sabato 12 ottobre 2019

Boris Pil'njak – Mogano



Pil'njak è uno scrittore difficilmente collocabile nel panorama letterario russo del primo Novecento come testimoniano anche i racconti e i povesti (romanzi brevi) di questa raccolta, eterogenei sia per forma che per contenuti, nei quali si notano aspetti che richiamano ancora ad un certo 'ornamentalismo' dell'Anno nudo ed a un simbolismo che discendono direttamente dalla prosa di Belyj, mescolati ad un realismo che rappresenterà per Pil'njak un approdo (politicamente) obbligato.
Al centro della narrazione non sono più le grandi capitali, Mosca e Pietroburgo, ma la periferia della Russia. Nella querelle tra occidentalisti e slavofili Pil'njak si schiera dalla parte di quelli che guardano ad Oriente, alle campagne, ad un oltre-Volga nel quale è più facile cercare la vera anima russa ed evidenziare le contraddizioni esplose con la rivoluzione bolscevica. I racconti di Mogano ben sottolineano la confusione e d i contrasti di un'epoca che l'autore cerca di rendere anche dal punto di vista stilistico, attraverso l'assenza di un protagonista 'forte'; flashback, digressioni liriche, narrazione di episodi che avvengono contemporaneamente in luoghi diversi… il racconto diventa con Pil'njak un collage di fatti, documenti, ricordi e pensieri frammentari e sconnessi (figli della confusione del tempo) che vanno a costituire una trama che procede più per 'accumulazioni' che in maniera lineare.
Sullo sfondo di una Natura che si oppone all'uomo, metafora di quelle forze istintive che si oppongono alla razionalità, Pil'njak riflette sull'incomprensibilità della vita e sullo smarrimento della gente provocato da una Rivoluzione dalla quale i contadini sembrano essere stati colpiti più che salvati, una Rivoluzione che viene vista anche dagli occhi dei nobili e dei lavoratori ma che rimane qualcosa di difficilmente comprensibile, della quale la gente riesce ad apprezzare solo le conseguenze immediate, vale a dire disordine, violenza ed anarchia.

sabato 5 ottobre 2019

William Gaddis – L'agonia dell'agape



Impressionante. Un saggio in forma di romanzo che ci dice come Gaddis avesse capito tutto già molto tempo prima di noi, un libro profetico al punto da vaticinare in qualche misura anche il crollo dei mercati del 2007.
L'agonia dell'agape è il racconto di un personaggio beckettiano animato da un furore bernhardiano che sapendo di avere ancora poco tempo a disposizione cerca di mettere ordine nelle sue carte e nei suoi pensieri finendo però risucchiato all'interno di quello stesso caos che cerca di combattere. Il ritmo della prosa è incalzante, la narrazione frammentaria, fatta di divagazioni frutto di idee complesse che ben lungi dal chiarire i concetti che cercano di esplorare aprono strade che conducono in nuove direzioni: un flusso di coscienza che risponde all'esigenza dell'autore di comunicare al lettore il suo bisogno di difendere l'arte e di scacciare i mercanti dal tempio.
Qui si parla del "collasso di tutto", di come cioè le nuove tecnologie hanno improvvisamente cambiato le carte in tavola ridefinendo, tra l'altro, la figura dell'artista e quella dell'opera d'arte. Viviamo – dice Gaddis – in un mondo che sembra accontentarsi di bisogni primari e che, come il bambino, cerca il piacere ed evita il dolore. La quantità del piacere, questo è il punto, è diventata il fine dell'uomo, non la qualità; l'intrattenimento è il nuovo centro dei bisogni della società e il denaro ne è diventato la divinità incontrastata.
Gaddis è un gigante e al tempo stesso un Don Chisciotte lanciato contro i mulini a vento, un eroe impegnato in una battaglia impari dall'esito già segnato e che pure deve essere combattuta. Nel suo j'accuse non teme di apparire snob o elitario e lancia i suoi strali con precisione chirurgica: si vive in superficie e nel momento, si fruisce delle cose senza il bisogno di doverle comprendere, lo scopo è appagare i bisogni immediati, le pulsioni più elementari, soddisfare il pubblico ed assecondarne gli umori.
Portare tutto e a tutti è il mantra dell'epoca in cui viviamo e non implica nessun intento pedagogico ma segue piuttosto la logica del guadagno. Tutto e a tutti, grazie alle moderne tecnologie e all'automazione:  non serve più applicarsi nell'atto creativo e lavorare per sviluppare il proprio talento perché non solo ogni oggetto ma anche ogni atto artistico è riproducibile e quindi già riprodotto, serializzato e quindi tradito nello spirito (interessante, in questo senso, è il riferimento di Gaddis al dopplergänger di Goljadkin nel Sosia dostoevskijano). L'artista classico non esiste più, sostituito dall'esecutore/imitatore con le copie che moltiplicano all'infinito l'originale finendo per dare immanenza a ciò che per definizione deve essere transitorio, autentico, non riproducibile.
La bussola è impazzita, si è perso l'amore (agape) per la creazione.

