Viaggio intorno alla coscienza del sé.
Perché leggo? Per il piacere di vivere altre vite oltre la mia, certo. Ma soprattutto perché ogni volta che apro un libro spero di imbattermi in opere come questa e in scrittrici come Clarice Lispector.
Un autore che ha focalizzato l’attenzione sempre lo steso tema, sul quale non si è mai stancata di riflettere per tutto il corso della sua opera letteraria, fino a farne una vera e propria ossessione. Parlo dell’esplorazione del sé, del viaggio negli abissi della coscienza, ossessione che la accomuna ad altri scrittori di razza. Dostoevskij, per dirne uno, vi si dedica scavando nella psicologia dei personaggi, mettendone a nudo le contraddizioni, illuminandone le zone d’ombra, Thomas Bernhard, per dirne un altro, lo fa utilizzando il bisturi della ragione. Lispector invece decide di percorrere un’altra strada, costruendosi da sola l’equipaggiamento con i quali affrontare la sua ossessione.
È il linguaggio la corda alla quale la scrittrice brasiliana si aggrappa nella sua discesa nelle profondità dell’anima, un attrezzo della pericolosità del quale è perfettamente consapevole, uno strumento imprescindibile ma che necessita di essere modellato e rimodulato in continuazione perché spesso inadeguato e quasi sempre contraddittorio. Uno strumento con il quale Lispector imbastisce un furioso corpo a corpo che inizia nel 1943 con Vicino al cuore selvaggio e termina solo trent’anni dopo con Acqua viva.
Se una “personalizzazione” del linguaggio è il mezzo che la scrittrice utilizza nel suo percorso letterario, la scoperta dell’uomo è, come detto, il fine della sua ricerca. Una scoperta che passa attraverso il tentativo di svincolarsi dalla ragione per arrivare a una conoscenza affidata all’istinto (La mela nel buio), alla sensibilità (La passione secondo G.H.) o alla consapevolezza (Un apprendistato o il libro dei piaceri). È un percorso tortuoso, che ognuno dei personaggi dei libri citati deve costruirsi in maniera personale, adattandolo alla propria situazione. Un percorso alla fine del quale non c’è mai una comprensione assoluta, ma la conoscenza dell’istante, perché quello a cui aspira la scrittrice è arrivare ad afferrare l’armonia del momento.
Per Martim, il protagonista di La mela nel buio, il viaggio alle radici del sé è una specie di fuga catartica a seguito di un delitto, una fuga dagli altri e da ciò che lui era in precedenza (il suo vecchio sé), un percorso interiore accidentato e farraginoso durante il quale l’uomo prova a spogliarsi dalle sovrastrutture della ragione per affidarsi ad una conoscenza istintuale. Il suo scopo è quello di arrivare ad una salvezza verso la quale si sente diretto ma che non riesce a mettere a fuoco compiutamente finendo per essere schiacciato dalla realtà che manderà in frantumi il suo tentativo di costruirsi una coscienza.
Il viaggio della protagonista de La passione secondo G.H. è un lungo monologo in forma di dialogo con un “lui” mutevole, rappresentato dalla mano che accompagna G.H. nella sua discesa negli inferi dell’anima. È un viaggio più “strutturato” rispetto a quello di Martim, ma con tappe comuni: anche qui il primo passo è rappresentato dallo spogliarsi delle convenzioni per andare a vedere cosa si nasconde dietro la patina con la quale avvolgiamo cose, persone e sentimenti, anche qui si abbandona l’ordine della ragione per privilegiare gli strumenti dell’istinto e arrivare al nocciolo, al neutro, all’inespressivo, all’indicibile. La differenza tra Martim e G.H. è che in questo caso il viaggio assume i contorni di un percorso iniziatico verso Dio, un viaggio vertiginoso e quasi mistico che però si arresta sulla soglia della conoscenza piena, completa, perché “il nodo vitale di una cosa non lo si tocca mai”. Qui perà non c’è però fallimento, come nel caso di Martim, perché G.H. ha visto e quindi sa, ha acquisito una consapevolezza con la quale può far ritorno nel mondo, più forte di quando era partita.
Il viaggio di Lori, protagonista de Un apprendistato o il libro dei piaceri, è il viaggio di una ragazza che cerca di capire chi è e cosa vuole, al di là delle maschere che ha indossato fino a quel momento. Un viaggio fra simboli e metafore (l’amante Ulisse, il mare, l’acqua…) che guarda all’anima ma anche al corpo, che cerca di liberarsi dal dolore consolatorio per imparare l’allegria, un viaggio nelle profondità dell’animo ma finalizzato ad aprirsi all’altro, a dare e ricevere, un viaggio verso la libertà, verso la realizzazione di Lori come persona.
Entrare nel mondo di Clarice Lispector non è un processo semplice, il passaggio è stretto, la via angusta, eppure si tratta di un’impresa stimolante, che premia il lettore. Lispector è una di quelle scrittrici con le quali accade la magia di trovarsi, nel bel mezzo della lettura, dall’altra parte dello specchio. Non dentro la trama, ma dentro l’autrice. Si sente (o si crede di sentire) come lei sentiva. Non è scoperta, ma riconoscimento e vedere sulla pagina magicamente descritte a parole sensazioni che dentro di noi vivevano ma solo a un livello indefinito ci fa sentire meno soli.
