Un
lungo monologo, con uno degli incipit più belli della narrativa contemporanea (come
termine di paragone mi viene in mente solo Body
Art di Delillo).
“Ora muoio, ma ho
ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma
all’improvviso le cose sono emerse. La colpa è di quel giovane invecchiato. Io
ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi punti. Quindi mi
appoggerò su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa tremante, e
cercherò nell’angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e perciò
smentiscono le infamie che il giovane invecchiato ha sparso in giro a mio
discredito in una sola notte fulminea. A mio presunto discredito. Bisogna
essere responsabili. È tutta la vita che lo dico. Abbiamo l’obbligo morale di
essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino
dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi, perché anche i silenzi salgono al
cielo e Dio li sente e solo Dio li comprende e giudica, per cui molta
attenzione ai silenzi. Io sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono
immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è
trascurabile. Dio no. Non so di cosa sto parlando. A volte mi sorprendo
appoggiato su un gomito. Divago e sogno e cerco di essere in pace con me
stesso. Ma a volte dimentico perfino il mio nome. Mi chiamo Sebastián Urrutia
Lacroix. Sono cileno.”
Un
inizio ipnotico, una scrittura quasi bernhardiana, un ritmo suadente, che ti
attira tra le sue spire, ti porta dentro la storia e non ti molla più fino alla
penultima riga. Poi, quando tutto è finito, ti sputa fuori senza tanti riguardi
(“E poi si scatena la tempesta di merda”)
per restituirti alle miserie del tuo mondo.
Notturno cileno è la storia di Sebastián Urrutia Lacroix, prete
dell’Opus Dei e scrittore, intento a tracciare un bilancio della sua vita, a
fare i conti con se stesso e con quel misterioso “giovane invecchiato” che
rappresenta probabilmente la sua coscienza. Ricordi, storie, incontri: da
Farewall, il famoso critico letterario, a Neruda, da Pinochet a Jünger, a María
Canales, intrecciando personaggi veri e personaggi inventati per raccontare la
storia di un uomo e insieme la storia del Cile degli ultimi quarant’anni. Parole
e silenzi, azioni e omissioni, sogni e bassezze, il tutto sembra mescolarsi in
maniera straordinariamente fluida nella figura del protagonista ed è tenuto
insieme dall’assenza di sensi di colpa. Sebastián
Urrutia Lacroix vede le cose, le riconosce per quello che sono, eppure non le
sente sue, non gli appartengono. È un uomo che vive il suo tempo senza sentirsi
sfiorato dalle tragedie che lo circondano, che attraversa la vita curandosi
solo di quello che lo interessa e trascurando il resto: un uomo che vive scotomizzando
la realtà. Ma non è solo, perché intorno a lui si muove e prospera un’umanità
fatta di suoi simili, il che spiega perché le cose sono successe e perché
succederanno di nuovo.
Se
Hermann Broch aveva cercato di spiegare il suo tempo mettendo il dito sulla
piaga dell’indifferenza, Bolaño sembra raccogliere in questo libro il suo
testimone, dimostrando come le cose non siano tanto cambiate dagli anni Trenta
ad oggi: Sebastián Urrutia Lacroix sembra essere a tutti gli effetti il degno
erede di Pasenow e la mancanza di sensi di colpa la diretta conseguenza di
quell’indifferenza.