sabato 12 marzo 2016

Mircea Cărtărescu . Travesti


Romanzo del 1994 che riprende, ampliandolo, un tema già trattato ne I gemelli, uno dei racconti presenti in Nostalgia (1993), e che presenta in nuce anche diverse delle tematiche proprie della poetica Cărtărescuana.
La trama è costituita dal lungo monologo di Victor, scrittore che si rifugia in una baita i montagna per trovare l’ispirazione necessaria a scrivere il suo libro, ma si ritrova a fare i conti con un ricordo della gioventù (un amico travestito da ragazza) dal quale non riesce a liberarsi e del quale cerca di esplorare il significato.
“Sai, Victor, che la mia solitudine ha sulla sua pelle bianca un ascesso e che questo ascesso si chiama Lulu? Sai che sono venuto qua per ricordarmi la pelle di quella ragazza che in me ha sempre trovato un oscuro riparo in cui poter cullare la sua bambola e che più giù, nel punto in cui l’orlo dell’abito tocca la pelle dolce e trasparente del polpaccio, ho trovato ora un ascesso miserabile che si chiama Lulu.”
Tra ricordi e sogni, alternando il punto di vista di Victor-scrittore a quello di Victor-ragazzo, Cărtărescu sviluppa un racconto che contiene, come detto, aspetti che verranno ampliati nelle opere più mature (penso, ovviamente, alla trilogia di Abbacinante): la solitudine (come una corda tesa sulla follia incombente), il tema del doppio, la scrittura come strumento salvifico e di tortura (anche qui il doppio), l’aspirazione a realizzare il romanzo totale, onnicomprensivo, contenente tutte le domande e tutte le risposte, l’adolescenza vissuta da escluso rispetto agli altri, intesa come età dell’infelicità e di preparazione per il progetto futuro, sogno e realtà che finiscono per sfumare l’uno nell’altra e per confondersi e soprattutto la sfrenata immaginazione (vero marchio di fabbrica dell’autore rumeno), capace di creare vortici di parole che danno vita a universi paralleli nei quali uomo e ragno finiscono per compenetrarsi e dare origine a qualcosa di diverso, avvitandosi in spirali vertiginose che salgono a folle velocità verso il cielo in cerca di una via d’uscita dall’esistenza, in cerca di una porta che non esiste che metta in comunicazione tutti i mondi possibili (e impossibili).



Per stile e contenuto Travesti non mi è sembrato ancora al livello di Abbacinante. A volte troppo descrittivo, con qualche difficoltà nel gestire la quantità e qualità del materiale messo in campo, risulta comunque romanzo utile a chi voglia iniziare la lettura dell’autore rumeno, forse prescindibile per chi ha già conosciuto il “caleidoscopio psichedelico” di Abbacinante, ma sicuramente interessante per apprezzare le fasi della crescita del progetto Cărtărescuano.

domenica 6 marzo 2016

Mircea Cărtărescu - Una motocicletta parcheggiata sotto le stelle


sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle,
accanto alla vetrina di un negozio che ripara televisiori.
dall’andito viene uno spiffero notevole. sono pallida, emaciata.
nel negozio hanno lasciato una luce accesa, sicché un paio di tubi catodici
vasi d’asparago e di cactus, scaffali di lamiera stipati di carcasse di televisiori, cassette AFGA e cavi
luccicano confusamente, popolano la mia solitudine.
mi sento sola infatti.
nel mio specchietto retrovisore pullulano le galassie,
svaporano le stelle in sciamature sferoidali,
trasmettono il proprio ansimare le radiosorgenti
allontanandosi tutte in velocità, come dei criminali dal luogo del delitto che si lasciano dietro una traccia d sangue.

che silenzio. talvolta mi chiedo

cosa potrà significare fare all’amore. loro parlano
infatti solo di questo. ogni sabato m’inforcano
e mi spingono sulle strade. vedo le colline, le nuvole, il sole
le gocce di pioggia, gli alberi che si aggrovigliano nell’arcobaleno…
ah , i cilindri battono in me all’impazzata. allora sento veramente di vivere.
loro entrano in un motel e fanno all’amore.
loro sono i Padroni e si sentono liberi.
ma come può essere qualcuno libro quando è fatto di cellule?
...e torno di nuovo nell’andito, accanto a una polverosa vettura dacia.
ho sete d’amore. se potessi amare almeno uno spinotto con prolunga di questa vetrina.
lascerei scivolare le mie dita sulla sua pelle di plastica bianca, se lo volesse
e se avessi delle dita. se potessi vivere
almeno nel campo bioelettrico del cactus…
presto, ben presto morirò, e non avrò fatto nulla in questo mondo, mi getteranno tra i ferri vecchi
mi spaccheranno il fanale e la lampadina bruciata mi rimarrà sospesa a due fili di rame.
per tutta la vita ho aiutato gli altri a fare all’amore
e io morirò in mezzo a bobine, magneti e cardi.

sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle.

domattina m’inforcheranno di nuovo, mi torceranno il manubrio, mi metteranno in moto
e rieccomi sull’asfalto variegato, fra le colline rossicce, fra i monti azzurri,
fra gli avvallamenti percorsi da fiumi
superare i passaggi a livello, attraversare luminose cittadine di provincia
marciando controvento fra sprazzi di pioggia e gas di scappamento,
divorando chilometri.
vorrà significare questo fare all’amore?
come che sia, questa è la mia consolazione, il mio mestiere, è il mio amore.
per questo merita essere soli.

[Mircea Cărtărescu "Poema dell'acquaio"]

domenica 28 febbraio 2016

E.L. Doctorow – La coscienza di Andrew


di cervello, coscienza e anima



Romanzo breve, complesso e spiazzante. Un lungo dialogo tra Andrew, scienziato cognitivo, e Doc, uno psicanalista forse, perché l’identità dell’interlocutore del protagonista non è precisata. Dalla prima alla terza persona, dal presente al passato, dal reale all’immaginato, dal dialogo al monologo, il tutto ambientato in uno spazio che l’autore non si cura di definire, lasciandolo alla nostra immaginazione.

La storia di un uomo bersagliato dal destino ma anche complice del destino, almeno per alcune delle sventure accadutegli, e che prova a guardarsi indietro manifestando indifferenza (“affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene e nel male”). La morte della figlia, il divorzio dalla moglie e poi un nuovo amore: la speranza di un riscatto, della possibilità di riemergere dal buio nel quale era finito… e di nuovo il destino a negargli questa chance.

Andrew si dichiara un impostore e allarga la definizione a comprendere anche Doc e tutti noi

“Siamo tutti impostori, dottore, anche tu. Specialmente tu. Perché sorridi? Fingere è il pane quotidiano del cervello. È quello che fa. Riesce perfino a fingere di non essere se stesso. Ah sì? E che cosa sa fingere di essere, tanto per fare un esempio? Be’, per lunghissimo tempo, e fino all’altro ieri, l’anima.”

Già, cervello, coscienza, anima. Dove sono i confini, quali le sfere di competenza? Cosa governa cosa? La strada che percorriamo è un andare per tentativi, l’esplorazione di territori ai confini delle nostre possibilità, assecondando la voglia di sapere e poi rilanciando con interrogativi nuovi. Cos’è la felicità (se esiste)? Cosa succede a scrutare dentro se stessi? Come si deve vivere? Ma soprattutto: quanto dobbiamo fidarci del cervello? Perché

“(l’anima) è la finzione del cervello. Dobbiamo andarci cauti con i nostri cervelli. Prendono le decisioni prima di noi. Ci conducono all’acqua ferma. Rinunziano al libero arbitrio. E la cosa è ancora più bizzarra: se tagliate un cervello a metà, emisfero sinistro ed emisfero destro continueranno a funzionare autonomamente senza sapere l’uno cosa fa l’altro. Ma non state a pensarci, tanto non siete voi a pensare. Limitatevi a seguire la vostra stella. A vivere dando per scontata la vita costruita socialmente. Abolite la scienza. Credete più o meno in Dio. Dimenticativi gli errori commessi. Offrite la vostra giustificazione allo specchio del bagno.”

Questioni destinate a rimanere aperte, domande per le quali non esistono risposte certe. La ricerca di una spiegazione onnicomprensiva va, fatalmente, a sbattere contro una realtà frammentaria, fatta di troppe cose, proprio come il gabbiano che ad un certo punto della narrazione si schianta contro il vetro di una finestra.

E allora? Come uscire da questo impasse? Con un coup de théâtre, ad esempio, come una verticale eseguita dal protagonista nello Studio Ovale della Casa Bianca, davanti al Presidente ed al suo staff allibito. Un “infinite jest” che segna una svolta, forse una resa, sicuramente un punto di non ritorno: da “Grande Impostore” a “Pazzo Santo”, un modo per difendersi, proprio come

“Le sciocchezzuole inventate da Twain accanto al letto delle sue figlie. Che lui le protegge, e che il mondo è un posto sicuro e confortevole adesso che devono fare la nanna. Che quando saranno grandi si ricorderanno di questa favola e rideranno d’amore per il loro padre. Che questo è il suo riscatto.”




sabato 20 febbraio 2016

Antonio Di Benedetto – L’uomo del silenzio




“Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo so.”



