sabato 8 giugno 2019

Andrés Barba – Repubblica luminosa



Comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto solo in modo frammentario.

Repubblica luminosa è il racconto della comparsa e poi della morte di un gruppo di ragazzini in una cittadina sudamericana; libro breve ma denso, con la narrazione in prima persona e a posteriori fatta, da uno degli adulti che parteciparono agli avvenimenti e che si sviluppa con uno stile che ricorda quello giornalistico.

"Comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto solo in modo frammentario", dice la voce narrante, ma comprendere davvero, sembra suggerire l'autore, è spesso impossibile e allora quello che rimane da fare è raccontare.
Trentadue bambini appaiono improvvisamente a San Cristóbal, apparentemente "scaturiti" dal fiume che costeggia la cittadina tropicale, e costringono gli abitanti del luogo ad interrogarsi sulla loro provenienza ma soprattutto su un mondo, quello dell'infanzia, lontanissimo dal nostro e che appare una selva inestricabile, tanto più se il gruppo che ci si trova davanti si muove seguendo regole che non conosciamo, con gli individui che lo compongono che sembrano agire come parti di un organismo unico. Un branco, che definiamo selvaggio perché è diverso da noi, che ci preoccupa perché non siamo in grado di prevederne le mosse e a San Cristóbal, come a qualsiasi altra latitudine, il diverso rappresenta una minaccia, anche se si tratta di un gruppo di ragazzini. Il fatto che si parli di bambini, costituisce anzi un pericolo ancora maggiore per l'integrità della società, perché rischiano di influenzare i comportamenti degli altri ragazzi, dei "nostri" ragazzi; c'è il pericolo che li confondano e che li facciano uscire dai recinti all'interno dei quali li stiamo crescendo (per proteggerli, ça va sans dire…). È necessario difendere l'integrità della società, non si può permettere che essa rimanga troppo a lungo sotto lo scacco il "diverso" deve essere respinto o meglio catturato e poi neutralizzato per fare in modo che si possa riprendere a vivere secondo le nostre abitudini.

Ma Repubblica luminosa è molto di più di un apologo sulle nostre paure, è (soprattutto) un libro che cerca di avvicinarsi all'universo dell'infanzia sgombrando il campo dai filtri attraverso i quali abbiamo sempre approcciato un mondo così lontano dal nostro. Bontà, innocenza, semplicità… sono certamente tratti della fanciullezza ma non sono gli unici, sono semplificazioni che usiamo illudendoci di "comprendere" ogni aspetto di quell'età e di poterne così guidare la crescita senza farci troppi problemi. In realtà: "sappiamo com'è l'amore dei bambini, - scrive Barba - ma riguardo al loro odio le nostre idee sono elementari e spesso equivoche: pensiamo che il loro questo sentimento si mescoli con la paura e pertanto con la fascinazione e forse anche con l'amore o con una specie di amore, che l'odio nei bambini sia formato da canali che uniscono alcuni sentimenti ad altri e che vi sia qualcosa che li fa scivolare in quella direzione". Il mondo dell'infanzia è complicato, più di quanto siamo disposti ad ammettere, come dimostra la discesa di un gruppo di uomini nelle fogne del paese (la "città segreta") alla ricerca dei bambini. Una caccia che rappresenta una splendida metafora del tentativo degli adulti di "comprendere" i bambini, tentativo destinato al fallimento perché condotto con i modi e con gli strumenti sbagliati. Si tratta di due universi troppo distanti, anche per quanto riguarda il linguaggio, per pensare di farli comunicare davvero.
Forse, alla fine di quella caccia, un risultato gli adulti avrebbero potuto portarlo a casa: se avessero saputo guardare davvero in profondità avrebbero sì potuto "comprendere" qualcosa di più, ma su se stessi e sulla loro vulnerabilità.

domenica 2 giugno 2019

António Lobo Antunes – Trattato delle passioni dell'anima



Il passato è dove il presente ha inizio.

