domenica 23 marzo 2014

Sergej Aleksandrovic Esenin - In ogni cosa viva c'è un'impronta


In ogni cosa viva c'è un'impronta
Segnata a fondo dalla prima età.
S'io non fossi poeta
Sarei di certo truffatore e ladro.

Piccolo, mingherlino,
Sempre eroe fra i compagni,
Spesso, spesso col naso tutto rotto
Me ne tornavo a casa.

E incontrando la mamma spaventata
Sibilavo fra i denti insanguinati:
«Ho inciampato in un sasso, non è nulla, Entro domani sarò già guarito».

E ancor oggi, che pur si è raffreddata La ribollente trama di quei giorni,
Una forza inquieta ed insolente
S'è riversata sopra i miei poemi.

Un cumulo dorato di parole,
E da ciascuna riga senza fine
Si riverbera la spavalderia
Del monello di un tempo e attaccabrighe.

Son come allora temerario e ardito
E schizza terra vergine il mio passo.
Se prima mi picchiavano sul muso
Adesso è tutta l'anima che sanguina.

E dico ormai, ma più non alla mamma, Bensì a canaglia estranea, sghignazzante: «Ho inciampato in un sasso, non è nulla, Entro domani sarò guarito».
[1922]

[Sergej Aleksandrovic Esenin - "Poesie"]

sabato 22 marzo 2014

Jorge Luis Borges - Il libro di sabbia


Mi dispiace non avere la preparazione necessaria per comprenderlo appieno. Le competenze filosofiche e letterarie per addentrarmi con maggior sicurezza nei labirinti di questo Omero moderno. Peccato, perché posso solo contentarmi di rimanere sulla soglia, ammirare il quadro senza sapere con certezza se quello che mi comunica è esattamente quello che l'Autore si proponeva. 
 Comunque sia, è un bel guardare. Un viaggio tra sogno e realtà, maschere e specchi, tra conversazioni del Grande Argentino con il suo doppio e folli aspirazioni a rappresentare, catalogare, il mondo intero. Un viaggio avanti e indietro nel tempo, durante il quale i punti fermi ai quali siamo abituati cadono uno dopo l'altro lasciandoci soli con i nostri dubbi e la nostra impotenza, un viaggio nel quale l'impossibilità di conoscere veramente, di arrivare alla radice delle cose non conduce all'impasse ma è un pungolo, uno stimolo per continuare a cercare.

lunedì 17 marzo 2014

un giorno e non finì la frase. Capitolo quarto


Capitolo quarto.

Dove si riferisce di un giro notturno a curiosare nelle cabine di alcuni dei passeggeri imbarcati sul vapore delle Regie Linee

