domenica 27 settembre 2015

ciao, Romeo



La morte non è niente. 

La morte non è niente. 
Sono solamente passato dall'altra parte: 
è come fossi nascosto nella stanza accanto. 
Io sono sempre io e tu sei sempre tu. 
Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora. 
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; 
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. 
Non cambiare tono di voce, non assumere un'aria solenne o triste. 
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, 
Di quelle piccole cose che tanto ci piacevano 
quando eravamo insieme. 
Prega, sorridi, pensami! 
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: 
pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza. 
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: 
è la stessa di prima, c'è una continuità che non si spezza. 
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla 
tua vista? Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo. 
Rassicurati, va tutto bene. 
Ritroverai il mio cuore, 
ne ritroverai la tenerezza purificata. 
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: 
il tuo sorriso è la mia pace.

[Sant'Agostino]


Ode al gatto

L’uomo vuole essere pesce e uccello 
il serpente vorrebbe avere ali 
il cane è un leone spaesato 
l’ingegnere vuol essere poeta 
la mosca studia per rondine 
il poeta cerca di imitare la mosca 
ma il gatto vuol solo essere gatto 
e ogni gatto è gatto dai baffi alla coda 
dal fiuto al topo vivo dalla notte fino ai suoi occhi d’oro.

[Pablo Neruda]

sabato 26 settembre 2015

Ferenc Karinthy – Epepe



Tra Kafka e Saramago

Romanzo che, sorprendentemente, prende le mosse da una domanda tipica della produzione saramaghiana dagli anni '80 in poi: cosa succederebbe se?
Se la penisola iberica si staccasse dall'Europa (La zattera di pietra), se gli uomini diventassero improvvisamente ciechi (Cecità), se non si morisse più (Le intermittenze della morte), se alle elezioni tutti votassero scheda bianca (Saggio sulla lucidità), sono alcuni degli incipit usati dal mastro di Azihaga e cosa succederebbe se di colpo ci trovassimo tra gente che non parla la nostra lingua è quello del libro di Karinthy.
Un romanzo distopico, il dramma di un uomo condannato a vivere in un mondo nel quale non riesce a farsi capire ma del quale è costretto ad accettare le regole. Un mondo che da l'impressione di correre verso il nulla, in cui tutti vanno di fretta oppure sono in coda per ottenere qualcosa, ma in un caso o nell'altro sono indifferenti al dramma che il protagonista vive. Nessuno ha tempo da perdere con lui, le cose sembrano succedersi senza un motivo preciso e anche una rivolta popolare che scoppierà inspiegata e improvvisa, altrettanto rapidamente verrà repressa e dimenticata.
A rischiarare il buio nel quale le circostante hanno precipitato il povero Budai sarà (non a caso) una donna (Epepe, Pepe, Dede, Veve, Bebe, Edede o come diavolo si chiama...), l'addetta agli ascensori dell'albergo, l'unica persona con la quale il protagonista del romanzo riuscirà a stabilire un abbozzo di contatto. Una comunicazione destinata a scorrere più a livello emotivo che verbale, nella quale Budai per la prima volta proverà ad abbandonare il consueto terreno della razionalità, fatta di mille tentativi tanto ingegnosi quanto infruttuosi di comprendere l'alfabeto di quello strano posto, per affidarsi al cuore, sforzandosi di prestare attenzione non più ai suoni che escono dalla bocca di Epepe quanto al tono della sua voce, alle inflessioni, ai gesti, per provare a interpretare con l'immaginazione quello che la ragazza dice. Una comunicazione giocata sul piano della sensibilità, quel tipo di relazione che, sembra dire Karinthy, si può sperimentare solo con una donna.
Epepe è un romanzo sulla difficoltà e insieme sulla necessità di comunicare e su come un corto circuito di questo meccanismo possa condurre all'alienazione. Difficile non leggere in queste pagine anche un riferimento politico: il libro è del 1970, scritto poco dopo i fatti della Primavera di Praga e le code, la sensazione di straniamento, di vivere sotto un giogo, di non aver voce e, soprattutto, la rivolta repressa nel sangue e cancellata il mattino dopo come se non fosse mai esistita, sembrerebbero riferimenti abbastanza precisi a quello che succedeva in quegli anni nell'Europa dell'Est.


sabato 22 agosto 2015

Mircea Cărtărescu – Abbacinante. Il corpo.

Volare fuori, volare dentro. Comunque volare.

