domenica 30 giugno 2019

César Aira – Come diventai monaca



Un ballo in maschera

Come diventai monaca è uno stranissimo romanzo di formazione, che a partire da un ricordo banale, l'acquisto di un gelato alla fragola, mostra come le imprevedibili conseguenze di questo episodio condizioneranno l'esistenza futura del protagonista. Ad un punto di vista apparentemente innocente, quello del bambino, e ad uno stile narrativo semplice, fa da controcanto la maniera di rappresentarsi il mondo del ragazzino, tutt'altro che lineare.
L'autore stesso è il protagonista di questa surreale autobiografia "spuria", un bambino così consapevole della propria diversità al punto da immaginarsi con un'identità femminile. Viene in mente Gombrowicz nel leggere come il giovinetto viva appartato dagli altri, intento ad un gioco solitario che consiste nel  riprodurre il mondo esterno e le sue dinamiche secondo regole personali, gioco che finisce per diventare il suo unico scopo, mezzo che gli permette di trascendere la realtà per crearne una che sia solo sua.
La tesi sostenuta da Aira in questo romanzo e che ritorna anche in altre opere dello scrittore argentino, sembra essere quella dell'esistenza di due realtà, quella degli altri e la nostra: la vita sarebbe così il risultato dell'eterno conflitto tra come sono le cose e come ci appaiono. Conflitto impari, nel quale siamo destinati a soccombere perché la realtà è troppo forte per le nostre forze; anche in Come diventai monaca il giovane César non sfuggirà al suo destino così che quando la realtà verrà a prenderlo lui non farà nulla per resisterle, anzi si consegnerà spontaneamente a lei, consapevole (forse) della necessità di chiudere il cerchio.

domenica 23 giugno 2019

António Lobo Antunes – L'ordine naturale delle cose


Ognuno vola come può

Secondo romanzo del "ciclo di Benfica" ed ennesima prova di bravura di uno dei due Dioscuri (l'altro è Saramago)  della letteratura lusitana moderna. Lobo Antunes è una specie di Omero contemporaneo e la trilogia della quale questo libro fa parte una sorta di racconto epico delle trasformazioni del Portogallo novecentesco (paese «dove tutto ristagna e s'immobilizza nel tempo»), narrato con la consueta scrittura rigogliosa e ricca di metafore, qui arricchita da venature quasi surreali.
La Lisbona che emerge è lontana dalle immagini da cartolina, è una città grigia nella quale i protagonisti del libro galleggiano tra indifferenza ed egoismo. La trama scorre con un ritmo lento, intrecciando tra loro le esistenze di uomini e donne che vivono di espedienti (c'è anche un venditore di corsi di ipnotismo per corrispondenza), travolti dal corso della storia, incapaci di vivere nei tempi mutati e costretti a trascinarsi per le «strade dell'amarezza» nelle vie del quartiere di Alcântara sotto la cappa di un'atmosfera rarefatta, sospesa tra realtà ed invenzione («sospesi in una specie di limbo, a parlare di niente, circondati da tetti e alberi e gente immateriale, in una Lisbona immaginaria che digrada verso il fiume in un confuso affastellamento di vicoli inventati»).
La trama  si snoda come la tela di un ragno: discorsi diversi si intrecciano, ogni personaggio nel raccontarsi aggiunge qualcosa alla storia dell'altro, parole, musica (ma non comprensione), voci che tessono la storia del Portogallo del secolo trascorso e si organizzano in un romanzo polifonico caratterizzato da quei salti spazio-temporali e dai  cambi di prospettiva a cui Lobo Antunes ci ha abituato.
Si vive di disincanto, di amori non ricambiati, figli del bisogno e costruiti sull'acqua, si vive di ricordi che continuano a tornare a galla rifiutando di perdersi nelle nebbie della memoria. «Ognuno vola come può», dice uno dei protagonisti, ognuno è perso dentro la propria storia: chi continuando a credere di essere in miniera a Johannesburg, chi isolandosi nel silenzio in manicomio, chi dentro la malattia, chi cercando di costruirsi un progetto di vita zoppicante e provvisorio… si vive soli. I personaggi che incontriamo nel libro sono uomini e donne chiusi in un passato che non è mai passato davvero e che cercano di vivere come possono, chi immaginando di essere sottoterra e chi in cielo, perché l'importante è volare, non restare costretti dentro ad un presente angusto.
Il passato è come l'onda lunga che torna sempre ad accarezzare la riva: l'Africa coloniale, la Polizia Politica i tentativi di golpe… ricordi, che come nel Trattato delle passioni dell'anima costituiscono la sola certezza, l'unica cosa che ci resta, da custodire per non farli morire, e poco importa se siano belli o brutti.
L'ordine naturale delle cose è una lenta elegia, un lungo addio alla vita, al tempo passato che era il tempo dei personaggi di questo libro, quel tempo nel quale erano vivi, lontanissimo da un presente confuso che scivola via senza lasciare segno di sé.
«Così come cadono gli alberi io cado e cadendo cado come cadono lentamente e lievi le foglie e le ombre e io le sento piangere e parlare con me e non posso rispondere mentre cado perché se rispondessi cosa direi se non che sto crollando come crollarono un tempo mio padre mia madre mio marito improvvisamente silenziosi e immobili e bianchi come la luce in questa casa tanto bianca sui mobili bianchi gli specchi restituiscono il silenzio e le loro lacrime e domani saliranno con me lassù in cima e senza parole oltre a quelle del prete volgeranno il mio viso verso il sole.

