sabato 13 luglio 2019

Michail Nikolaevič Kuraev – Ronda di notte


Il buio delle notti bianche
È possibile per un ex-funzionario della polizia politica sovietica provare nostalgia per i 'bei tempi andati', intendendo con questo termine quelli del terrore staliniano? Sì, è possibile, e Ronda di notte ne è la dimostrazione. Se la cosa può urtare la suscettibilità del lettore, sappiate che il vostro fastidio sarà ancora maggiore quando scoprirete che in questo libro la narrazione dei ricordi del compagno Polubolotov si sviluppa con un registro leggero, a tratti addirittura lirico ed intriso da un'ironia sottile, come se il protagonista non avesse consapevolezza delle azioni commesse.
Quello di Kuraev è un romanzo breve, che propone un punto di vista originale e provocatorio (fin troppo provocatorio…) per raccontare il buio dell'epoca sovietica attraverso l'esistenza di un piccolo uomo senza morale. Sullo sfondo delle notti bianche leningradesi di dostoevskijana memoria, vanno in scena i ricordi del protagonista del libro che per giustificare i suoi comportamenti passati usa parole che ricalcano alla lettera quelle di qualche ex-gerarca nazista: "Questo dovevamo fare, fonderci con la nostra epoca, e questo ho fatto." E ancora: "Si dice adesso che qualcuno abbia sbagliato, posso ammetterlo, anche se personalmente non lo credo, ma che tutto il popolo abbia sbagliato, abbi pazienza!.... Un'opinione del genere nessuno potrebbe condividerla, neppure oggi."
Polubolotov era semplicemente un soldato che obbediva agli ordini, e questo gli sembra sufficiente per togliersi ogni peso dalla coscienza. Vaso di coccio tra vasi di ferro, che grazie ad un comportamento accorto ha saputo attraversare indenne la tempesta ("ho sempre avuto l'abitudine di tenere la bocca chiusa, ed è per questo che sono arrivato sin qui sano e salvo, come vedi. Non mi lamento; attraverso i vetri limpidi delle finestre osservo la città spazzata dai venti primaverili, mi sono riturato dal servizio, con medaglia e pensione… non di mia spontanea volontà, certo, però mi è sempre andata meglio che a Pil'din…").
Ccome detto Ronda di notte è un libro pervaso un'ironia sottile e da uno humor nero che a tratti riecheggiano Gogol' e anche il Vojnovic di Propaganda monumentale, ma che nonostante l'apparenza non si arrende all'inevitabilità del male: "…Ho notato che durante le notti bianche tutto il disordine della vita sembra scomparire, – dice Polubolotov – non viene a galla, si nasconde, diventa invisibile, e la pace scende sugli uomini e sulla natura… In una notte bianca persino la pioggia, il vento impetuoso e i cicloni sono rarissimi." Torniamo dunque alla bellezza che salverà il mondo? Forse, o magari la risposta che Kuraev cerca è ancora più nel profondo, nelle radici dell'anima russa, nelle ricerca di una 'pulizia interiore' alla quale sembra alludere anche l'usignolo, simbolo che ritorna spesso nelle pagine nel libro ed al quale è affidato il compito di risvegliare le coscienze.
"Perché mi piace fare il turno alla vigilia delle feste? In occasione delle feste, dopo l’inverno, si lavano tutte le vetrate, sia qui in fabbrica sia alla direzione. E le tende, non so se lo hai mai notato, non vengono rimesse a posto subito. Probabilmente le mandano in lavanderia. Fatto sta che per tre o quattro giorni le vetrate appena pulite rimangono senza tende. Non c’è nulla di più bello di una finestra ben lavata! È come se quello spazio immacolato e trasparente non si aprisse nella parete, ma dentro la tua anima! Attraverso un vetro limpido anche la vita all’esterno sembra splendere piena di gioia.
Eh sì, tu sei libero di pensarla come buoi, ma secondo me nelle notti di Leningrado c’è qualcosa di unico ed eccezionale, una specie di sogno che si spande sulla città... Il silenzio. L’impressione che non vi sia nulla di malvagio né di fosco, che il futuro sia ancora tutto da giocare, e la vita stia appena cominciando. Guarda le nuvole, leggere come carta, che si stendono sulla terra simili a fogli bianchi; siediti e scrivi la tua vita in bella copia... La notte bianca ci è offerta per meditare su ciò che stiamo facendo, su dove stiamo andando...".