Un autore che ha focalizzato l’attenzione sempre lo steso tema, sul quale non si è mai stancata di riflettere per tutto il corso della sua opera letteraria, fino a farne una vera e propria ossessione. Parlo dell’esplorazione del sé, del viaggio negli abissi della coscienza, ossessione che la accomuna ad altri scrittori di razza. Dostoevskij, per dirne uno, vi si dedica scavando nella psicologia dei personaggi, mettendone a nudo le contraddizioni, illuminandone le zone d’ombra, Thomas Bernhard, per dirne un altro, lo fa utilizzando il bisturi della ragione. Lispector invece decide di percorrere un’altra strada, costruendosi da sola l’equipaggiamento con i quali affrontare la sua ossessione.
È il linguaggio la corda alla quale la scrittrice brasiliana si aggrappa nella sua discesa nelle profondità dell’anima, un attrezzo della pericolosità del quale è perfettamente consapevole, uno strumento imprescindibile ma che necessita di essere modellato e rimodulato in continuazione perché spesso inadeguato e quasi sempre contraddittorio. Uno strumento con il quale Lispector imbastisce un furioso corpo a corpo che inizia nel 1943 con Vicino al cuore selvaggio e termina solo trent’anni dopo con Acqua viva.
Se una “personalizzazione” del linguaggio è il mezzo che la scrittrice utilizza nel suo percorso letterario, la scoperta dell’uomo è, come detto, il fine della sua ricerca. Una scoperta che passa attraverso il tentativo di svincolarsi dalla ragione per arrivare a una conoscenza affidata all’istinto (La mela nel buio), alla sensibilità (La passione secondo G.H.) o alla consapevolezza (Un apprendistato o il libro dei piaceri). È un percorso tortuoso, che ognuno dei personaggi dei libri citati deve costruirsi in maniera personale, adattandolo alla propria situazione. Un percorso alla fine del quale non c’è mai una comprensione assoluta, ma la conoscenza dell’istante, perché quello a cui aspira la scrittrice è arrivare ad afferrare l’armonia del momento.
Per Martim, il protagonista di La mela nel buio, il viaggio alle radici del sé è una specie di fuga catartica a seguito di un delitto, una fuga dagli altri e da ciò che lui era in precedenza (il suo vecchio sé), un percorso interiore accidentato e farraginoso durante il quale l’uomo prova a spogliarsi dalle sovrastrutture della ragione per affidarsi ad una conoscenza istintuale. Il suo scopo è quello di arrivare ad una salvezza verso la quale si sente diretto ma che non riesce a mettere a fuoco compiutamente finendo per essere schiacciato dalla realtà che manderà in frantumi il suo tentativo di costruirsi una coscienza.
Il viaggio della protagonista de La passione secondo G.H. è un lungo monologo in forma di dialogo con un “lui” mutevole, rappresentato dalla mano che accompagna G.H. nella sua discesa negli inferi dell’anima. È un viaggio più “strutturato” rispetto a quello di Martim, ma con tappe comuni: anche qui il primo passo è rappresentato dallo spogliarsi delle convenzioni per andare a vedere cosa si nasconde dietro la patina con la quale avvolgiamo cose, persone e sentimenti, anche qui si abbandona l’ordine della ragione per privilegiare gli strumenti dell’istinto e arrivare al nocciolo, al neutro, all’inespressivo, all’indicibile. La differenza tra Martim e G.H. è che in questo caso il viaggio assume i contorni di un percorso iniziatico verso Dio, un viaggio vertiginoso e quasi mistico che però si arresta sulla soglia della conoscenza piena, completa, perché “il nodo vitale di una cosa non lo si tocca mai”. Qui perà non c’è però fallimento, come nel caso di Martim, perché G.H. ha visto e quindi sa, ha acquisito una consapevolezza con la quale può far ritorno nel mondo, più forte di quando era partita.
Il viaggio di Lori, protagonista de Un apprendistato o il libro dei piaceri, è il viaggio di una ragazza che cerca di capire chi è e cosa vuole, al di là delle maschere che ha indossato fino a quel momento. Un viaggio fra simboli e metafore (l’amante Ulisse, il mare, l’acqua…) che guarda all’anima ma anche al corpo, che cerca di liberarsi dal dolore consolatorio per imparare l’allegria, un viaggio nelle profondità dell’animo ma finalizzato ad aprirsi all’altro, a dare e ricevere, un viaggio verso la libertà, verso la realizzazione di Lori come persona.
Entrare nel mondo di Clarice Lispector non è un processo semplice, il passaggio è stretto, la via angusta, eppure si tratta di un’impresa stimolante, che premia il lettore. Lispector è una di quelle scrittrici con le quali accade la magia di trovarsi, nel bel mezzo della lettura, dall’altra parte dello specchio. Non dentro la trama, ma dentro l’autrice. Si sente (o si crede di sentire) come lei sentiva. Non è scoperta, ma riconoscimento e vedere sulla pagina magicamente descritte a parole sensazioni che dentro di noi vivevano ma solo a un livello indefinito ci fa sentire meno soli.