Se sono stati necessari tre capitoli per raccontare poche ore di viaggio, è un dubbio legittimo del lettore domandare con qualche apprensione quante pagine dovrà attendere prima che l’Higland Monarch raggiunga il Nuovo Mondo. Il bravo cronista risponderebbe, con un semplice calcolo aritmetico, che siccome non è trascorsa ancora una giornata dacché abbiamo lasciato il porto di Alçantara mancano due settimane esatte all’approdo di Pernambuco, il primo dei porti che il vapore toccherà in terra americana, e visto che il tempo non è una misura di grandezza opinabile sarà facile calcolare che questa storia si comporrà di almeno altri quarantadue capitoli, vale a dire tre capitoli per ognuno dei quattordici giorni di navigazione previsti, a meno che non saltino fuori imprevisti o colpi di scena a mandare a carte e quarantotto il nostro conto. Osserveremo qui che in realtà non è proprio così, e che a voler essere capziosi questa cosa del tempo come misura che non può essere messa in discussione non ci convince tanto. E’ d’uso comune, infatti, parlare di percezione del tempo per dire che ci sono momenti che per qualcuno sembrano volare via in un attimo e per qualcun altro sembrano non passare mai e questo a prescindere dal fatto che, orologio alla mano, abbiano una durata misurabile in maniera obiettiva. A rafforzare la nostra tesi diremo poi che i tempi di un racconto non sono i tempi della vita, e le situazioni che incontreremo di qui in avanti meriteranno più o meno righe di descrizione non in base al tempo misurato con il metro dell’orologio ma in base a quello che la nostra fantasia deciderà di volta in volta di concedere loro. A chi ci accuserà di personalismo risponderemo che non esiste democrazia che tenga in questi casi, e che visto che abbiamo inventato il gioco ci riteniamo liberi di dettarne anche le regole, decidendo che giudice unico della partita sarà l’istinto, l’immaginazione, il pensiero, chiamatelo pure come volete che sono solo belle parole dietro alle quali si nasconde il nostro arbitrio. Non tema il lettore che questa premessa, forse un po’ grossolana nei modi, possa ritorcersi contro di lui e sappia fin da ora che se abbiamo introdotto questo ragionamento sulla relatività del tempo è stato solo per assecondare il più possibile le sue esigenze, così che quando durante il viaggio dell’Highland Monarch ci imbatteremo in giorni di cosiddetta calma piatta, dove non succederà nulla e non ci sarà nulla da raccontare, per non tediarlo più del lecito promettiamo di evitare pesanti digressioni e di saltare a piè pari al giorno successivo.
I passeggeri che avevamo lasciato seduti a tavola sono ormai tutti nelle loro cabine, alle prese, chi più chi meno, con il sonno che tarda ad arrivare. Niente di preoccupante, sia chiaro, perché per qualcuno questa è la prima notte sul vapore per le Americhe, e per qualcun altro la chiacchierata della cena ha avuto l’effetto di risvegliare più di un pensiero. A ben guardare però uno che sta già dormendo c’è, ed è il giovane dottore italiano. Probabilmente per lui questa è stata una giornata piuttosto faticosa, così che ha fatto appena in tempo a togliersi i vestiti ed è già piombato in un sonno profondo, talmente profondo che dopo che il benevolo dio alato Ipno ha esaurito il suo compito, anche suo figlio Morfeo ha pensato bene di passare a salutare Lorenzo ed a sfiorare il mazzo di papaveri sulle sue palpebre. In altre parole, il giovane dottore sta sognando e noi non ci lasceremo certo sfuggire un’occasione così ghiotta di andare a curiosare nel suo sogno. Giusto un’occhiata fugace, niente di più, sperando che il nostro amico non se ne abbia a male, in fondo ci impegniamo qui a riferire solo quello che vedremo senza avventurarci in spiegazioni più o meno audaci, che sappiamo bene come l’interpretazione dei sogni sia pratica che non ci compete e che lasciamo volentieri al dottor Freud ed ai suoi allievi. Eccolo allora questo sogno, è una cena di gala a bordo di un transatlantico la scena che leggiamo al di sotto delle palpebre chiuse del giovane dottore, sogno molto poco originale ci viene da dire, che a quanto pare la prima cena sull’Highland Monarch non è passata nell’indifferenza e qualche segno deve averlo lasciato nella mente del nostro amico, ma a ben vedere