Primo romanzo della trilogia di Benfica, Trattato delle passioni dell'anima stilisticamente si allontana un po' dal "gongorismo" delle prime opere di Lobo Antunes (penso soprattutto alla prosa ricca e a tratti ridondante di In culo al mondo) per orientare la ricerca più sulla struttura del libro e sull'architettura della frase che sulla parola in sé. Il risultato è un romanzo polifonico, nel quale alle voci dei protagonisti si alternano anche quelle degli altri personaggi impegnati a raccontare ognuno la propria storia, il proprio punto di vista, in un andamento della trama che ricorda il va e vieni ipnotico della la risacca. Lobo Antunes chiede al lettore dedizione assoluta e poi lo confonde con un tourbillon di voci che vanno avanti e indietro nel tempo, con un alternarsi e sovrapporsi di piani temporali e psicologici che danno vita ad uno splendido romanzo sulla memoria e sulla perdita degli affetti, un affresco che mette a confronto il Portogallo del latifondismo, ancora legato all'Ottocento, con quello delle lotte sociali e del terrorismo, la transizione traumatica dalle certezze di un mondo patriarcale legato alla tradizione rurale del paese agli squilibri sociali dello stato moderno, con la sua navigazione a vista in un mare di interessi, piccole e grandi nefandezze, assenza di legalità e di moralità.

sabato 25 maggio 2019

Juan Octavio Prenz – Il signor Kreck



Non alla moglie, né allo stato e neppure al lettore

Buenos Aires, anni Settanta. Rodolfo Kreck è un uomo ordinario: emigrante istriano, assicuratore, "incline sempre a riflettere sul passo più prudente da fare", "attaccato alle circostanze immediate" e convinto fin da giovane "che quando si viaggia il bagaglio più importante è se stessi", uomo le cui riflessioni "escludevano l'illusione o il sogno facile, che Kreck considerava imperdonabili, frutto, piuttosto, dell'impazienza". Un uomo che si muove nel mondo con circospezione, cercando di passare inosservato e che anche nelle scelte del cuore è "più attratto dall'aspetto di serietà che non dalla bellezza della ragazza". Corretto e rigoroso, Kreck "provava orrore anche per la più piccola bugia e si era sempre imposto il silenzio quando in qualche circostanza particolare non poteva dire la verità". "Lo si sarebbe a stento potuto separare, a prima vista, dall'idea convenzionale dell'impiegato corretto, quasi anonimo, il cui compito sembrerebbe consistere in una stessa e infinita risistemazione di circostanze che si ripetono ugualmente all'infinito. Solo che Kreck" – scrive Prenz – " prendeva questa apparentemente miserabile consuetudine come una vasta geografia sulla quale poter dispiegare quella felicità minima, quotidiana, di osservare il vasto mondo che lo circondava."
Un uomo qualunque che osserva il mondo con occhio contemplativo,  impegnato a comprendere il senso del quotidiano e a vivere più dentro di sé che fuori e che ad un certo punto decide di affittare un appartamento, tenendo tutti all'oscuro della sua decisione.
È concesso all'uomo ritagliarsi uno spazio privato, che sia solo suo, senza dover giustificare i motivi di questa scelta alla moglie, ai colleghi e neppure al lettore? Non nell'Argentina degli anni Settanta, quella dei Generali e dei desaparecidos, uno stato di polizia  dove ogni comportamento del singolo è spiato e poi interpretato in termini di pericolosità per il potere, uno stato dove "la giustizia è un'astrazione e ciò che si vede sotto il suo nome non sono che i meccanismi che ogni società ha per difendersi dai propri nemici".
Kreck diventa così un personaggio kafkiano, la vittima di un sistema che non riesce a comprendere e cerca di adattarsi alla vita da recluso con la stessa docilità con cui  da emigrante si era adattato alla vita nel Nuovo Mondo. Non c'è rabbia da parte sua, solo incredulità e difficoltà a capire le cose del mondo, gli uomini, la politica.
Prenz conduce la trama con un ritmo compassato e preciso che ricorda l'ultimo Saramago e attraverso una narrazione a più voci si arriva a un finale diverso da quello che si immagina e ad un sorprendente cambiamento di paradigma che trasforma il libro da romanzo dell'assurdo in romanzo dell'assenza. Kreck non si piegherà e il segreto della sua doppia vita sarà destinato a restare tale, l'oscurità che regna sopra la superficie trasparente del suo animo non si svelerà e a nessuno sarà mai permesso di accedere alla sua interiorità, non alla moglie, né allo Stato e neppure al lettore.