sabato 15 giugno 2019

Clarice Lispector – Un soffio di vita


C'è un libro in ognuno di noi.

Un soffio di vita è un testo postumo di Clarice Lispector e raccoglie le carte che la grande scrittrice non fece in tempo a ordinare e pubblicare in vita. Non rappresenta però un malinconico canto del cigno quanto piuttosto un vero e proprio "grido di un uccello rapace", e non poteva essere altrimenti considerando la personalità forte dell'autrice che in queste pagine spinge così in profondità la riflessione al punto di attorcigliarsi su se stessa in un vorticoso corpo a corpo con la scrittura - spesso contraddittorio  - che non guarda mai al lettore e che si muove in equilibrio precario sul bordo sottile dell'illeggibile, sconfinando volentieri oltre questo limite  («senza inizio né fine, sono il punto prima dello zero e del punto finale. Dallo zero all'infinito camminerò senza fermarmi. Dallo zero all'infinito camminerò senza fermarmi. Ma allo stesso tempo tutto è così passeggero. Io sono sempre esistito e di colpo non ero più. Il giorno là fuori scorre a caso e ci sono abissi di silenzio in me.»).
Qui si parla di eternità, di un tempo che non esiste, di immanenza, di un eterno presente, ma anche di un altro punto fermo della produzione letteraria della Lispector: il rapporto tra parole e scrittura («sono uno scrittore che teme le trappole delle parole: le parole che dico ne celano altre – quali sono? Forse le dirò. Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo.»). Si parla di scrittura salvifica e della creazione di un doppio (Ângela Pralini) che dovrebbe aiutare lo scrittore protagonista del libro nella ricerca del senso della vita, attraverso un botta e risposta nel quale lui e il suo alter ego sembrano non tanto dialogare quanto seguire ognuno il corso dei suoi pensieri.
Così, in un gioco di specchi meta-letterario, succede che Ângela sia la creazione del protagonista a sua volta creazione dell'autrice, Ângela che rappresenta tutto ciò che lo scrittore avrebbe voluto essere, «l'evoluzione di un sentimento», qualcosa che da interiore si è esteriorizzato fino a oltrepassare la volontà dell'autore e sostanziarsi in qualcosa d'altro pur rimanendo inconsapevole di se stessa, della sua identità. Ângela è il tentativo dello scrittore di vincere le regole del tempo per innalzarsi fino all'immortalità in una tensione continua tra l'essere e il divenire, nell'aspirazione di riuscire a fondere attraverso la parola corpo e anima in un unicum inteso non come qualcosa di statico ma come movimento, equilibrio incerto su un filo teso a cento metri da terra.
Per Clarice Lispector l'esistenza stessa è una tensione continua, voglia di trascendere, rilanciare, andare oltre e al tempo stesso un alternarsi di sogno e coscienza, una selva intricata che la grande scrittrice attraversa usando come guida non la logica ma l'istinto, aspirando al raggiungimento di un nulla che rappresenta una sorta di «stato di Grazia», il distacco dalle cose del mondo per accedere ad una dimensione diversa.
La parola rappresenta per l'autrice brasiliana il fine e il mezzo, lo strumento al quale si è affidata nel corso di tutta la sua ricerca e che al tempo stesso non ha mai smesso di temprare, cercando di adattarlo ai suoi scopi con una dedizione così costante a punto da attribuire alla parola un ruolo quasi mistico. Scrivere, per Clarice Lispector, è la risposta al bisogno di ordinare il suo caos interiore e contemporaneamente il suo modo di stare al mondo.