quella che sta sognando lui è una cena un po’ diversa da quella alla quale ha partecipato nella realtà, dove a capo tavola di una mensa imbandita siede il comandante della nave in tenuta di gala, comandante che dopo essersi alzato in piedi per dare solennità al momento, introduce con poche parole di rito l’ospite alla sua destra, presentandolo come famoso poeta ed invitandolo a fare un brindisi benaugurale. E’ proprio il giovane dottore, sorpresa delle sorprese, l’ospite in questione e, fatto ancor più inaspettato, sembra tutt’altro che in imbarazzo per essere stato chiamato a recitare da protagonista al cospetto di un così vasto proscenio, anzi, ci pare perfettamente a proprio agio mentre ricambia il sorriso del comandante e si alza a sua volta in piedi, levando il calice e pronunciando non già due parole striminzite con voce malferma, come aveva fatto durante la cena appena conclusa, ma una e vera propria orazione degna del miglior retore, che strappa gli applausi convinti dei commensali. Niente male per uno che solo poche ore fa avrebbe dato tutto quello che possedeva pur di trasformarsi nell’uomo invisibile, niente male davvero e converrete che ce ne sarebbe di materiale per dire tante altre cose, ma visto che ogni promessa è debito ce ne asterremo, limitandoci ad osservare che in fondo non c’è mica da vergognarsi a sognare di essere famosi e può darsi che la lettura delle Elegie Duinesi, il libro che sta sul comodino accanto al letto, abbia giocato qualche ruolo nella genesi di questo strano sogno. Immaginiamo che il giovane dottore si sia addormentato con la settima elegia tra le mani, magari leggendo come ultime parole prima di cadere addormentato proprio quelle quella della settima elegia, dove Rilke scrive che in nessun dove sarà mondo se non intimamente, e questa frase potrebbe poi aver lavorato negli anfratti più bui della coscienza di Lorenzo mescolandosi con chissà quali e quanti altri pensieri, contribuendo a dare origine ad un sogno tanto particolare. Ma basta così, meglio smetterla con le supposizioni e chiuderla qui, dicendo che probabilmente lo strano sogno del nostro amico è dovuto a qualche ragione meno aulica, come ad esempio il fatto che potrebbe non essere abituato alla cucina portoghese e di conseguenza potrebbe aver trovato qualche pietanza di difficile digestione. E se la nostra spiegazione non risultasse convincente e qualcuno volesse a tutti i costi sottolineare l’incongruenza fra i comportamenti tenuti dal giovane dottore nella vita reale e quelli nel sogno, gli ricorderemo che è bene non insistere troppo, che se ci mettessimo a fare le pulci ai suoi sogni troveremmo qualcosa di strano anche lì, e non per sua colpa, che è cosa nota a molti come quel dio Morfeo che abbiamo appena nominato non viaggiasse da solo alla notte ma si accompagnasse ad una cerchia di folletti che rappresentavano le illusioni, folletti alla cui azione la mitologia classica attribuiva la paternità delle bizzarrie che a volte compaiono nei sogni e che non è possibile spiegare in altra maniera. Questo per dire che il giovane dottore è vittima inconsapevole delle visioni che gli si presentano durante il sonno, che certo non possiamo pretendere che sia in grado di controllarne la coerenza, ma la medesima scusante non può essere accampata per altri che questa sera hanno seduto al suo stesso tavolo, altri che nella solitudine delle loro cabine si stanno comportando in maniera ben diversa da quanto avevano dichiarato a cena, ma che a differenza di Lorenzo sono ben svegli. Jusep Campalans, il pittore catalano, ad esempio, aveva detto con tono perentorio, lo abbiamo sentito con le nostre orecchie, di aver rinunciato da tempo all’arte del dipingere per dedicarsi esclusivamente all’agricoltura, ed ora lo ritroviamo seduto su una sedia, mezzo vestito e mezzo spogliato, che abbozza qualche figura con un carboncino su un album da disegno. Riconosciamo uno schizzo con i tratti di Zenobia Camprubì Aymar, che abbiamo conosciuto come signora Jimenez e un altro, quello al quale è intento in questo momento, che cerca di rappresentare le fattezze della ragazza dal collo lungo e sottile. E se è possibile cercare di giustificare l’incongruenza tra le parole che Campalans ha pronunciato durante la cena ed i comportamenti di