"…il crollo dell’autenticità il crollo della religione il crollo dei valori, quella che Huizinga definì una delle fasi più importanti nella storia della civiltà, e Walter Benjamin lo riprende nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica da qualche parte in questa pila, l’opera d’arte autentica si fonda su un rituale dice lui, e aspetti signor Benjamin, ci devo arrivare, qui a metà del Settecento romantico il godimento estetico nel culto dell’arte era il privilegio di pochi. Stavo dicendo, signor Huizinga, che l’opera d’arte autentica aveva il suo fondamento in un rituale, e la riproducibilità di massa l’ha liberata da questa esistenza parassitaria. Ah, proprio così signor Benjamin proprio così, alla fine del secolo la religione stava perdendo colpi e l’arte arrivò a sostituirla, dice questo? Certamente signor Huizinga, e aggiungerei che questa enorme quantità di riproduzioni tecniche delle opere d’arte poteva essere manipolata, ha modificato il modo in cui le masse consideravano l’arte e le ha manipolate a sua volta. Inavvertitamente signor Benjamin, lei potrebbe dire che adesso l’arte è diventata dominio pubblico, per i più o meno istruiti Monna Lisa e l'Ultima cena sono diventate arte da calendari da appendere sopra l’acquaio della cucina. Certamente signor Huizinga, Paul Valéry aveva capito che ci saremmo arrivati, immagini visive e uditive portate nelle case da lontano come acqua gas ed elettricità e infine, che Dio ci aiuti tutti, la televisione. Affermativo signor Benjamin, con il meccanizzazione, la pubblicità le opere d’arte sono realizzate direttamente per la vendita, ecco è questa l’America. È sempre stata questa, signor Huizinga. Lo è sempre stata, signor Benjamin. Tutto diventa un oggetto commerciale il mercato stabilisce il prezzo. E il prezzo diventa il criterio di ogni cosa. Certamente signor Huizinga! L’autenticità viene azzerata quando l’unicità di ogni realtà viene superata dalla ricezione della sua riproduzione, pertanto l’arte è predisposta alla sua riproducibilità. Date loro la possibilità di scegliere, signor Benjamin, e le masse sceglieranno sempre il falso".

