mercoledì 6 gennaio 2016
sabato 2 gennaio 2016
Witold Gombrowicz – Cosmo
Il
mondo era davvero una specie di paravento…
Cosmo è un romanzo da prendere con le molle.
Gombrowicz
gioca a nascondersi e lo fa travestendo da farsa il dramma, mettendo in scena una
scombinata investigazione “simil-poliziesca” figlia della noia di due giovani
amici, che dovrebbe indurre al riso se non celasse il tentativo folle e
disperato di indagare tra le pieghe del caos con gli strumenti della logica per
scoprire le leggi che lo regolano. Il tutto espresso attraverso una scrittura
che definirei “lussureggiante”, lontana mille miglia dal grigiore e dagli altri
stereotipi della narrativa polacca.
Una
passeggiata, allucinata e allucinante, di due fuori-di-testa, che cercano di trovare
un senso nelle cose che un senso non hanno. Così, in estrema sintesi, potrebbe
essere riassunta la trama del romanzo.
Indagare l’ordine
delle cose, dunque. Con la certezza di trovarci, alla fine, con un pugno di
mosche in mano, perché quello che riusciremo ad individuare sarà sempre uno
degli infiniti ordini possibili, un ordine arbitrario, utile solo a noi per
poter andare avanti, per cancellare possibili zone buie dal nostro percorso. E qual
è lo strumento che utilizzeremo per svolgere il nostro compito? La logica, la vecchia,
cara e usurata logica, che chiamata a confrontarsi con la natura finirà per
mostrare tutti i suoi limiti. Troppo comodo aspettarci che sia lei a fare tutto
il lavoro, sarebbe anche poco divertente. La logica può accompagnarci fino ad
un certo punto, ma quando si arriva alle colonne d’Ercole lei si ferma e se
vogliamo andare oltre ci tocca salire sulla barchetta di Ulisse e metterci alla
prova confrontandoci con l’ignoto. Togliamo pure i se: andare oltre è obbligatorio, non possiamo non farlo, dobbiamo trascendere
la nostra natura perché trascendere è
la nostra natura.
Witold e Fucsio
non fanno eccezione: non riescono a sottrarsi al compito che si sono dati di conferire
un significato alle cose, di scoprire cosa il mondo cela dietro il suo
paravento, di indagare il caos provando ad interpretarlo. Interessante notare
come l’autore sottolinei il fatto che la loro sia un’indagine che nasce dalla
noia e dalla solitudine, dal sentirsi esclusi uno dalla famiglia e l’altro dal
datore di lavoro.
Cosmo è romanzo con i piedi ben saldi nel
passato (e “ben saldi” può a ben diritto essere considerato un eufemismo,
riferendoci qui al fatto che i due squinternati amici presentano più di un
tratto in comune con il Cavaliere dalla Trista Figura…) e lo sguardo che apre
ad un futuro quantomeno problematico (penso all’esistenzialismo e al teatro
dell’assurdo): dopo il passaggio di Gombrowicz, quello che rimane sul campo sono
solo macerie, una frammentazione della realtà, la parcellizzazione di tutto ciò
che ci circonda. Ed è un processo irreversibile.
Witold è come
noi, e noi come Witold ci aggiriamo spaesati per quel che resta del mondo alla
ricerca di segnali, credendo di
comprendere le cose e di seguire un filo logico. Ingannandoci però, perché quel
filo che stiamo seguendo è solo uno dei mille fili possibili, che aprono mille
porte dietro alle quali ci sono altre mille porte e così via… E, come se non
bastasse, ognuno di noi è solo (ritorna la solitudine come molla della ricerca
di Witold) e prigioniero del suo mondo, di quel mondo che ha plasmato piegando
le cose interpretandole secondo i suoi bisogni.