adesso, dicendo che non è sufficiente l’abbozzare due figure su un quadernetto per essere considerati pittori di mestiere, più difficile è trovare una spiegazione che regga per quelle scatole di colori ad olio, tempere e pennelli che sono sparse sul letto e per i pacchi di fogli e taccuini che spuntano da una borsa, non proprio l’armamentario, ci sia consentito, di chi ha scelto di fare il contadino. Acqua che non devi bere lasciala correre, dicono gli spagnoli, ma visto che ormai di quest’acqua noi abbiamo cominciato a berne, tanto vale continuare ancora un po’ e proseguire nel nostro giro della buonanotte per le cabine dell’Higland Monarch alla ricerca di altri altarini da scoprire. E’ il turno ora di Alvaro de Campos che, ancora vestito di tutto punto, siede al tavolino della sua cabina leggendo una raccolta di poesie dell’amico Sà Carneiro, fumando l’ennesima sigaretta. Niente di male, ci mancherebbe altro che non si fosse liberi leggere qualche poesia, il fatto è che quella che sta leggendo lui non è una poesia qualsiasi, ma un eccentrico componimento che all’uscita sul primo numero di Orpheu aveva scatenato critiche a non finire. Sono versi che l’ingegnere navale conosce bene e che per qualche ragione che forse sa solo lui ha sentito il bisogno di tornare a leggere, versi che parlano di zone intermedie e di sogni che sviano per il deserto e che si chiudono con l’immagine di un braccio che cade e se ne va a danzare in abito da sera nei saloni del vicerè. Versi che non sappiamo quale significato possano avere per Alvaro de Campos, ma che a noi fanno pensare al sogno del giovane dottore ed alla povera mano di Marcenda. Ma non è tanto la lettura di una poesia quello che ci preme in questo momento, quanto quello che accade dopo che l’ingegner de Campos ha chiuso il libro. Si versa un bicchiere di aguardiente, da un’ultima tirata alla sigaretta prima di spegnerla, fissa per un attimo il soffitto e poi si china a scrivere su un pezzo di carta, e sembra proprio che siano versi di una poesia quelli che escono dalla sua penna, ma qui ci fermiamo, che non saremo così indiscreti da metterci a leggerli, un po’ di curiosità è lecita, ma c’è pur sempre una soglia di intimità che è giusto rispettare. Aggiungeremo solo che dopo aver riempito con grafia minuta il piccolo foglio, Alvaro de Campos lo rilegge due o tre volte, apporta qualche correzione di poco conto, poi lo arrotola con cura e lo infila dentro una bottiglietta che ha preso dal cassetto, stringe con forza il tappo per chiuderla ermeticamente, quindi infila in una tasca interna della giacca il piccolo contenitore con il suo prezioso contenuto e se ne esce dalla cabina. Strano, ricordiamo bene quando parlando con il poeta Ramon Jimenez aveva detto di non aver più scritto una sola riga dal giorno della morte di Pessoa, e ricordiamo anche la discussione sul piacere di rendersi invisibile che le sue parole sulla scelta di non esister più come scrittore avevano innescato. Sarebbe fin troppo facile montare in cattedra a fare i fustigatori dei comportamenti altrui ed osservare come il modo di agire di Alvaro de Campos si avvicini a quello di Jusep Torres Campalans, e come tutti e due non possano certo essere proposti come modelli di coerenza, ma il fatto è che ci sono simpatici e che per indole siamo propensi più a giustificare le debolezze umane che a denunciarle. In fondo ad essere debole non è solo la natura del pittore catalano o quella dell’ingegnere portoghese, ma quella di tutti gli uomini e come meglio si vivrebbe se trovassimo la forza di ammettere che la volontà è più fragile di quanto ci piacerebbe che fosse, se solo ci decidessimo a prendere atto che tutta quella processione di proverbi e modi di dire, che va dal semplice volere è potere al più articolato a buona volontà non manca facoltà, sino al perentorio la volontà è tutto, è una maschera che indossiamo per coprire le nostre insicurezze, un lenzuolo con il quale ci proteggiamo alla bell’e meglio per nascondere che il re è nudo, un po’ come il cane quando abbaia e mostra i denti per non far vedere che ha paura. E se avessimo voglia di giocare a fare i sofisti potremmo anche dire che non c’è neppure tanta contraddizione tra le parole che Campos e Campalans hanno pronunciato a cena ed i comportamenti