Un soffio di vita è un libro frammentario che nella terza parte, il libro di Ângela, procede a strappi, spostando l'attenzione a quel mondo delle cose che Ângela cerca di cogliere nella loro essenza, nel loro aspetto immateriale, convinta che esse contengano al loro interno un progetto in grado di proiettarle in una dimensione onirica («Il procedimento di Ângela, quando scrive, è lo stesso di quando si sogna: si vanno formando immagini, colori, atti e soprattutto un'atmosfera di sogno che sembra un colore e non una parola. Lei non sa spiegarsi. L'unica cosa che sa è fare, fare senza capire.»).
Il senso di questa ricerca è la stessa autrice a rivelarlo: comprendere se stessa per chiudere il cerchio per arrivare così all'assoluto. Impresa non facile se ti chiami Lispector: la sua è una sfida continua ad amplificare la propria coscienza, ad alzare costantemente l'asticella delle sue aspirazioni, un viaggio periglioso alle fonti dell'Io, verso un abisso interiore «attraverso il quale, fantasmagorica, comunico con Dio.»

Un soffio di vita è un libro particolare, che non guarda minimamente al lettore, un'opera che mi sento di consigliare solo ai pochi devoti di stretto rito lispectoriano.

sabato 8 giugno 2019

Andrés Barba – Repubblica luminosa



Comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto solo in modo frammentario.

Repubblica luminosa è il racconto della comparsa e poi della morte di un gruppo di ragazzini in una cittadina sudamericana; libro breve ma denso, con la narrazione in prima persona e a posteriori fatta, da uno degli adulti che parteciparono agli avvenimenti e che si sviluppa con uno stile che ricorda quello giornalistico.

"Comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto solo in modo frammentario", dice la voce narrante, ma comprendere davvero, sembra suggerire l'autore, è spesso impossibile e allora quello che rimane da fare è raccontare.
Trentadue bambini appaiono improvvisamente a San Cristóbal, apparentemente "scaturiti" dal fiume che costeggia la cittadina tropicale, e costringono gli abitanti del luogo ad interrogarsi sulla loro provenienza ma soprattutto su un mondo, quello dell'infanzia, lontanissimo dal nostro e che appare una selva inestricabile, tanto più se il gruppo che ci si trova davanti si muove seguendo regole che non conosciamo, con gli individui che lo compongono che sembrano agire come parti di un organismo unico. Un branco, che definiamo selvaggio perché è diverso da noi, che ci preoccupa perché non siamo in grado di prevederne le mosse e a San Cristóbal, come a qualsiasi altra latitudine, il diverso rappresenta una minaccia, anche se si tratta di un gruppo di ragazzini. Il fatto che si parli di bambini, costituisce anzi un pericolo ancora maggiore per l'integrità della società, perché rischiano di influenzare i comportamenti degli altri ragazzi, dei "nostri" ragazzi; c'è il pericolo che li confondano e che li facciano uscire dai recinti all'interno dei quali li stiamo crescendo (per proteggerli, ça va sans dire…). È necessario difendere l'integrità della società, non si può permettere che essa rimanga troppo a lungo sotto lo scacco il "diverso" deve essere respinto o meglio catturato e poi neutralizzato per fare in modo che si possa riprendere a vivere secondo le nostre abitudini.