sabato 6 luglio 2019

Ivan Aleksandrovič Gončarov – Una storia comune



Una storia comune è un libro sfortunato perché paga inevitabilmente il confronto con Oblomov, come Gončarov paga quello con Dostoevskij e Tolstoj.
Eppure si tratta di un libro godibilissimo: anche se a tratti può risultare manierata e priva di profondità, Una storia comune non è opera da trascurare tout court ma piuttosto da considerare con attenzione. Intorno alle figure del giovane Aleksandr Aduev e soprattutto a quella di suo zio Pjotr Ivanyč (senza trascurare Lizaveta, moglie di quest'ultimo e personaggio tutt'altro che marginale) si gioca un carosello fatto di contrasti, di diadi che si intrecciano in un balletto vorticoso: giovani/adulti, vita di campagna/vita in città, cuore/cervello e soprattutto idealismo/realismo.
Particolarmente interessante e ricca di ironia sottile è la capacità di Gončarov di condurre la trama fuori dalle secche dei luoghi comuni, evitando di cristallizzare i contrasti ma anzi spingendo nel corso della storia i due protagonisti così lontano dalle posizioni di partenza al punto da farli approdare ad una sorta di originale contrappasso, disegnando una traiettoria imprevedibile che porterà addirittura Aleksandr a cercare rifugio nell'atarassia per diventare un "oblomoviano" ante-litteram.
Attenzione però, perché l'autore non persegue nessun intento pedagogico con quest'opera. Non ci sono certezze – sembra dirci Gončarov – le cose succedono indipendentemente dalla nostra volontà. Nessuna ricetta per la vita che sia valida per sempre e per tutti, ci vuole capacità di adattamento e, soprattutto, equilibrio tra cuore e cervello.


domenica 30 giugno 2019

César Aira – Come diventai monaca



Un ballo in maschera

Come diventai monaca è uno stranissimo romanzo di formazione, che a partire da un ricordo banale, l'acquisto di un gelato alla fragola, mostra come le imprevedibili conseguenze di questo episodio condizioneranno l'esistenza futura del protagonista. Ad un punto di vista apparentemente innocente, quello del bambino, e ad uno stile narrativo semplice, fa da controcanto la maniera di rappresentarsi il mondo del ragazzino, tutt'altro che lineare.
L'autore stesso è il protagonista di questa surreale autobiografia "spuria", un bambino così consapevole della propria diversità al punto da immaginarsi con un'identità femminile. Viene in mente Gombrowicz nel leggere come il giovinetto viva appartato dagli altri, intento ad un gioco solitario che consiste nel  riprodurre il mondo esterno e le sue dinamiche secondo regole personali, gioco che finisce per diventare il suo unico scopo, mezzo che gli permette di trascendere la realtà per crearne una che sia solo sua.
La tesi sostenuta da Aira in questo romanzo e che ritorna anche in altre opere dello scrittore argentino, sembra essere quella dell'esistenza di due realtà, quella degli altri e la nostra: la vita sarebbe così il risultato dell'eterno conflitto tra come sono le cose e come ci appaiono. Conflitto impari, nel quale siamo destinati a soccombere perché la realtà è troppo forte per le nostre forze; anche in Come diventai monaca il giovane César non sfuggirà al suo destino così che quando la realtà verrà a prenderlo lui non farà nulla per resisterle, anzi si consegnerà spontaneamente a lei, consapevole (forse) della necessità di chiudere il cerchio.