La storia di un’ossessione, quella dell’uomo senza nome protagonista del romanzo per il rumore, rumore che fa il suo ingresso in scena già alla seconda riga (Apro il cancello e trovo il rumore) e che viene presentato come qualcosa di concreto più che entità astratta (lo cerco con lo sguardo, quasi fosse possibile determinare la sua forma e il limite della sua vitalità).

All’inizio è solo un disturbo, frastuono che proviene dalla strada e si limita ad infastidire il protagonista quando è in casa, ma nel corso della storia si dilaterà a dismisura fino a diventare ingovernabile, monomania in grado di fare da innesco per l’esplosione di quel malessere che il giovane non riesce più a comprimere dentro di sé.

Un uomo solo, che frequenta un strano e contorto amico di nome Besarion, con il quale non riesce ad avere un rapporto confidenziale ma solo conversazioni superficiali, ed è invaghito di una ragazza, Leila, una vicina di casa alla quale non riuscirà mai a dichiarare i suoi sentimenti, finendo poi per sposarne l’amica, Nina, più per indolenza che per amore (Sposerò Nina. È la cosa più facile, sì, molto più facile di tutto il resto.).

Un uomo freddo, apatico, che si sorprende della considerazione qualcuno può avere per lui (“Perché mi accetta?” – chiede a Nina – “Perché lei è buono e per bene.” “Sono buono e per bene?”), e che non riesce a provare alcuna forma di empatia per gli altri.

Un uomo che vive veramente solo nella sua immaginazione, nei suoi sogni, come quello del romanzo che vorrebbe scrivere senza però iniziarlo mai, ma che se non altro gli fornisce il conforto necessario per andare avanti (forse questo è il fausto giorno in cui comincerò il mio libro. Ce l’ho quasi tutto nella testa. Mi basta sceglierne un inizio: cosa dire per primo, con cosa cominciare. Seduto allo scrittoio, ci rifletto, e le creature che ho pensato già fanno quel che devono per vivere il dramma prefissato. Ho detto loro di camminare, e camminano. Mi meraviglio della magia del mio pensiero. Reclino la testa e mi assopisco. Sono felice e questo mio riposo è meritato).

Un personaggio simile in tutto e per tutto al Bernardo Soares di possoana memoria: un sognatore, ma forse anche un immaturo, uno che preferisce la fuga al confronto, che ha paura di assumersi delle responsabilità e appena può scappa in solaio a giocare da solo con i suoi soldatini. Un uomo lacerato, come lo definisce Besarion, senza sapere cos’è che lo lacera.

Gli altri, la gente, i vicini, sono nemici, fabbricatori di rumori e di disturbo, da evitare prima e combattere poi, in un crescendo che diventa drammatico con il procedere della trama.

Perché tanto accanimento nei confronti del rumore? Perché secondo il protagonista è ciò che gli impedisce la concentrazione, ma questa è solo una scusa, una giustificazione che racconta agli altri sperando di convincere anche se stesso, perché in realtà il problema è che non sa su cosa concentrarsi: il protagonista è un guscio vuoto, senza obiettivi, ambizioni, aspirazioni. Questo è il vero dramma, il dramma dell’uomo moderno che dopo essersi calato nei labirinti della coscienza scopre di aver perso il filo che lo legava all’esterno (Besarion tenta di essere, finge di essere, pur di non essere. Non essere che cosa? Non essere chi? Se stesso. Besarion tende decisamente a non essere. E io, tendo a non essere?... no, tendo a essere. Non me lo permettono. Interferiscono, mi bloccano. Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo so, Lo intuisco appena.).

Atmosfera kafkiana per una scrittura che per il rigore e la freddezza delle frasi brevi, secche come sentenze, mi ha ricordato Lo straniero di Camus. Ma Di Benedetto è scrittore argentino e come tale non può far mancare tra le pagine quegli squarci di luce tipici della letteratura sudamericana (il sole che si prodiga sul tavolo della stanza da pranzo, il giorno che non è altro che latticello acquoso alla finestra). Leggo sulla quarta di copertina che la rivista La Nacion ha definito l’autore “uno dei segreti meglio custoditi della letteratura nazionale”: ecco, sono contento che questo segreto sia stato finalmente svelato.

