi, un invisibile che ha rinunciato a lottare per conquistarsi un posto nel gruppo, uno sconfitto al quale è rimasta solo la possibilità di guardare gli altri dal di fuori.
Damián Lobo è il personaggio di una bellissima favola, un bambino che nell'armadio ha ritrovato l'utero materno e che ora si prepara a nascere.

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sabato 22 febbraio 2020

Traslochi – Hebe Uhart


La Dea delle piccole cose

Uhart è un altro dei segreti meglio custoditi della letteratura sudamericana.
Scrittrice poco nota all'estero ma il cui talento è ampiamente riconosciuto in patria (Fogwill la definì la miglior scrittrice argentina), la narratrice di Moreno si caratterizza in quest'opera per uno stile lineare, "pulito", che parte dalle piccole cose per scendere in profondità e mostrare le crepe nascoste nella quotidianità. Semplicità sembra essere la sua parola d'ordine, con la scelta di non drammatizza le situazioni per rappresentarle invece come sono, di privilegiare l'ordinario rispetto allo straordinario, guardando ed ascoltando cose e persone come farebbe un bambino ma riferendone con la capacità introspettiva di un adulto.
L'occhio è quello di un cronista che osserva e descrive la realtà senza lasciarsi andare ad un'eccessiva partecipazione emotiva, il gusto dell'oralità ricorda le Acqueforti di Roberto Arlt, con i personaggi che sono identificati non tanto dal loro aspetto quanto dai comportamenti e da come parlano. Al centro di Traslochi c'è la trasformazione della società argentina, il passaggio dalla campagna alla città, i contrasti generazionali, le tradizioni familiari e la voglia di novità, a cui si aggiunge un'acuta descrizione di caratteri (soprattutto femminili).
"Di semplicità in semplicità" – scrive Haroldo Conti a proposito di Uhart – "si penetra in profondità e labirinti dove si può avanzare solo se si partecipa della magia di questo nuovo mondo. (Uhart) non illumina né completa una realtà conosciuta. Rivela, o meglio, è lei stessa una realtà unica, diversa."

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sabato 15 febbraio 2020

Il buio a luci accese - David Hayden



Il buio a luci accese, esordio letterario di David Hayden è una sorprendente raccolta di racconti molto diversa dalle letture consuete, un'opera a metà strada tra lo sperimentale e il surreale che frantuma le leggi della scrittura e le riscrive secondo la poetica personale dell'autore irlandese.
Storie che scaturiscono dalla collisione di situazioni contrastanti: in Sortita c'è un che uomo si getta dal cornicione di un palazzo ma la sua caduta sembra non arrivare mai a compimento perché il tempo rallenta, ne Il pane spezzato assistiamo ad una scena di cannibalismo nel contesto di una cena elegante, in Smembrato una testa mozzata rotola cantando… e così via.
La storia prescinde dalla logica, sembra dirci Hayden, anzi compito della storia è quello di infrangere le leggi della logica per percorrere sentieri nuovi. In quest'ottica gli oggetti, le situazioni, hanno il solo scopo di ispirare la formazione della trama: "il banditore è indifferente agli oggetti, quel che colleziona sono le storie che abitano le cose", dice la voce narrante de Il banditore, l'essenza di un libro non sono "le parole in se stesse ma quel che c'è sotto, cioè quello che ci può liberare".
"Ogni cosa è un varco verso un altro oggetto o verso un evento", si legge ne La casa dei ricordi, e questo evento può essere del genere più disparato ma deve avere sempre la caratteristica – come detto – di scardinare la realtà, perché l'unica realtà è la finzione, approdo borgesiano che in Dick Hayden eleva a canone della sua poetica.
E così succede che la luce e il rumore acquistino spessore ("dal soffitto si riversa qualcosa di bianco e appiccicoso; è luce", e ancora: "il rumore si gonfia alle mie spalle e poi si allontana incanalandosi prima di ripiombarmi in testa e giù per le scale" e che l'Io che abita la storia sia diverso da quello che la sta narrando (La casa dei ricordi).
Difficile venire a capo di racconti nei quali il tempo si dilata o si contrae e lo spazio mescola reale e fantastico, a volte metafore ed allegorie sembrano darci una mano ad orientarci ma l'impressione è che l'intento dell'autore sia piuttosto quello di farci partecipare al gioco piuttosto che provare a comprenderlo, perché "il gioco non è divertimento. È quello che dobbiamo fare per vivere" e "lo scopo di qualsiasi gioco è l'abolizione della realtà biologica" (Il gioco). Un gioco che, va da sé, è incentrato sulle parole, che "non sono nient'altro che macchie mute finché non si scopre cosa significano, ma quando le si mettono insieme sono capaci di dire ogni genere di cose" (Come leggere un libro illustrato).
E se le cose non sono abbastanza chiare, ecco un esempio preso dallo stesso racconto: " -Mettete tutti i verbi da una parte e i sostantivi dall'altra, poi leggeteli in coppia in varie combinazioni per ottenere la vostra figura: Coniglio stropicciato, soldato singhiozzante… Su, provate voi.
- Minatore sorridente - dice un ragazzino con la faccia a limone, con in testa un berretto di lana.
- Ottimo. Ora che avete la vostra figura, potete cominciare a chiedervi "perché?" e continuare così finché non avrete la vostra storia."