domenica 19 maggio 2019

Olga Tokarczuk – I vagabondi



"Muoviti, vai. Beato è colui che parte."

I vagabondi è un romanzo molto sui generis, costituito da frammenti più o meno eterogenei legati tra loro dalla voce dell'autrice che spesso racconta in prima persona e dall'argomento trattato che è quello del nomadismo. Attenzione, però: il libro è del 2007, qui si parla di un vagabondare per scelta e non per necessità, questo per dire che la questione dei migranti non sembra essere uno degli obiettivi della Tokarczuk.
La narrazione per episodi era già stata sperimentata dalla scrittrice polacca in Casa di giorno, casa di notte ma lì era giustificata dalla volontà di fare emergere l'anima del villaggio di Nowa Ruda attraverso le vicende dei suoi personaggi, brandelli di vita vissuta che andavano a cucire insieme un tessuto quanto mai colorato, qui invece la frammentarietà sembra essere elevata a sistema, quasi fosse l'unico modo per raccontare la complessità e la pluralità di voci che caratterizzano i nostri tempi.
I vagabondi è il racconto di mille viaggi: nel tempo e nello spazio, nella realtà e nella fantasia e anche all'interno del corpo umano, ma è anche un viaggio tra le pagine del libro, un girovagare sulle ali della curiosità senza uno scopo preciso, senza una meta da inseguire. Certo, per viaggiare sono necessarie le mappe e Tokarczuk non dimentica nemmeno queste: tentativi di schematizzare, di rappresentare la realtà, di collegare un punto ad un altro illudendosi che dare un nome a cose e luoghi significhi conoscerli, uno strumento per approssimarsi all'intero senza mai raggiungerlo perché i collegamenti tra le cose sono casuali, inesplicabili e allora la mappa che ci ritroviamo in mano sembra creata dal cartografo Zenone «secondo cui ogni distanza è in sé infinita, ogni punto apre un nuovo spazio impossibile da percorrere e ogni movimento è un'illusione, ciascuno di noi viaggia sul posto.»
Il viaggio come fine e non come mezzo, muoversi non per arrivare da qualche parte ma per sfuggire al controllo, per non dare punti di riferimento a che vuole controllarci:
«Dondola, continua, muoviti.» diceva con tono apocalittico la Fuggiasca Intabarrata «É l'unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte.
Quindi vai, dondola, cammina, corri, scappa perché il momento che ti dimenticherai e ti fermerai, le sue grandi mani ti afferreranno e ti trasformeranno in un burattino. […] Lui trasformerà la tua anima scintillante e colorata in una piccola anima piatta, ritagliata dalla carta, dal giornale, e ti minaccerà con il fuoco, con la malattia e la guerra, ti spaventerà fino a quando perderai la pace e smetterai di dormire. Ti contrassegnerà e ti iscriverà nel suo registro, ti darà un documento della tua caduta. Ti occuperà la mente con cose poco importanti, cosa comprare e cosa vendere, dove conviene di più e dove è più caro. Da questo momento ti preoccuperai di inezie. […]
Per questo i tiranni di ogni tipo, servitori infernali, hanno nel sangue l'odio per i nomadi – per questo perseguitano i gitano e gli ebrei, per questo costringono a diventare sedentarie tutte e persone libere, marcandole con un indirizzo che diventa la nostra sentenza.
Quello che vogliono è costruire un ordine solido, rendendo il trascorrere del tempo soltanto un'apparenza. Vogliono che i giorni si ripetano tutti uguali e non si distinguano e costruire una grande macchina nella quale ogni creatura dovrà occupare un proprio posto ed eseguire movimenti apparenti. […]
Vogliono bloccare il mondo con l'aiuto di codici a barre, etichettare ogni cosa, che sia chiaro di che prodotto si tratti e quanto costa. Che questa nuova lingua straniera sia illeggibile agli uomini, che la possano leggere soltanto le macchine e i distributori; così che di notte, nei grandi negozi sotterranei, possano organizzare letture delle proprie poesie in codici a barre.
Muoviti, vai. Beato è colui che parte.»