Libri belli ne ho letti parecchi, anche quest'anno. Storie intriganti, scritture originali...questo però è diverso. Qui entriamo in un territorio dove la trama e lo stile rappresentano solo una parte e nemmeno la più importante. Siamo nel campo delle opere destinate a rimanere, quelle che lasciano un segno: qui siamo dalle parti di Infinite Jest, tanto per capirci (pur con tutti i distinguo del caso).
Accade che la lettura di Abbacinante. Il corpo ti faccia sentire un privilegiato, come se fin dalle prime pagine fossi toccato da qualcosa di grande del quale vorresti far partecipi tutti, per vedere se anche a loro farà la stesso effetto. Ti è già successo, l'ha già provato qualche volta (poche volte) e sai perfettamente che è inutile cercare di definirlo. La letteratura c'entra, ma c'è anche dell'altro, c'è di più, qualcosa che ha a che fare con la capacità dello scrittore di toccare con le parole qualche ingranaggio dentro di te che credevi arrugginito, riuscendo a mettere in movimento la vecchia macchina del pensiero immaginifico con la quale non giocavi più da tanto tempo.
Credo che le opere più riuscite siano quelle che nascono da un bisogno dell'autore, libri scritti più per se stessi che per il lettore. Certo, gli ultimi Roth o Saramago (sono i primi nomi che mi vengono in mente) sono ottimi anche se il mestiere sembra avere un ruolo preponderante rispetto all'ispirazione, ma stiamo parlando di Roth e Saramago... Qui la tensione che muove la trama si sente tutta e Cărtărescu sembra assecondarla senza preoccuparsi troppo dei suoi compagni di viaggio, rincorrendo una storia che sembra attirare lui e noi come la luce le falene, avvolgendolo e avvolgendoci sempre di più nelle sue spire.Abbacinante. Il corpo non è un libro semplice, anche dal punto di vista stilistico: frasi lunghe, pochissimi a capo, passaggi di luogo e tempo improvvisi alternati a lunghe descrizioni della fisiologia del cervello o a dotte dissertazioni sembrerebbero costituire una barriera tra autore e lettori ma in realtà sono al servizio della storia. Non è possibile semplificare all'estremo, a volte la complessità è necessaria se vogliamo provare a capire. L'aspirazione dell'autore, folle e per questo affascinante, è quella di decrittare nuovamente il mondo, perché l'interpretazione che ne abbiamo dato finora è parziale e fallace e per farlo dobbiamo provare a trascendere la nostra natura umana.
Abbacinante. Il corpo può essere letto in molti modi, io lo vedo come una specie di esperimento di fisica nucleare nel quale Cărtărescu prende l'emotività e la potenza di sognatore di un bambino e la manda a sbattere a tutta velocità contro la capacità di razionalizzare dell'adulto, provando a descrivere cosa scaturisce da questo impatto e quello che si sprigiona è un misto di fuochi d'artificio e di energia stupefacenti. Un viaggio vertiginoso dove surreale, poetico, postmoderno, meta-narrazione e chissà quant'altro si intrecciano, dove il reale si confonde con la finzione e il ricordo con la fantasia. Un viaggio fatto di donne che indossano le ali per volare vicino alla luce, di uomini che si evirano per mondarsi dalle pulsioni della natura e avvicinare la verità, tappeti che si trasformano e diventano mondi interi e poi ancora: nani del circo, uomini serpente, personaggi che escono da un portone a Bucarest per trovarsi in un quadro ad Amsterdam, uomini-statua e statue-uomo e poi simboli, tanti simboli (sfera, spirale, conchiglia, ascensore, bozzolo, crisalide, farfalla)... difficile dar conto di tutto.
Un viaggio fatto di parole, che Cărtărescu utilizza come grimaldello per forzare la vita, per trovare un'uscita da questa scatola nella quale siamo costretti, una porta che ci permetta di entrare e uscire dal mondo a nostro piacimento. Un viaggio folle ,realizzabile solo grazie alla scrittura, l'unica in grado di fornirci le ali necessarie a volare fuori dal mondo e dentro di noi e di farci dimenticare per un po' che in realtà siamo solo pagine di un libro già scritto.