sabato 28 settembre 2019

Gabriele Pizzuto – Si riparano bambole


Siribambole

I libri. E i loro strani, stranissimi, percorsi.
Arrivi a Frasca seguendo chissà quali tracce e quando riparti ti ritrovi su una strada che porta a Pomilio; pochi passi e subito scopri un bivio dal quale si diramano due sentieri poco battuti, uno che conduce a Le strade che portano al Fùcino di Tommaso Ottonieri (suo figlio) e l'altro, ridotto a poco più che una traccia nel bosco, che arriva dalle parti di Gabriele Pizzuto, uno scrittore finito da tempo nel dimenticatoio. Decidi d'impulso di prendere la seconda deviazione ed ecco che ti ritrovi tra le mani Siribambole.
Leggi di paragoni arditi: c'è chi parla di sperimentalismo come reazione al realismo del tempo, chi cita Gadda, chi scomoda addirittura Joyce, chi ci vede echi del Gattopardo… può essere, pensi poco convinto, perché in realtà più lo leggi e più a te Pizzuto sembra solo Pizzuto, un outsider, un fuoriclasse misconosciuto, uno la cui parabola letteraria merita di essere riscoperta ed esplorata con attenzione.
Sì, perché Siribambole è una pietra preziosa, un'(auto)biografia sghemba che racconta le vicende di Profi, un bambino goloso di quella vita che vede scorrere davanti ai suoi occhi senza mai riuscire ad afferrarla davvero. Fotografie di un'epoca passata che nella penna dell'autore si dilatano fino a diventare uno spazio dove fatti e fantasia si mescolano. Fotografie, di quelle che ti rigiri lentamente tra le mani e poi avvicini agli occhi per esaminare con attenzione particolari e oggetti ma soprattutto per scrutare nelle espressioni di volti che ti guardano da un'altra epoca, sperando che possano aiutarti a ricostruire la loro storia ma anche perché ti aiutino a immaginarne una.
Pizzuto descrive le cose con un linguaggio nuovo che colora la pagina utilizzando tutta la tavolozza dei colori. Non si accontenta di riprodurre le immagini in maniera fedele, ma si sforza di coglierne ogni particolare, ogni singola sfumatura nel tentativo di sottrarre il ricordo all'oblio per farlo vivere ancora un po'.
La lingua di Siribambole è una lingua nuova alla quale non è semplice abituarsi (e parliamo di un libro pubblicato nel 1960), vedere le cose con gli occhi di Profi è come assistere ad un film senz'audio e presuppone da parte del lettore un ruolo attivo perché è lui che deve costruire la trama partendo dai fotogrammi che scorrono sullo schermo.
Scoprire un autore del valore di Pizzuto è sempre una bella soddisfazione, soprattutto se si arriva a questa scoperta attraverso i sentieri accidentati e affascinanti della letteratura.

domenica 22 settembre 2019

Gabriele Frasca – Dai cancelli d'acciaio


Difficile comprendere come Dai cancelli d'acciaio sia potuto passare quasi inosservato da parte dei critici e soprattutto dei lettori, considerato che si tratta di uno dei più importanti romanzi italiani (e non solo italiani) del nuovo millennio, sicuramente il migliore tra quelli che ho letto.
Probabilmente perché è un libro difficile, faticoso, che nulla concede a chi gli si avvicina, una lenta e tortuosa salita (anche se in realtà si tratta piuttosto di una specie di discesa agli Inferi) verso un traguardo che in realtà non esiste perché qui lo scopo non è arrivare da qualche parte ma stimolarci a riflettere utilizzando le parole dei protagonisti come punto di partenza per altri lidi. Un romanzo 'aperto', che si potrebbe rileggere mille volte ritrovandoci sempre qualcosa di nuovo che c'era sfuggito in precedenza.
Che il viaggio non sia dei più semplici è evidente sin dall'inizio. Frasca ci butta giù dalla barca senza avvertirci, precipitandoci subito in media res e per di più con un'ipotassi che non rappresenta certo un invito alla lettura: vediamo se sai nuotare in questo mare - sembra dirci con aria di sfida - così che, una volta in acqua, non ci resta altro che sbracciare goffamente per stare a galla.
È crudele questo libro, perché le difficoltà sembrano non finire mai e proprio quando cominciamo a credere di riuscire a comprendere un po' la trama, ecco che andiamo a sbattere violentemente contro un muro imprevisto: un ipertesto denso e coltissimo con tanto di dotta esegesi dei Vangeli gnostici davanti al quale è facile gettare la spugna. Eppure si procede. A fatica, tra analessi che disorientano e citazioni che spaventano, senza comprendere bene in quale direzione stiamo andando, quali siano le figure di riferimento e soprattutto gli assi portanti della storia, perché, come detto, questo romanzo ha una forza centrifuga straordinaria e dalle sue pagine sembrano gemmare riflessioni continue.
Piano piano comprendiamo che il centro di tutto è "il Cielo della Luna", un'enorme discoteca simile al girone infernale dei lussuriosi all'interno della quale è possibile, in cambio di alte somme di denaro, essere legati ad una croce ed innalzati davanti ad una serie di schermi che proiettano immagini di sesso violento che sembrano uscite da un dipinto di Bosch e che a volte culminano con l'uccisione di uno dei partecipanti alla scena. A questa croce sceglieranno di farsi legare anche il Cardinale Bruno e successivamente il suo segretario padre Saverio Juvarra, il primo per guardare in faccia il Male assoluto, il secondo per espiare il tradimento ordito su ordine delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del Cardinale al fine di impedirgli la propagazione del microfilm di un sorprendente Vangelo di Giuda.
Proprio il tradimento è uno degli assi portanti del romanzo ma ce ne sono anche innumerevoli altri: il male inteso come l'altra faccia del bene, tappa necessaria per poter aspirare all'assoluto, il dualismo carne/anima con quest'ultima che cerca di affrancarsi dall'involucro del corpo, di uscire dai cancelli d'acciaio della materia per raggiungere uno stadio superiore. E ancora: le diadi, i rapporti a due che si rompono con l'arrivo di un terzo, così come la relazione diretta e personale uomo/Dio che rappresenta la fede pura è resa impossibile dall'intrusione della rigida organizzazione della Chiesa.
Dai cancelli d'acciaio è anche un libro sulla nostra società, sul complottismo, sulla mancanza di ideologie e sulla crisi della religiosità, sui cambiamenti degli ultimi quarant'anni e sul cosiddetto mondo virtuale, un libro che apre a riflessioni sulla comunicazione che parte dall'ascolto, sulla parola e la sua trasmissione (tradurre è tradire) e sull'immagine, soprattutto un libro nel quale Frasca ci propone una sua idea di realtà intesa non come qualcosa di assoluto e condiviso ma come un processo individuale, un sogno solitario ad occhi aperti.