che tengono nel segreto delle loro cabine, in fondo quegli schizzi su un taccuino e quei versi su un pezzo di carta non li vedrà mai nessuno, quindi in realtà è come se non dipingessero e scrivessero affatto, dato che, come si usa dire in questi casi, uno spettacolo senza pubblico è come se non fosse mai avvenuto. Al nostro giro notturno per curiosare tra le abitudini notturne dei partecipanti alla cena di questa sera, mancano ancora un paio di cabine, la più vicina delle quali è quella occupata dal dottor Jimenez e da sua moglie Zenobia, ci perdoni quindi la signorina Sampaio se la lasciamo per ultima, che a qualcuno deve pur toccare il compito di chiudere questa carrellata, non dubiti però che non ci dimenticheremo di lei e che fra breve saremo pronti a riferire anche di quello che sta facendo o sta pensando la ragazza dal collo lungo e sottile. Per adesso concentriamoci sui coniugi Jimenez, certi che nella loro cabina non ci saranno strane sorprese ad attenderci, considerata la stima incondizionata che godono queste due persone negli ambienti culturali di mezza Europa. Come previsto li troviamo intenti nei preparativi per la notte, lei in bagno alle prese con quel guazzabuglio di balsami, creme, pomate e quant’altro che fanno delle donne della nostra epoca l’equivalente degli alchimisti medioevali, e lui davanti all’armadio, mentre ripone nei cassetti le ultime camicie che ha tolto dalla valigia, i due discutono ad alta voce del piacere di essere considerati invisibili, argomento che evidentemente non è stato ancora del tutto digerito dalla fine della cena ad ora. Davvero non credevo che esistesse un Alvaro de Campos in carne ed ossa, dice lui, Mi da l’idea del tipo eccentrico, gli fa eco lei, quando parla sembra uno che butta lì le cose per il puro piacere di provocare, come se fosse un amante del paradosso, Non avevo mai sentito prima d’ora di uno scrittore che non cercasse di rendersi visibile, di far conoscere quello che scrive, E quel sorriso stirato, quasi un ghigno, quell’atteggiamento da snob, come se tutto gli fosse indifferente, Chissà cosa nasconde dietro quella maschera, se poi è una maschera quella che indossa, Magari non lo è, può darsi che sia proprio uno di quegli snob annoiati da tutto e da tutti, che non trovano più niente che li interessi. Con questi ed altri discorsi simili i due sono ormai a letto, e dopo aver terminato di chiacchierare dedicano i minuti che precedono lo spegnimento della luce alla lettura, riservando il momento di quando sarà buio per quello che seguirà, se ci sarà qualcosa che i due vorranno far seguire alle parole. E così Zenobia inforca un paio di occhiali ed apre il suo amato Tagore e Ramon Jimenez prende in mano un volumetto di poesie di Ruben Dario, ma se a lei sono sufficienti poche righe per lasciare la cabina e la nave e trovarsi per mano all’autore indiano ad esplorare un giardino fatto di spiritualità e buoni sentimenti, per il poeta di Moguer le cose non vanno di pari passo che questa sera non gli risulta tanto semplice tenere ferma la mente sulle pagine del libro, questa sera i suoi pensieri sembrano aver deciso di non lasciarsi portare per mano dove ha deciso la mente ma di provare a camminare con i propri passi in tutt’altra direzione. L’abbiamo già detto, quei discorsi sul piacere di non esistere agli occhi degli altri, tanto più se pronunciati da uno come l’ingegner de Campos che fino ad ora il dottor Jimenez credeva fosse un nome di fantasia inventato da Pessoa, devono ancora essere digeriti ed il tempo necessario per questo processo di assimilazione si annuncia abbastanza lungo. I pensieri di Ramon Jimenez, ci perdoni il poeta l’intrusione nel suo privato, ma non crediamo sia il caso di fare favoritismi proprio adesso e visto che poco fa ci siamo presi la libertà di leggere nei sogni di un dottore, non vediamo perché ora non dovremmo fare lo stesso sbirciando nella mente di un poeta, i pensieri di Ramon Jimenez dicevamo, sono rivolti ad una ragazza peruviana sua ammiratrice con la quale quasi trent’anni fa ha intrattenuto una corrispondenza epistolare. Un nome che emerge dal passato dopo un letargo che sembrava eterno, Georgina Hübner, una giovane saltata fuori dal nulla ed al nulla rientrata, Chissà dove sarà adesso, si chiede