In ultimo (confido del fatto che nessuno mi avrà seguito sino al termine di questa sconclusionata recensione), c'è una nota personale che vorrei aggiungere: Abbacinante. Il corpo è anche un libro pericoloso. Perché allontana. Ti attira dentro con la forza di una calamita, ti porta in un altrove fatto di sogni e parole e così facendo ti allontana, fatalmente, dagli altri. E questo, almeno per me, è pericoloso.
Capita però che a volte passi qualcuno che vede il libro che stai leggendo, lo prenda in mano, alzi un po' il sopracciglio leggendo il nome dell'autore, giri il volume per scorrere velocemente tre righe della quarta di copertina (le prime tre, che arrivare sino alla fine costerebbe troppa fatica) e poi, visto che non è riuscito a farsi un'idea, ti chieda, più per curiosità che per interesse: “Di cosa parla?”. Succede che tu rimanga lì, sospeso tra la voglia di rispondere provocatoriamente “Parla del mondo” e quella, altrettanto maligna, di usare le parole di Cărtărescu “É un libro illeggibile, che non dice nulla, non vuole nulla e non significa nulla”, ma poi decida di provare a imbastire una risposta (breve, brevissima, sia chiaro, che il tuo interlocutore non ha tempo da perdere con un libro) che possa in qualche maniera soddisfarlo o incuriosirlo. Succede però che quando hai terminato la spiegazione e lo guardi per vedere se sei riuscito a comunicargli almeno un milionesimo di quello che la lettura di questo volume ti ha dato, incontri uno sguardo distratto. Il tuo amico è già andato oltre le tue parole, è ancora davanti a te ma non è più lì; ti restituisce il libro come se si trattasse di cibo andato a male e ti dice con tono che vorrebbe essere di ammirazione ma suona invece come compatimento: “Beato te, che trovi il tempo di leggere. Piacerebbe anche a me, ma con tutto quello che devo fare non ci riesco!”.
Ecco, è in questi momenti che sentirsi lontano invece che pericoloso diventa piacevole.

sabato 15 agosto 2015

Per Olov Enquist – Il libro delle parabole


Difficile appiccicare un'etichetta a questo libro: non è un romanzo, non sono racconti e nemmeno apologhi, forse pensieri sparsi, frammenti. Parabole. 
Parabole per orientarsi nella nebbia della vita, per provare a capire perché si è vissuto, cercando di mettere un po' d'ordine in quello che è successo pur sapendo che è impossibile ricostruire quello che manca. In questo senso i nove fogli strappati al taccuino del padre rappresentano il punto d'inizio di una ricerca che appare da subito difficile per non dire impossibile: il senso della vita è nel taccuino? Oppure la soluzione consiste nel cercare, consapevoli che non si arriverà mai a comprendere il mistero? E le nove parabole, rappresentano il tentativo dell'autore di riscrivere le nove pagine mancanti al taccuino del padre? 
Il libro delle parabole è un libro, soprattutto, sull'Amore, al posto di quel romanzo sull'amore che Enquist confessa di non esser mai riuscito a scrivere. Amore e memoria, dunque, con i ricordi che si confondono, si mescolano alle fantasie e diventano altro.
Un'infanzia permeata dalla cupa cupa visione della fede inculcatagli dalla madre porterà Enquist a identificare l'amore (ma anche la poesia, la fantasia e i sogni) con il peccato, visione dalla quale faticherà ad affrancarsi continuando per un bel pezzo a identificarlo con l'idea di proibito, di possesso, di una specie di apostasia. La conversione della zia all'amore terreno, contrapposto a quello celeste, farà nascere in Enquist i primi dubbi che esploderanno poi nell'episodio della donna sul pavimento senza nodi, la parabola che rappresenta il centro nevralgico dell'intero libro. 
La scoperta del sesso, l'amore contrapposto alla fede, l'amore ineluttabile, che può far paura al punto da spingere alla fuga ma dal quale non ci si può liberare, l'amore come illuminazione, scoperta di un'intimità condivisa che permette di lasciar cadere le difese e di abbandonarsi all'altro, l'amore come luogo intimo da difendere e ricordare, la cui forza non si può comprendere fino in fondo eppure si deve provare a farlo. L'amore che illumina le nebbie della vita, amore totale, incondizionato, che non lega ma anzi lascia liberi, talmente grande e sacro da poter dire che forse Dio e Amore sono la stessa cosa.