domenica 23 giugno 2019

António Lobo Antunes – L'ordine naturale delle cose


Ognuno vola come può

Secondo romanzo del "ciclo di Benfica" ed ennesima prova di bravura di uno dei due Dioscuri (l'altro è Saramago)  della letteratura lusitana moderna. Lobo Antunes è una specie di Omero contemporaneo e la trilogia della quale questo libro fa parte una sorta di racconto epico delle trasformazioni del Portogallo novecentesco (paese «dove tutto ristagna e s'immobilizza nel tempo»), narrato con la consueta scrittura rigogliosa e ricca di metafore, qui arricchita da venature quasi surreali.
La Lisbona che emerge è lontana dalle immagini da cartolina, è una città grigia nella quale i protagonisti del libro galleggiano tra indifferenza ed egoismo. La trama scorre con un ritmo lento, intrecciando tra loro le esistenze di uomini e donne che vivono di espedienti (c'è anche un venditore di corsi di ipnotismo per corrispondenza), travolti dal corso della storia, incapaci di vivere nei tempi mutati e costretti a trascinarsi per le «strade dell'amarezza» nelle vie del quartiere di Alcântara sotto la cappa di un'atmosfera rarefatta, sospesa tra realtà ed invenzione («sospesi in una specie di limbo, a parlare di niente, circondati da tetti e alberi e gente immateriale, in una Lisbona immaginaria che digrada verso il fiume in un confuso affastellamento di vicoli inventati»).
La trama  si snoda come la tela di un ragno: discorsi diversi si intrecciano, ogni personaggio nel raccontarsi aggiunge qualcosa alla storia dell'altro, parole, musica (ma non comprensione), voci che tessono la storia del Portogallo del secolo trascorso e si organizzano in un romanzo polifonico caratterizzato da quei salti spazio-temporali e dai  cambi di prospettiva a cui Lobo Antunes ci ha abituato.
Si vive di disincanto, di amori non ricambiati, figli del bisogno e costruiti sull'acqua, si vive di ricordi che continuano a tornare a galla rifiutando di perdersi nelle nebbie della memoria. «Ognuno vola come può», dice uno dei protagonisti, ognuno è perso dentro la propria storia: chi continuando a credere di essere in miniera a Johannesburg, chi isolandosi nel silenzio in manicomio, chi dentro la malattia, chi cercando di costruirsi un progetto di vita zoppicante e provvisorio… si vive soli. I personaggi che incontriamo nel libro sono uomini e donne chiusi in un passato che non è mai passato davvero e che cercano di vivere come possono, chi immaginando di essere sottoterra e chi in cielo, perché l'importante è volare, non restare costretti dentro ad un presente angusto.
Il passato è come l'onda lunga che torna sempre ad accarezzare la riva: l'Africa coloniale, la Polizia Politica i tentativi di golpe… ricordi, che come nel Trattato delle passioni dell'anima costituiscono la sola certezza, l'unica cosa che ci resta, da custodire per non farli morire, e poco importa se siano belli o brutti.
L'ordine naturale delle cose è una lenta elegia, un lungo addio alla vita, al tempo passato che era il tempo dei personaggi di questo libro, quel tempo nel quale erano vivi, lontanissimo da un presente confuso che scivola via senza lasciare segno di sé.
«Così come cadono gli alberi io cado e cadendo cado come cadono lentamente e lievi le foglie e le ombre e io le sento piangere e parlare con me e non posso rispondere mentre cado perché se rispondessi cosa direi se non che sto crollando come crollarono un tempo mio padre mia madre mio marito improvvisamente silenziosi e immobili e bianchi come la luce in questa casa tanto bianca sui mobili bianchi gli specchi restituiscono il silenzio e le loro lacrime e domani saliranno con me lassù in cima e senza parole oltre a quelle del prete volgeranno il mio viso verso il sole.

sabato 15 giugno 2019

Clarice Lispector – Un soffio di vita


C'è un libro in ognuno di noi.