Jimenez, rammentando lo sconcerto con il quale aveva letto quelle righe scarne giunte dal Perù che ne comunicavano la morte improvvisa senza aggiungere particolari sulle circostanze della sua scomparsa e che avevano messo fine a due anni di lettere attraverso l’Atlantico, Chissà dove sarà adesso, si chiede rammentando lo sconcerto ancora maggiore con il quale aveva appreso nei mesi successivi le altre notizie, quelle che dapprima avevano messo in dubbio l’esistenza stessa di Georgina, fino a quelle voci insistenti che dicevano che tutta la storia fosse stata una specie di tragico scherzo, se non di truffa ai suoi danni e che sembravano proprio aver trovato più di una conferma. Con il tempo anche lui aveva accettato il fatto che quella Georgina Hubner a cui aveva dedicato anche alcuni versi fosse in realtà un personaggio di fantasia, inesistente, ma adesso non ne è più tanto sicuro, adesso i suoi pensieri hanno voglia di cancellare tutti i fatti e le informazioni raccolte su questa vicenda per essere liberi di correre dietro al fantasma della ragazza peruviana, adesso è notte, il momento migliore per i sogni, ed i sogni non hanno bisogno di confrontarsi con prove documentali per costruire le loro architetture. Ma lasciamo Ramon Jimenez alle sue fantasie per occuparci di altro, è arrivato il momento della signorina Sampaio, dulcis in fundo, come dicevano i latini, e con questa galanteria ci scusiamo con lei per averla trascurata sino ad ora, ma attenzione però, che la nostra galanteria finisce qui, che il rispetto per il genti sesso non ci esenterà dal riservarle lo stesso trattamento di chi l’ha preceduta e dal riferire al lettore quello che succede nella sua cabina. Eccola allora, la ragazza da collo lungo e sottile, che a tavola sembrava così preoccupata di non essere dimenticata e che ci teneva tanto ad essere considerata vera. Anche lei è a letto, ma sembra che in questo caso il dio Ipno, che con tanta facilità aveva chiuso le palpebre del giovane dottore, abbia il suo daffare per riuscire a farla addormentare. E’ la prima volta che Marcenda dorme su una nave e non è abituata al suo leggero basculamento, al brontolio del mare ed agli altri rumori di bordo, così diversi da quelli consueti, non è abituata all’idea di passere quindici giorni su un piroscafo in viaggio sull’Atlantico, non è abituata allo spazio angusto della cabina, e soprattutto non è abituata a stare sola. Non basta spegnere la luce per riuscire a dormire e neppure la stanchezza per una giornata così piena e faticosa è sufficiente per riuscire nell’intento, per far assopire una ragazza di venticinque anni ci vuole la tranquillità, tranquillità che è proprio quello che in questo momento manca a Marcenda. Si gira e rigira nel letto, in uno stato che non è più quello di veglia e non ancora quello di sonno, con una serie di immagini che si sovrappongono nella sua mente alla velocità di fotogrammi di un film. I commensali che hanno partecipato alla cena di questa sera, il dottor Jimenez con la moglie, il giovane dottore italiano e gli altri, il padre che la saluta sul molo di Alçantara e poi passa un braccio sulla spalla di Maria Madalena Simões, il dottor Ricardo Reis, i ricordi di Coimbra, la nave così alta sul pelo dell’acqua, il viso della madre, la folla dell’imbarco, l’imbarazzo del giovane dottore nel parlare, le cose da fare appena arrivata in Brasile, telegrafare a casa, contattare gli specialisti che le hanno indicato i dottori in Portogallo, la nonna mancata da poco, gli amici lasciati a casa e ancora il viso del giovane dottore.
E con Marcenda abbiamo terminato un tour notturno che magari non è stato molto rispettoso dell’intimità altrui ma che ci ha permesso di conoscere un po’ meglio le persone con le quali avremo a che fare per le prossime due settimane, un’ultima cosa ci rimane da dire e cioè che mentre tornavamo sul ponte di poppa, per lasciarci addormentare dal mare ascoltandolo cantare la sua canzone respirandone il salmastro, abbiamo incontrato l’ingegner de Campos che, sporgendosi dalla balaustra, lasciava cadere in acqua una bottiglietta. Mentre rientrava in cabina giureremmo di averlo sentito parlare a bassa voce come se stesse conversando con qualcuno, Fernando ci sembra che dicesse, ma questo non potremmo darlo per certo.