sabato 8 agosto 2015

Ian McEwan – Espiazione



It's not my cup of tea

L’alta ombra fresca del bosco le fu di sollievo, l’intrico scultoreo dei tronchi le parve incantevole. Superato il cancelletto di ferro, e la siepe di rododendri, attraversò il prato aperto - venduto a un allevatore locale come terra da pascolo - per risalire alle spalle della fontana con il suo muro di sostegno e la riproduzione in scala del Tritone del Bernini il cui originale era a Roma in piazza Barberini. La figura muscolosa, accomodata sulla conchiglia, riusciva a schizzare un getto alto pochi centimetri appena, la pressione era troppo bassa, e l’acqua ricadeva sulla testa della statua, colando sulla chioma di pietra e lungo il solco della possente spina dorsale su cui lasciava una lucida chiazza verde scuro. In questo ostile clima settentrionale, il Tritone era molto lontano da Roma, ma rimaneva bellissimo nella luce chiara del mattino, come del resto erano belli i quattro delfini che sostenevano la conca lambita dai flutti su cui riposava. Cecilia osservò le improbabili scaglie sul dorso dei delfini e sulle cosce del Tritone, prima di volgersi verso la casa.”

Ecco cosa intendo. Una scrittura lenta, ampollosa, pesante e manierata. Periodi lunghi, descrizioni particolareggiate ed eccessive che per quanto possano essere eleganti e raffinate non mi invogliano nemmeno un po'. Esagero? Vedete un po' voi:

Entrò, attraversò di fretta l’ingresso a piastrelle bianche e nere - com’era familiare il suono dei suoi passi, com'era irritante - e fece una sosta per prendere fiato sulla soglia del salone. Gocciolandole acqua fredda sui piedi calzati di sandali, il mazzo sparso di epilobi e iris le restituì uno stato d’animo un poco più allegro. Il vaso che stava cercando era su un tavolo in ciliegio accanto alla porta finestra socchiusa. A causa dell’esposizione a sud-est della stanza, alcuni parallelogrammi dorati di luce mattutina avanzavano sul tappeto blu polvere. Il respiro di Cecilia si fece più calmo mentre aumentava il suo desiderio di una sigaretta. Esitò un istante sulla porta, momentaneamente immobilizzata dalla perfezione della scena, e restò lì, accanto ai tre divani sbiaditi disposti intorno al camino gotico quasi nuovo con la sua riserva di falaschi invernali, vicino al clavicembalo stonato che nessuno suonava e agli inutili leggii in palissandro, ai tendoni in velluto, morbidamente raccolti da un cordone intrecciato arancio e blu, a incorniciare un cielo vuoto di nuvole e la terrazza a chiazze gialle e grigie tra le cui lastre di pietra crescevano camomilla e partenio.”

Ok, la smetto. È che tutto questo grondare di aggettivi, l'attenzione maniacale ai dettagli unita a un evidente sfoggio di erudizione, sanno un po' troppo di narcisismo, di auto-compiacimento. Ed è un peccato.
Perché il mestiere c'è e si vede tutto: i personaggi sono tratteggiati attraverso i loro comportamenti, ognuno è ben caratterizzato sin da subito. È interessante, ad esempio, come la piccola Briony osservi quello che succede intorno a lei e lo interpreti (fraintendendo spesso) attraverso le lenti del suo ricchissimo mondo interiore, preparando il terreno per quello che sarà il dramma successivo. Purtroppo l'eccessivo controllo dell'azione e il continuo lavoro di cesello dell'autore saranno magari utili a produrre pagine godibili di bello stile, ma tolgono – a mio avviso – emotività al racconto, che finisce per essere molto “cerebrale”, frenato, povero di passione, per cui fatico a provare empatia per i protagonisti della storia.
Mi sembra di notare anche una certa discontinuità nel ritmo della narrazione: ad una prima parte che si presenta – come detto – lenta e descrittiva, ne segue una seconda sorprendentemente scorrevole e avvincente (quella che racconta le vicende di guerra), ad essa però ne segue una terza che inizia con una stucchevole descrizione della vita di Briony come infermiera e poi si riaccende improvvisamente con un finale che chiude (anche troppo rapidamente) tutte le parentesi che erano rimaste aperte.
Peccato, perché anche la conclusione presenta un mescolarsi di narrazione e metanarrazione che è idea attuale e indubbiamente interessante ma purtroppo è al servizio di una trama che non mi ha convinto più di tanto.
Peccato, perché il tema dei rischi del "narrativismo" (se questa era l'intenzione dell'autore) è attualissimo e stimolante e probabilmente avrebbe meritato uno sviluppo più articolato.