Ma Repubblica luminosa è molto di più di un apologo sulle nostre paure, è (soprattutto) un libro che cerca di avvicinarsi all'universo dell'infanzia sgombrando il campo dai filtri attraverso i quali abbiamo sempre approcciato un mondo così lontano dal nostro. Bontà, innocenza, semplicità… sono certamente tratti della fanciullezza ma non sono gli unici, sono semplificazioni che usiamo illudendoci di "comprendere" ogni aspetto di quell'età e di poterne così guidare la crescita senza farci troppi problemi. In realtà: "sappiamo com'è l'amore dei bambini, - scrive Barba - ma riguardo al loro odio le nostre idee sono elementari e spesso equivoche: pensiamo che il loro questo sentimento si mescoli con la paura e pertanto con la fascinazione e forse anche con l'amore o con una specie di amore, che l'odio nei bambini sia formato da canali che uniscono alcuni sentimenti ad altri e che vi sia qualcosa che li fa scivolare in quella direzione". Il mondo dell'infanzia è complicato, più di quanto siamo disposti ad ammettere, come dimostra la discesa di un gruppo di uomini nelle fogne del paese (la "città segreta") alla ricerca dei bambini. Una caccia che rappresenta una splendida metafora del tentativo degli adulti di "comprendere" i bambini, tentativo destinato al fallimento perché condotto con i modi e con gli strumenti sbagliati. Si tratta di due universi troppo distanti, anche per quanto riguarda il linguaggio, per pensare di farli comunicare davvero.
Forse, alla fine di quella caccia, un risultato gli adulti avrebbero potuto portarlo a casa: se avessero saputo guardare davvero in profondità avrebbero sì potuto "comprendere" qualcosa di più, ma su se stessi e sulla loro vulnerabilità.

domenica 2 giugno 2019

António Lobo Antunes – Trattato delle passioni dell'anima



Il passato è dove il presente ha inizio.

Primo romanzo della trilogia di Benfica, Trattato delle passioni dell'anima stilisticamente si allontana un po' dal "gongorismo" delle prime opere di Lobo Antunes (penso soprattutto alla prosa ricca e a tratti ridondante di In culo al mondo) per orientare la ricerca più sulla struttura del libro e sull'architettura della frase che sulla parola in sé. Il risultato è un romanzo polifonico, nel quale alle voci dei protagonisti si alternano anche quelle degli altri personaggi impegnati a raccontare ognuno la propria storia, il proprio punto di vista, in un andamento della trama che ricorda il va e vieni ipnotico della la risacca. Lobo Antunes chiede al lettore dedizione assoluta e poi lo confonde con un tourbillon di voci che vanno avanti e indietro nel tempo, con un alternarsi e sovrapporsi di piani temporali e psicologici che danno vita ad uno splendido romanzo sulla memoria e sulla perdita degli affetti, un affresco che mette a confronto il Portogallo del latifondismo, ancora legato all'Ottocento, con quello delle lotte sociali e del terrorismo, la transizione traumatica dalle certezze di un mondo patriarcale legato alla tradizione rurale del paese agli squilibri sociali dello stato moderno, con la sua navigazione a vista in un mare di interessi, piccole e grandi nefandezze, assenza di legalità e di moralità.