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domenica 9 febbraio 2020

Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo - Vladimir Makanin


Ecco perché ci è stato dato così tanto: per poter perdere quel piccolo unico nonnulla. Per ricordarcene, per rimpiangerlo. Per esserne consapevoli. E per recuperarlo col vivere. Ogni giorno. Ogni ora. A poco a poco.

E Petrovič è uno che quel piccolo nonnulla l'ha perso.
Scrittore fallito e custode d'appartamenti in un'obščaga (casalbergo), l'antieroe di questo romanzo nominato solo con il patronimico, è sostanzialmente un aghé, un underground, uno dei figli del sottosuolo che abitano la Mosca di fine Novecento, quella del passaggio dal Comunismo al Grande Vuoto.
L'aghé non crede a niente, non si impegna a fondo in nulla che possa essere duraturo, è un individualista che sfugge la massa e vive nella provvisorietà, e Petrovič incarna alla perfezione queste caratteristiche. Cinico, disincantato, diffidente, caustico ed indolente, è un personaggio senza ambizioni, un tipo i cui sentimenti non vanno al di là della compassione e che crede più nella bottiglia che negli uomini. Non riconosce alcun giudice all'infuori del suo Io e della Letteratura russa: non gli altri e neppure Dio. Anche l'assassinio di due uomini è per lui un fatto personale, qualcosa da giustificare con la propria coscienza e che ha a che fare solo con un (discutibile) senso dell'onore.
In mezzo al disfacimento di idee e valori che la Russia sta vivendo, l'Io è la zattera alla quale Petrovič si aggrappa per non andare a fondo, un guscio di noce che pur imbarcando acqua da tutte le parti rappresenta il suo unico possesso: da preservare e al tempo stesso imbrigliare e disciplinare perché non si prenda troppa autonomia. Nella sua grammatica dei sentimenti l'amore occupa un posto a parte e un nome ben preciso: Venedikt (Venja) Petrovič, fratello del protagonista del libro, artista e genio incompreso che il KGB ha provveduto ad internare sin da ragazzo in una psichuška (clinica psichiatrica) in maniera da spegnerne da subito la potenziale carica eversiva privandolo del suo Io. Venja vive così nel passato e nel disinteresse per quello che accade e rappresenta per un Petrovič saldamente ancorato al presente, la memoria.
Quello che manca a Petrovič, scrittore fallito, è proprio la parola: la capacità di dire, di parlare agli altri e che lo costringe a tenere il dolore dentro di sé, proprio come succede ai pazienti della clinica psichiatrica che vivono rinchiusi nei loro silenzi, proprio come è successo all'umanità che ha imparato "a vivere facendo a meno del Verbo, perché è rimasta priva della parola".
L'underground è il subconscio della società, secondo Petrovič e lui è un eroe del suo tempo, proprio come il Pečorin lermontiano lo fu del suo, e come Lovjannikov, un altro personaggio del libro, lo è dei tempi nuovi.
Petrovič e Lovjannikov, rappresentano così il confronto tra due epoche: la generazione "letteraria" degli anni Sessanta-Settanta e quella del business degli anni Novanta, epoca che per la Russia ha rappresentato il fallimento della transizione dal vecchio al nuovo, culminato con la restaurazione del potere di un tempo attraverso forme diverse.
Nuove gerarchie ma vecchie logiche, che Makanin descrive in maniera tanto precisa quanto impietosa, attraverso un campionario di figure emblematiche di varie realtà. Lo psichiatra Ivan Emel'janocič è ad esempio, un uomo "Franco. Onesto. E moderno, in linea con i tempi, di quelli che non nascondono niente.", eppure non mostra pentimenti per aver ordinato le iniezioni che hanno distrutto Venja, Lesja Dmitrievna raffigura invece tutti i voltagabbana, ex-brezneviani duri e puri pronti a saltare sul carro dei democratici nella speranza di salvaguardare i loro privilegi ed altrettanto pronti a scendervi quando la transizione non arriva a compimento. Un'analisi che non risparmia neppure gli intellettuali, incarnati dallo scrittore Zykov, un amico di Petrovič rappresentativo di tutti i prosivendoli, un tempo aghé  ed ora organici al potere.
"La mediocrità dei sentimenti s'è trasformata sul piano storico in  meschinità dell'anima" Questa è l'amara conclusione, "In fondo la modernità non è altro che una cornice (Un proscenio, come a teatro. Ed è sempre piacevole interpretare un ruolo alla moda)."