domenica 16 marzo 2014

Roberto Bolaño - I dispiaceri del vero poliziotto


Romanzo postumo, che nelle intenzioni dell'autore doveva essere un'opera monstre, di oltre ottocentomila pagine. Uno degli incipit più potenti e provocatori della letteratura contemporanea (la classificazione degli scrittori in froci e frocioni) da il via ad un'alternarsi di pagine di grande letteratura (penso, ad esempio, al secondo capitolo, dove Amalfitano racconta chi era, al ricordo del soldato sivigliano, alle cinque generazioni di Marie Expòsito, alla storia del generale Sepùlveda), di critica letteraria, di riflessioni sulla storia, di fantasia sfrenata (la bibliografia di Arcimboldi) … che catturano e trascinano il lettore in un viaggio che si vorrebbe non finisse mai. 
La solita scrittura “piena” a cui ci ha abituato Bolaño, che sembra tracimare in tutte le direzioni, un libro che è impossibile (o meglio: inutile) cercare di riassumere, fatto di tante storie collegate tra loro ma anche in grado di camminare da sole, un libro “eccentrico”, che è come le strade di Santa Teresa che “erano proiettate fuori, urbane e al tempo stesso aperte verso la campagna, una campagna di grandi spazi misteriosi”, un libro carico di vitalità, di voglia di dire e di fare, un romanzo “polifonico” che vuol raccontare “quante voci possiamo sentire nel corso di un giorno o di un'esistenza”. 
 Bolaño è un demiurgo che crea le sue storie impastando fango e sogni, letteratura e terra delle strade di Sonora, gioia e amarezza, coraggio e paura, presenza e assenza, felicità e sensi di colpa, sempre alla ricerca della verità delle cose per trovare “se non la ragione, una dannata giustificazione, e se non una giustificazione, il canto, appena un mormorio, ma indelebile”, il tutto ammantato da un velo di malinconia che passa come un vento caldo, a folate, su tutto il libro.

sabato 15 marzo 2014

Corona


Dalla mano l’autunno mi bruca una foglia: 
è sua, siamo amici. Facciamo sgusciare il tempo via dalle noci e gli 
insegniamo ad andare: 
il tempo si dirige all'indietro, nei gusci. 

Nello specchio è domenica, 
nel sogno potremo dormire, 
la bocca in verità conversa. 

Il mio occhio corre giù, fino al grembo 
dell’amata: 
ci guardiamo a vicenda, 
ci diciamo oscure parole, 
ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria, 
dormiamo come vino nelle conchiglie, 
come il mare nel chiaro-sangue di luna. 

Abbracciati, stiamo alla finestra, ci vedono 
su dalla strada: 
è tempo, che si sappia! 
E’ tempo, che la pietra si disponga a fiorire, 
che l’ansia un cuore possa colpire. 
E’ tempo, che sia tempo. 

E’ tempo. 

[Paul Celan: "Papavero e memoria"]