sabato 14 dicembre 2019

Uccidendo nani a bastonate – Alberto Laiseca



Alberto Jesús Laiseca è stato uno dei tanti "irregolari" della letteratura sudamericana come ben testimonia questa raccolta, una serie di racconti nei quali si fatica a trovare un tratto comune. Da subito si è proiettati in un mondo nel quale il reale si scompone e trasforma in immaginario come nelle Metamorfosi di Escher, con il tempo che risulta  un'opinione e le regole che finiscono spesso per essere capovolte. È un mondo che diverte e insieme confonde il lettore che inevitabilmente arranca dietro alle trovate dello scrittore argentino faticando a trovare punti fissi ai quali ancorarsi.
Non è semplice entrare in sintonia con una scrittura così ricca di aggettivi e con un genere sospeso tra il grottesco e il fantastico e che Laiseca definiva "realismo delirante", ma attenzione a non prendere sottogamba queste storie: a volte basta sostituire ai protagonisti le vittime della repressione argentina per scoprire un sottotesto molto più ricco di quanto possa sembrare in apparenza.
Tra le pagine di Uccidendo nani a bastonate si trova un po' di tutto (a parte i nani del titolo che sono solo una metafora "forte"): autobus spinti dagli uomini, macchine per viaggiare dentro ad un tornado, strumenti di tortura, persino una macchina per pugnoscrittura a pedali e piante che assorbono la violenza… ma sono soprattutto i temi di questi racconti a disorientare il lettore. La lingua, la pazzia, la paranoia, il potere tecnocratico, la tortura e soprattutto i frequenti riferimenti al nazismo, spesso ridicolizzato (e di nuovo non si può non pensare alla guerra sporca degli anni '70).
Passeggiando sull'orlo del vulcano, Laiseca si diverte a gettarci in faccia ciò che dovrebbe scandalizzarci, mostrandoci come ciò sia stato ormai depotenziato fino a diventato routine, non riuscendo più a scuotere i nostri animi, lasciandoci nel dubbio se gli strampalati racconti di Uccidendo nani a bastonate siano esercizi di stile, apologhi travestiti da nonsense o, più probabilmente, entrambi le cose.

sabato 7 dicembre 2019

Leviatano o il migliore dei mondi – Arno Schmidt



Nichilista? Altroché!

Difficile guardare al futuro con ottimismo per chi, come Arno Schmidt, ha partecipato alla II Guerra mondiale nelle fila dell'esercito tedesco, avendone vissuto in prima persona gli orrori e le aberrazioni. Il cinismo è la cifra di un autore che non nutre più alcuna fiducia nell'uomo e nell'umanità e che sembra solo attendere ed auspicare la fine della storia.
Leviatano è un libro durissimo, il resoconto diaristico di due giorni di viaggio in treno di un gruppo di sbandati slesiani in fuga dall'esercito russo. Una scrittura per frammenti: immagini, gesti, colori. Parole appuntite come spade, verbi ripetute, frasi secche e condensate all'osso che si alternano con ritmo sincopato restituendo perfettamente l'atmosfera cupa del momento ("Il lungo crepuscolo. Trascinare. Buio bisbiglia, al modo di un pittore che mescoli incerto un colore notturno. Trascinare. Giallo polveroso. Trascinare. Rosso fuligginoso. Trascinare. Da una finestra sul vuoto ammiccò pieno il primo astro; grasso, sfacciatamente giallo, un banchiere. Trascinare. Il cielo si fece chiaro e promise freddo in arrivo.")
I protagonisti sono uomini e donne che si aggirano intorno ai binari di luoghi spettrali come morti-viventi, sonnambuli che galleggiano in un presente fragilissimo, sospeso tra un passato troppo lontano e un futuro inesistente. L'hic et nunc di Arno Schmidt è provvisorietà, pura sopravvivenza senza margini per la speranza. Nulla sembra avere senso: Dio, le leggi che regolano la materia, i principi della fisica e della filosofia, le cose del mondo.
Un mondo alla fine del mondo, dove vivere o morire è solo questione di fortuna.

sabato 30 novembre 2019

Il quinto evangelio – Mario Pomilio




"L'evangelio non è finito, questa è la verità."