domenica 15 settembre 2019

Saša Sokolov – Palissandreide



Sokolov è probabilmente il più interessante degli autori russi contemporanei e con Palissandreide (opera del 1985 e che arriva da noi con colpevole ritardo) firma una sorprendente e scoppiettante incursione nel postmoderno.
Inutile avventurarsi in una descrizione della trama, talmente ricca di episodi e personaggi da risultare difficilmente riassumibile. Diciamo che si tratta di un memoriale tra il picaresco e il distopico (è ambientato nel 2757, periodo del Nontempo) che narra le vicende di Palisandr Dal'berg, pronipote di Berija e nipote di Rasputin, da orfano del Cremlino e maestro di chiavi alla Casa dei massaggi governativa a capo dello stato e gran maestro dell'ordine supremo; semplificando rozzamente potremmo dire che si tratta di una presa in giro della gerontocrazia sovietica (il protagonista è una specie di satiro gerontofilo) che finisce vittima di un curioso contrappasso con gli eredi dei perseguitati di un tempo che si ritrovano talora a tiranneggiare i discendenti dei loro aguzzini.
Detto questo, è bene aggiungere che la trama è la cosa meno importante del libro e che con Palissandreide Sokolov continua il percorso iniziato con La scuola degli sciocchi, 'smonta' cioè il romanzo spostandone la centralità dalla trama alla scrittura, sviluppando una ricerca sulle possibilità della parola che a tratti definirei charmsiana. Quella che ci propone è una lingua ricca, scintillante, con una serie infinita di doppi sensi, allusioni, citazioni, metonimie e soprattutto con un intertesto sconfinato che finisce per tracimare dalle pagine e travolgere il testo vero e proprio, una lingua sulla quale tutto si regge e va da sé che si tratta di un equilibrio altamente instabile.
Sì perché Sokolov non si accontenta di giocare solo con lo stile, ma mette in discussione ogni singola parte del romanzo: gioca con i generi, alternando letteratura alta e popolare, citando ad esempio pensatori importanti e subito dopo distorcendone il credo fino a storiella da pettegolezzo, mescola tradizione e innovazione, ortodossia e folclore, prosa e poesia (è Sokolov stesso ad usare per le sue opere il neologismo di 'proesia'), passa senza preavviso dalla prima alla terza persona e dal discorso diretto a quello indiretto, fa saltare il continuum narrativo con ripetute divagazioni che finiscono per portare il lettore lontano dal punto di partenza, gioca con le coordinate spazio-temporali e ed anche con i canoni che definiscono i personaggi al punto che nel corso del romanzo Palisandr si comporta prima da uomo, poi da albero ed infine da ermafrodito, in piena sintonia con il pensiero espresso dall'autore che "è il linguaggio che definisce il carattere dei personaggi", tornando così al punto iniziale, al linguaggio che regge tutta la costruzione del romanzo.
Palissandreide è un'opera complessa di un autore importante, speriamo solo di non dover attendere altri trent'anni prima che qualche editore illuminato decida di pubblicare altro di Sokolov.