sabato 13 febbraio 2016

Javier Cercas - Anatomia di un istante



Lettura diversa da quello che mi aspettavo, nel senso che mi è sembrata più una via di mezzo tra il saggio e il reportage simil-giornalistico che un romanzo. Cercas non parte dal tentativo di golpe del 23 febbraio 1981 per sviluppare una trama, ma si ferma ad analizzarne presupposti e conseguenze con grande perizia.
Il fatto di non essere uno storico permette all’autore di lavorare su più livelli: sull’accaduto, ovviamente, ma anche sulle ipotesi e soprattutto sui protagonisti, indagandone carattere e psicologia.
Nel 1981 avevo sedici anni e mezzo, e nei miei ricordi il 23-F ha i contorni della farsa più che quelli della tragedia: il tenente colonnello Tejero, con quei baffoni, l’improbabile tricorno e gli occhi spiritati… mi aveva fatto subito pensare a uno di quei soldati che Zorro sbeffeggiava quotidianamente che a un militare di prima fila. Per non parlare dei goffi tentativi che aveva messo in atto per sgambettare Gutiérrez Mellado… un soldatino, altro che un militare determinato e pronto a tutto. Probabilmente la realtà era un po’ diversa e io l’avevo percepita in quel modo a causa della mia giovane e della televisione ( è lo stesso Cercas a scrivere che “è probabile che la televisione contamini di irrealtà qualunque cosa riprenda, e che un evento storico venga in qualche modo alterato una volta trasmesso sullo schermo, perché la televisione distorce il modo in cui lo percepiamo”). Eppure la ricostruzione dell’autore spagnolo, per quanto dettagliata e ampiamente condivisa, sembra confermare quella mia impressione di golpe da operetta e per questo non riesce a convincermi fino in fondo.
“Forse il suo piano era campato in aria e peccava di troppa immaginazione.
Non ebbe successo, soprattutto perché nei primi minuti del golpe, quando era in ballo la riuscita o il fallimento, si verificarono due fatti imprevisti: il primo è che il sequestro del Congresso non avvenne secondo la discrezionalità prevista e degenerò in sparatoria, cosa che lordò con un'immagine da golpe duro quello che voleva essere un golpe morbido, mettendo in difficoltà il re, impedendogli cioè di accettare fin dal principio una manovra politica che si presentava con un simile eccesso di violenza; il secondo è che il nome di Armada era già sulla bocca dei golpisti prima che il generale avesse l'opportunità di spiegare al re la natura del golpe e fargli la sua proposta di soluzione, e aver menzionato Armada suscitò diffidenza nel re e in Fernández Campo, cui si aggiunge la rivalità tra Fernández Campo e Armada, ottenendo il risultato che i due decisero di tenere lontano dalla Zarzuela l'ex segretario. E fu così che, dopo soli quindici minuti, il golpe si impantanò.”
Questo per dire che mi sembra poco verosimile che un golpe militare possa andare gambe all’aria solo per qualche colpo di pistola sparato in aria e perché poi il segretario generale del re si rifiuta di ricevere il generale Armada alla Zarzuela.
L’altro aspetto che non mi ha convinto pienamente nella scrittura di Cercas è l’uso reiterato delle “simmetrie”. Qualche esempio:
“pur sembrando forte, il suo partito era ancora debole, e, pur sembrando debole, il franchismo era ancora forte”
“se è forse impossibile capire il comportamento di Armada il 23 febbraio senza tenere conto del suo rancore per Adolfo Suàrez, forse è altrettanto impossibile comprendere il comportamento di Milans quel giorno senza tenere conto della sua avversione per Gutiérrez Mellado.”
“per Tejero Santiago Carrillo rappresentava qualcosa di simile a ciò che Adolfo Suárez rappresentava per Armada, e Gutiérrez Mellado per Milans”
“Milans era contro la democrazia, ma non contro la monarchia, Armada non era contro la monarchia né contro la democrazia (almeno non in modo aperto ed esplicito), ma solo contro la democrazia del 1981 di Adolfo Suàrez”
“il golpe del 23 febbraio fu singolare perché si trattò di tre colpi di Stato diversi: prima del 23 febbraio Armada, Milans e Tejero credevano che il golpe fosse lo stesso per tutti e tre, e questo permise di sferrarlo; il 23 febbraio scoprirono che c'erano tre golpe distinti, e tale scoperta causò il fallimento del golpe. Questo fu ciò che accadde, almeno dal punto di vista politico; dal punto di vista personale accadde qualcosa di ancor più singolare: Armada, Milans e Tejero scatenarono tre colpi di Stato contro tre uomini diversi”
“Santiago Carrillo aveva tradito gli ideali del comunismo,  Gutiérrez Mellado aveva tradito Franco, Suàrez aveva tradito il partito unico fascista in cui era cresciuto, Suàrez, Gutiérrez Mellado e Carrillo tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente.”
Efficaci, niente da dire, e con indubbi vantaggi sulla leggibilità dell’opera, ma mi è parso che l’autore si sia fatto prendere un po’ troppo la mano, finendo in qualche frangente per abusare di questo espediente.