Temo la verità e non so neppure
più se la voglio
Tolea è un uomo distrutto dal
regime: accusato di condotta immorale e per questo degradato da professore in
un liceo di provincia a portiere di un albergo ad ore, si trova a rischiare il
licenziamento anche da lì e così decide di prender ferie per indagare sul
passato del padre ucciso o suicidatosi anni prima dopo aver ricevuto una
misteriosa busta. Dietro a questa trama Manea intesse un libro con un
intertesto difficilmente apprezzabile pienamente dai non rumeni (io arrivo
giusto ai barbari di Kavafis, non certo ai riferimenti a Caragiale…), un romanzo
articolato su diversi piani di lettura, con la narrazione che oscilla
continuamente tra realtà e immaginazione. Una cortina di fumo e metafore che
l'autore è stato costretto ad alzare perché l'opera potesse superare il vaglio
della censura di Ceaușescu e al tempo stesso per far arrivare al lettore il suo
messaggio in bottiglia.
«Perché non entriamo tutti in
prigione? Questa è la domanda. Perché non abbiamo questo coraggio» domanda ad
un certo punto il protagonista «Beh, dove siamo?» è la risposta fulminante del
suo interlocutore.
Ironia amara, consapevolezza di
vivere in una gabbia, in un regime che imponeva l'annullamento della
personalità dei singoli nelle sabbie mobili della mediocrità, con la folla
chiamata a recitare il ruolo di comparsa nella grande farsa della vita sotto il
dominio del Conducător. Un mondo fatto di sorvegliati e sorveglianti, tutti
remissivi, sottomessi e sonnolenti, adattati ad una normalità che però non era
normale. Cosa rimane a chi come Tolea/Manea decide di sottrarsi al giogo
comunista? Ben poco, se non la fuga dentro se stessi: indossare una maschera e
percorrere una strada stretta sempre sul limite dell'alienazione. Tolea cerca,
inutilmente, nel passato una risposta alla situazione presente, come se
comprendere possa essergli di qualche aiuto, costretto poi ad ammettere di
temere la verità:
«Ma io vado oltre e dico: temo la
verità e non so neppure più se la voglio.»
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