sabato 19 novembre 2011

Binari



Un ragazzino cammina a testa bassa seguendo le rotaie del treno in aperta campagna. Un piccolo vagabondo dalla faccia sporca, di quelli che ormai non esistono più, un giovinetto senza famiglia e senza affetti, con un passato che probabilmente non vale la pena di ricordare ed un futuro complicato, di là da venire.
Chissà a cosa pensa, chissà dove sta andando. Sembra che tutto quello che sta intorno a lui non esista; non si cura della strada, non si guarda intorno, semplicemente va avanti, lungo i binari del treno. È come se vivesse in un mondo solo suo e non fosse interessato alla realtà.
Ad un certo punto il ragazzino sale con i piedi su un binario ed inizia un gioco da bambini, cercando di mantenere l’equilibrio il più a lungo possibile. Allarga le mani, oscilla, ogni tanto cade e poi risale; dopo un po’ inizia a saltellare da un binario all’altro e va avanti per un lungo tratto, fino a quando il mio sguardo lo perde.

Mi sento come quel piccolo vagabondo. Anch'io seguo la mia strada più per abitudine che per convinzione, saltando dal binario della realtà a quello dell’immaginazione senza sapere il perché di quello che sto facendo, senza sapere dove sto andando.

[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]

domenica 13 novembre 2011

Sulla felicità

da: "L'abito buono"

Sul mondo aleggia un miraggio indistruttibile e radioso chiamato felicità. Per l'esistenza dell'uomo su questa terra sono indispensabili le donne, i buoni impieghi, l'aria e l'egoismo, tutte cose reali e concrete, eppure l'individuo, mai pago di ciò che possiede, si è inventato questo miraggio, questo sogno, vale a dire la felicità. Poi ha creduto che la felicità esistesse davvero, che senza essa la vita non fosse vita e le cariche non fossero cariche!
A Pietroburgo è poco probabile che ci sia la felicità, ma di sicuro ci sono negozi, amore e pettegolezzi per le donne; ambizione, astuzie e rampogne per gli uomini; sogni, luna e fanciulle per i poeti; e, infine, egoismo e Nevskij prospekt per tutti!
Per quanto ciascuna delle cose e delle qualità reali e non immaginarie succitate possa con assoluto successo rimpiazzare per i pietroburghesi l'assenza di felicità, ciò nondimeno molti di coloro che non sono appagati dalla soverchia di negozi, sigarette, acqua e via dicendo, ritengono la felicità per se stessi indispensabile, la inseguono per tutta la vita, la vedono "ovunque non possono arrivare", la fanno esistere in quel che non possono ottenere e, giunti alla tomba estenuati e disperati sentenziano crudamente: "Al mondo la felicità non esiste!".
Tra l'altro si tratta di persone che nella maggioranza dei casi non hanno mai ponderato e avuto la necessità di ponderare sulle varie circostanze che governano la sorte umana né hanno provato le dure privazioni, delle quali è colma e divorata la vita di colui che pervenga rassegnato e remissivo al suo consolatorio limite estremo, in altre parole alla tomba. Quelli di cui parliamo occupano "posti buoni", possiedono belle cose, alle dodici si fanno la barba, alle due passeggiano per il Nevskij, alle sei pranzano, alle otto sbadigliano all'Opera italiana e sono osservati, a volte con ividia altre con rabbia, da qualche abitante di un quarto piano che si considera non peggiore di loro.
E ancora, sempre a Pietroburgo, esiste una gran quantità di gente per la quale la felicità è quella che è, un sogno, una chimera, e che si arrabatta a vivere in qualche modo, agitata per una piccola vincita o perdita al préférence, per il rincaro della legna da ardere o dei generi alimentari; gente più o meno costantemente soddisfatta di sé e delle proprie condizioni, che ritiene sciocca l'aspirazione a beni astratti e, pressata senza tregua dalle necessità della vita, crede fermamente che il mondo vada in maniera soddisfacente; tra l'altro, malgrado desideri avere una casa e una situazione migliori, si rende conto di vivere benissimo allorché confronta la propria casa e la propria situazione con quelle di altri.

[Sergej Betkov: "Le cime di Pietroburgo"]


sabato 12 novembre 2011

domenica 6 novembre 2011

cronache di questi giorni



da: Sette frammenti dalla terra di nessuno

I

Quando pive per molti giorni
la terra scivola via
verso il basso

l'acqua penetra sotto le radici
arriva alla placca
cambia la storia dei paesaggi

diventa fango e fiume fangoso
travolge i paesi più miseri
gli accampamenti umani

i corpi e ogni cosa che ostacola
o resiste.


II

Non si può dire nulla: questo è il punto. Raccontare,
ma cosa? Qualcosa è crollato,
come un silenzio improvviso e poi l'urlo,
uno sfacelo. Il muggito di un animale imprigionato
dal fango che strascina verso valle. Cosa pensa un vitello,
per esempio, quando affoga?
Volete cercare le parole anche per questo, 
per sentirvi più in pace? Un vitello
non pensa a nulla e se pensa
lo fa in un pensiero animale
incomprensibile; tace come una capra,
o un agnello e forse anche un uomo
che guarda in faccia la sua piena solitudine.


VI

Certe con forme di uccello, o di pesce, frastagliate,
altre che sembrano pinne o badili. Il movimento
impercettibile delle faglie, le pietre che cadono
quasi senza rumore: non sono loro a franare,
loro che cambiano soltanto posizione preparandosi
tranquille alla prossima era, e fanno i bagagli
con cura, piegando ghiaccio e torrenti, boschi di conifere,
corrugando molasse antemurali, sedimenti di arenaria,
e si umettano di cascate e pozze sotterranee,
estraggono ammoniti e altri molluschi mesozoici
da strati profondi e terribili, ricordi marini
e geodi di cristallo trasparente.
La vita che chiami vita qui si conserva
solo come memoria dissecata, muto sguardo
di fossile  o carbone, minerale.
No, non sono loro a franare, è la storia
nostra, e le nostre strade
Aere italico MDCCCV Nap. Imp.
di speranze e di gloria. Le montagne
parlano la lingua del mare e delle stelle, 
lingua di quelle
remote ere geològiche
che sèmbrano ancora un sogno dell'immaginazione,
un'altra lingua in cui ogni cosa è uguale
e necessaria, esatta e inessenziale, e tutto varia
col variare del tutto.

[Fabio Pusterla: "Le terre emerse"]

sabato 5 novembre 2011

Madrid, 1930 circa

Trionfa oggi sopra tutta l'area continentale una forma d'omogeneità (...). Dovunque è sorto l'uomo massa (...): un tipo d'uomo fatto di fretta, montato su null'altro che su alcune esigue e povere astrazioni e che, per ciò stesso, è identico da un capo dell'Europa all'altro. A lui si deve il triste aspetto di asfissiante monotonia che va assumendo la vita in tutto il continente. Quest'uomo massa è l'uomo previamente svuotato della sua propria storia, senza passato nelle viscere (...). Più che un uomo è soltanto una carcassa d'uomo costituito di meri idolafori; manca di un "dentro", di una intimità sua, inesorabile e inalienabile, di un io che non si possa revocare. Di qui il fatto che è sempre disponibile per fingere di essere qualsiasi cosa. Ha solo appetiti, crede che ha solo diritti e non crede che ha obbligazioni (...).

Così come stiamo procedendo, con progressiva diminuzione della "varietà di situazioni", ci dirigiamo direttamente verso il Basso Impero. Anche quello fu un tempo di masse e di paurosa omogeneità.

[José Ortega y Gasset: "La ribellione delle masse"]