Il quinto evangelio è un romanzo importante che mescola personaggi storici ed episodi di fantasia in una trama in cui si alternano materiali e registri narrativi diversi: novelle, lettere, leggende, testimonianze, frammenti di libri e addirittura un'opera teatrale che Pomilio ci propone restituendoci con grande eleganza la lingua e lo stile delle epoche a cui fa riferimento. Libro modernissimo quindi, nonostante sia stato scritto nel 1975 e ancora più moderno se consideriamo che si tratta anche di un elegante esercizio meta-letterario dato che il tema del romanzo è proprio un libro, il fantomatico quinto evangelio alla cui ricerca il protagonista finisce per dedicare la sua esistenza.
Si parte dagli appunti di un prete anonimo, dal suo arrovellarsi tra dubbio e speranza e dalla sua ricerca di Dio, per arrivare ai Vangeli, l'opera con la quale il Padre ha parlato agli uomini attraverso il Figlio. Dai Vangeli al quinto evangelio del quale il protagonista scopre le tracce nelle carte del prete il passo è breve, un quinto evangelio che  si rivela da subito qualcosa di più di una curiosità, di uno dei tanti apocrifi opera di discepoli e pseudo-discepoli di Cristo, perché pone al centro la carità, laddove gli altri mettevano la legge.
Un ritorno alle radici, alla spiritualità, ad un Gesù "francescano" da opporre alla secolarizzazione della Chiesa (ed anche in questo il romanzo di Pomilio risulta non solo modernissimo ma quasi profetico).
Al centro del libro c'è la Parola: le sue interpretazioni e il suo travisamento, che ci hanno allontanato dal suo significato originario portandoci in tutt'altra direzione. Il quinto evangelio rappresenta così il tentativo di sfrondare la Parola dalle sovrastrutture che l'hanno appesantita nel corso del tempo, dalle analisi capziose e spesso sterili che hanno finito per tradire il messaggio che essa voleva rappresentare quando fu pronunciata.
Quinto evangelio non come un vangelo nuovo ma come modo nuovo di rileggere i Vangeli canonici per recuperare la potenza anche eversiva di una Parola che è senza fine perché si rinnova in continuazione, mantenendo però inalterato  il messaggio che essa sottende, l'invito a passare dalla dottrina all'azione, ad operare per i poveri, per gli umili, per gli ultimi.

sabato 23 novembre 2019

António Lobo Antunes – La morte di Carlos Gardel



"Le persone come il mio amico sono immortali, non finiscono, dureranno fintanto che ci sia qualcuno che le apprezzi sulla faccia della terra."

Terzo ed ultimo romanzo del "ciclo di Lisbona", La morte di Carlos Gardel rappresenta l'ennesima prova di bravura di un grandissimo artigiano della parola scritta.
Libro di sentimenti trattenuti, parole non dette, molti ricordi e pochi dialoghi. Una scrittura densa, avvolgente, frasi che cadono sulla pagina e poi si allargano a macchia d'olio innescando un'apnea di pensieri e di immagini che si intersecano saltando avanti e indietro sulla linea del tempo. Lobo Antunes padroneggia perfettamente una macchina narrativa che ha prima inventato e poi affinato nei particolari: si parte dalle piccole cose, dettagli a cui affida il compito di suscitare idee che rimandano a momenti recenti o lontani nel tempo che a loro volta ne richiamano altri. E poi ancora: la pluralità di voci, episodi raccontati da più punti di vista a delineare meglio la trama, anche se non a chiarirla definitivamente.
Una scrittura che procede per 'accumulazioni', un fiume che nella sua corsa verso il mare trascina con sé tutto quello che incontra lungo il suo passaggio. Il ritmo della narrazione è incalzante, ipnotico, con le voci narranti che si alternano e poi si sovrappongono, chiarendo oppure confondendo il lettore ma sempre spingendolo un po' più dentro la lettura perché lo scopo con Lobo Antunes, il mio scopo, non è quello di comprendere tutta la trama ma respirarne le  parole, viverne le atmosfere.
La morte di Carlo Gardel è un libro di memorie: ricordi di un nonno che non parla con nessuno, perso nei suoi solitari con le carte, di donne e uomini che abbandonano le famiglie, che se ne vanno semplicemente perché non ce la fanno più, ricordi di ex mariti, di tizi con la brillantina e le labbra dipinte, di faggi che tossiscono, di olmi che chiamano e di guinzagli senza cane.
Monete, teiere d'argento, tazze di porcellana e mille altri oggetti comuni, odori, colori e sensazioni che la penna di Lobo Antunes recupera dalla memoria e richiama a vivere sono i veri protagonisti di questo libro perché se la morte di Nino è inevitabile sin dalle prime pagine, la morte del passato invece può essere rimandata grazie al potere della parola. Un inganno, certo, ma forse non è un inganno anche la letteratura che traducendo tradisce la realtà?