Underground è il libro simbolo di un'epoca, un'enciclopedia dell'anima russa figlia di quella di Arcybašev e sorella di quella di Erofeev.

sabato 1 febbraio 2020

Norman Manea – La busta nera


Temo la verità e non so neppure più se la voglio

Tolea è un uomo distrutto dal regime: accusato di condotta immorale e per questo degradato da professore in un liceo di provincia a portiere di un albergo ad ore, si trova a rischiare il licenziamento anche da lì e così decide di prender ferie per indagare sul passato del padre ucciso o suicidatosi anni prima dopo aver ricevuto una misteriosa busta. Dietro a questa trama Manea intesse un libro con un intertesto difficilmente apprezzabile pienamente dai non rumeni (io arrivo giusto ai barbari di Kavafis, non certo ai riferimenti a Caragiale…), un romanzo articolato su diversi piani di lettura, con la narrazione che oscilla continuamente tra realtà e immaginazione. Una cortina di fumo e metafore che l'autore è stato costretto ad alzare perché l'opera potesse superare il vaglio della censura di Ceaușescu e al tempo stesso per far arrivare al lettore il suo messaggio in bottiglia.
«Perché non entriamo tutti in prigione? Questa è la domanda. Perché non abbiamo questo coraggio» domanda ad un certo punto il protagonista «Beh, dove siamo?» è la risposta fulminante del suo interlocutore.
Ironia amara, consapevolezza di vivere in una gabbia, in un regime che imponeva l'annullamento della personalità dei singoli nelle sabbie mobili della mediocrità, con la folla chiamata a recitare il ruolo di comparsa nella grande farsa della vita sotto il dominio del Conducător. Un mondo fatto di sorvegliati e sorveglianti, tutti remissivi, sottomessi e sonnolenti, adattati ad una normalità che però non era normale. Cosa rimane a chi come Tolea/Manea decide di sottrarsi al giogo comunista? Ben poco, se non la fuga dentro se stessi: indossare una maschera e percorrere una strada stretta sempre sul limite dell'alienazione. Tolea cerca, inutilmente, nel passato una risposta alla situazione presente, come se comprendere possa essergli di qualche aiuto, costretto poi ad ammettere di temere la verità:
«Ma io vado oltre e dico: temo la verità e non so neppure più se la voglio.»