sabato 11 maggio 2019

Ádám Bodor – Boscomatto



C'è ancora tempo per la speranza?

Boscomatto è un libro strano ad iniziare dal titolo, perché in realtà qui non si parla mai di un bosco matto ma, eventualmente, di un bosco muto e allora meglio sarebbe stato attenersi alla traduzione letterale del titolo originale, gli uccelli della Verhovina.
Un libro nel quale ritroviamo le atmosfere sinistre di Satantango di Krasznahorkai ma anche personaggi bislacchi che ricordano quelli de La scuola degli sciocchi di Sokolov, come Danczura con la sua camicia gialla con la quale attira le farfalle che poi si mangia, la signorina Klara Burszie che trascorre il tempo in attesa che si avveri il vaticinio che le è stato fatto dell'arrivo di un ufficiale ungherese che la porti via da lì, la sarta Aliwanka che profetizza utilizzando l'acqua, Nika Karanika che è in grado di richiamare i morti alla vita e mille altre strane figure di cui è inutile sta qui a dar conto.
Il paesino di Jablonska Poljana sperso nella regione della Verhovina cui si accennava, è un microcosmo inospitale abbandonato anche dagli uccelli che dopo esser stati respinti dall'uomo hanno ormai rinunciato a nidificare in quelle zone; quello dipinto da Bodor è un mondo in disarmo, abitato da silenzi e da strani uomini che sembrano vivere più per abitudine che per convinzione. Un mondo chiuso, che sembra essere controllato dall'esterno, con il tempo che è diventato un lunghissimo presente ("Scuoto la testa, lo sguardo, alzo gli occhi al cielo: domani? Dopodomani? Anche quello è ormai oggi."). Si vive nell'attesa e nel timore di qualcuno che arrivi da fuori a cambiare la status quo, un qualcuno che si ignora chi sia e non si sa perché dovrebbe sovvertire quell'ordine. Un libro di atmosfere, più che di fatti, con la sensazione di incombenza e insieme di ineluttabilità ed inesplicabilità che accompagna il lettore dalla prima all'ultima pagina. Boscomatto è il racconto della lunga attesa di una comunità ("Attendiamo che magari venga qualcuno. […] A dire il vero attendiamo solo il passare del tempo.") che ha messo la sordina ai sentimenti  e che riesce a provare al massimo pulsioni perché quando qualcuno dei personaggi prova ad avvicinarsi ad un altro sembra aver dimenticato il modo di farlo, i gesti, le parole: gli abitanti di  Jablonska Poljana sono uomini e donne disabituato al contatto, induriti dalla vita.
Un microcosmo che sembra essere la metafora della nostra società: le cose succedono – sembra dire Bodor – ed è inutile provare a dare loro un senso perché la vita non ha senso e l'unica possibilità che ci è data è quella di provare ad adattarci ad essa per non finire travolti da quello che sarà.
Boscomatto è il racconto di un lungo crollo, la morte di un sistema per autoconsunzione, un gran libro, elegante ma duro, che sembra non lasciare spiragli di luce al lettore. Attenzione, però, perché alla fine si affacciano in cielo dei piccoli uccelli, i codirossi: c'è ancora tempo per la speranza?