sabato 16 novembre 2019

Nikos Kazantzakis – Zorba il greco




Questo Zorba era l’uomo che da tanto tempo cercavo senza trovare; un cuore vivo, una bocca vorace, un’anima grande e spontanea che non ha ancora tagliato il cordone ombelicale con sua madre, la Terra.

Libro importante nel percorso di Kazantzakis; tentativo di comporre gli opposti, Zorba è l'elemento dionisiaco a cui l'autore affida il compito di tenere a freno la sua parte apollinea.
Non starei qui a scomodare la teoria del superuomo: Zorba rappresenta piuttosto l'uomo dell'hinc et nunc, un nichilista forse solo all'apparenza ma in realtà un individuo in grado di provare compassione per il prossimo, un uomo che con il suo comportamento offre a Kazantzakis un punto di vista diverso che privilegia l'istinto e la quotidianità rispetto ad un idealismo che per l'autore stava rischiando di diventare sterile avvitamento su se stesso.
Zorba quindi non come modello di vita tout court ma come quel 'gancio' del quale lo scrittore aveva bisogno in un momento preciso della sua vita, una boa da afferrare al volo per non essere travolto dalla tempesta. Non certamente l'uomo perfetto, un maestro di vita da seguire alla lettera, piuttosto un'opportunità da cogliere per sforzarsi di mettere a fuoco le cose in maniera più completa, ampliando un punto di vista che lo stava allontanandosi troppo dalla terra, dalla concretezza, dalla realtà ("E così il mondo è caduto in mano agli scribacchini; - dice Zorba – quelli che i misteri li vivono, non hanno tempo; e quelli che hanno tempo non vivono i misteri").
Compito di Zorba è indicare a Kazantzakis una strada, un percorso tanto affascinante quanto improbo da seguire perché sottende un cambiamento di paradigma difficile da realizzare: "non sei libero”, disse; “la corda a cui sei legato è un po’ più lunga di quella degli altri uomini; questo è tutto. Tu, padrone, hai una fune lunga, vai e vieni, credi di essere libero; ma la fune non la tagli. E se non tagli la fune…”. “Un giorno la taglierò!”, dissi con ostinazione, perché le parole di Zorba toccarono una ferita aperta dentro di me e mi fecero male. “Difficile, padrone, molto difficile. Per questo ci vuole follia; follia, hai capito? Rischiare tutto! Ma tu hai cervello, e questo sarà la tua rovina. Il cervello è un droghiere, tiene i registri, annota le uscite, le entrate, i profitti, le perdite. È un bravo amministratore, non rischia mai tutto, tiene sempre qualcosa di riserva. Non taglia la fune, no! La stringe in mano, il furfante; se gli sfugge, è perduto, perduto, poveretto! Ma se non tagli la fune, mi dici che gusto ha la vita? Di camomilla, di camomillina; non di rum, che scaravolta il mondo!”.
[…] quello che diceva Zorba era giusto… Quando ero bambino, ero pieno di entusiasmi, di desideri primordiali, me ne stavo sempre da solo e sospiravo perché il mondo mi andava stretto. Poi, pian piano, col tempo, ero diventato sempre più saggio; ponevo dei limiti, separavo il possibile dall’impossibile, l’umano dal divino, mi tenevo stretto l’aquilone perché non mi sfuggisse.