Un soffio di vita è un testo postumo di Clarice Lispector e raccoglie le carte che la grande scrittrice non fece in tempo a ordinare e pubblicare in vita. Non rappresenta però un malinconico canto del cigno quanto piuttosto un vero e proprio "grido di un uccello rapace", e non poteva essere altrimenti considerando la personalità forte dell'autrice che in queste pagine spinge così in profondità la riflessione al punto di attorcigliarsi su se stessa in un vorticoso corpo a corpo con la scrittura - spesso contraddittorio  - che non guarda mai al lettore e che si muove in equilibrio precario sul bordo sottile dell'illeggibile, sconfinando volentieri oltre questo limite  («senza inizio né fine, sono il punto prima dello zero e del punto finale. Dallo zero all'infinito camminerò senza fermarmi. Dallo zero all'infinito camminerò senza fermarmi. Ma allo stesso tempo tutto è così passeggero. Io sono sempre esistito e di colpo non ero più. Il giorno là fuori scorre a caso e ci sono abissi di silenzio in me.»).
Qui si parla di eternità, di un tempo che non esiste, di immanenza, di un eterno presente, ma anche di un altro punto fermo della produzione letteraria della Lispector: il rapporto tra parole e scrittura («sono uno scrittore che teme le trappole delle parole: le parole che dico ne celano altre – quali sono? Forse le dirò. Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo.»). Si parla di scrittura salvifica e della creazione di un doppio (Ângela Pralini) che dovrebbe aiutare lo scrittore protagonista del libro nella ricerca del senso della vita, attraverso un botta e risposta nel quale lui e il suo alter ego sembrano non tanto dialogare quanto seguire ognuno il corso dei suoi pensieri.
Così, in un gioco di specchi meta-letterario, succede che Ângela sia la creazione del protagonista a sua volta creazione dell'autrice, Ângela che rappresenta tutto ciò che lo scrittore avrebbe voluto essere, «l'evoluzione di un sentimento», qualcosa che da interiore si è esteriorizzato fino a oltrepassare la volontà dell'autore e sostanziarsi in qualcosa d'altro pur rimanendo inconsapevole di se stessa, della sua identità. Ângela è il tentativo dello scrittore di vincere le regole del tempo per innalzarsi fino all'immortalità in una tensione continua tra l'essere e il divenire, nell'aspirazione di riuscire a fondere attraverso la parola corpo e anima in un unicum inteso non come qualcosa di statico ma come movimento, equilibrio incerto su un filo teso a cento metri da terra.
Per Clarice Lispector l'esistenza stessa è una tensione continua, voglia di trascendere, rilanciare, andare oltre e al tempo stesso un alternarsi di sogno e coscienza, una selva intricata che la grande scrittrice attraversa usando come guida non la logica ma l'istinto, aspirando al raggiungimento di un nulla che rappresenta una sorta di «stato di Grazia», il distacco dalle cose del mondo per accedere ad una dimensione diversa.
La parola rappresenta per l'autrice brasiliana il fine e il mezzo, lo strumento al quale si è affidata nel corso di tutta la sua ricerca e che al tempo stesso non ha mai smesso di temprare, cercando di adattarlo ai suoi scopi con una dedizione così costante a punto da attribuire alla parola un ruolo quasi mistico. Scrivere, per Clarice Lispector, è la risposta al bisogno di ordinare il suo caos interiore e contemporaneamente il suo modo di stare al mondo.
Un soffio di vita è un libro frammentario che nella terza parte, il libro di Ângela, procede a strappi, spostando l'attenzione a quel mondo delle cose che Ângela cerca di cogliere nella loro essenza, nel loro aspetto immateriale, convinta che esse contengano al loro interno un progetto in grado di proiettarle in una dimensione onirica («Il procedimento di Ângela, quando scrive, è lo stesso di quando si sogna: si vanno formando immagini, colori, atti e soprattutto un'atmosfera di sogno che sembra un colore e non una parola. Lei non sa spiegarsi. L'unica cosa che sa è fare, fare senza capire.»).
Il senso di questa ricerca è la stessa autrice a rivelarlo: comprendere se stessa per chiudere il cerchio per arrivare così all'assoluto. Impresa non facile se ti chiami Lispector: la sua è una sfida continua ad amplificare la propria coscienza, ad alzare costantemente l'asticella delle sue aspirazioni, un viaggio periglioso alle fonti dell'Io, verso un abisso interiore «attraverso il quale, fantasmagorica, comunico con Dio.»

Un soffio di vita è un libro particolare, che non guarda minimamente al lettore, un'opera che mi sento di consigliare solo ai pochi devoti di stretto rito lispectoriano.