C’è poco da
stare allegri: altro che farsa, qui ci troviamo nel pieno del dramma dell’uomo
moderno! Gombrowicz è perfettamente consapevole del fatto che, inevitabilmente,
un’analisi così impostata non potrà che condurre al cul-de-sac dell’inazione,
alla paralisi, e per questo propone una via d’uscita, letteraria se non
filosofica: l’azione. Il movimento è l’unico appiglio al quale possiamo provare
ad aggrapparci, necessario per svelare l’inganno di un’analisi basata su
congetture, quindi parziale, quindi inutile. L’azione crea la realtà, quella
personale, quella di ognuno di noi (ma se la realtà deve essere creata, allora
forse non esiste e così agendo si finisce per aggiungere altra confusione…).
Parere
personale: credo che un posticino tra i grandi del Novecento, Gombrowicz se lo
sia ampiamente meritato.
sabato 26 dicembre 2015
Chris Adrian – Un angelo migliore
Dagermaniano
Nove
racconti, non tutti allo stesso livello, ma decisamente interessanti e
originali.
Storie
che spesso vedono al centro della narrazione bambini che devono confrontarsi
con il dolore e la malattia e che sono chiamati a farlo da soli, perché gli
adulti brillano per la loro assenza: comparse, figurine sbiadite che non
comprendono o che non si preoccupano di comprendere, che sottovalutano, che
presumono di sapere, che spesso risultano più immaturi dei bambini e che fanno
sì che essi siano ancora più soli davanti alla sofferenza.
Adrian
è maestro nel tratteggiare il mutamento che la prova del dolore opera sui
piccoli protagonisti di questi racconti, trasformandoli in esseri diversi, non “piccoli
adulti”, ma strane creature nel cui animo convivono immaturità e
consapevolezza, dolcezza e crudeltà, irresponsabilità e raziocinio portato all’eccesso.
Sì, all’eccesso perché l’infanzia è la fase della vita che più delle altre abbisognerebbe
di tempo, per permettere a sentimenti e visione del mondo di svilupparsi in
maniera armonica e non traumatica. Di tempo e di protezione da parte degli
adulti, di quel contatto che i bambini di questi racconti cercano, di quell’empatia
che manca o che si realizza in maniera sempre un po’ distorta, non naturale.
Su
diverse delle storie di Un angelo
migliore aleggia lo spettro dell’undici settembre, forse perché il Grande
Dolore che abbiamo vissuto quel giorno può rappresentare in qualche misura il
corrispettivo emotivo del grande dolore che si trovano ad affrontare i bambini che
si trovano al cospetto della malattia e della morte.
Tra
i racconti che compongono questa raccolta vorrei citare il primo (A folle velocità), che mi è sembrato “il
racconto perfetto”: salingeriano per certi versi (il bambino-genio a disagio
nel mondo, la caratterizzazione dei personaggi attraverso il linguaggio…) e di
una precisione formale che mi ha fatto pensare a Charles D’Ambrosio. Notevoli
anche Pugnalate e Il bambino scambiato (dagermaniani) e Un angelo migliore (un racconto dalle
parti del realismo magico).
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sabato 19 dicembre 2015
Stanisław Lem – Solaris
“Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di
specchi.”
Sorprendente romanzo, di
fantascienza nella forma, ma che mescola, psicologia, filosofia, metafisica e gnoseologia.
Solaris è un pianeta ai limiti dell’universo,
con il quale si trovano a fare i conti gli ospiti di una navicella spaziale.
Pianeta un po’ particolare però, perché dotato di vita ma la cui popolazione è rappresentata
da un unico abitante, un oceano che occupa l’intera superficie del corpo celeste
e interagisce gli astronauti dando realtà ai loro fantasmi.
I protagonisti della storia
sono così chiamati ad un doppio confronto: da un lato con un tipo di vita
intelligente diversa dalla nostra, qualcosa che non conosciamo e che travalica
le nostre capacità di comprensione perché vive secondo regole e leggi davanti
alle quali la logica e la scienza sembrano strumenti spuntati, dall'altro
devono confrontarsi con se stessi, con un passato e un vissuto che credevano morto
e sepolto e che ora torna in vita e non può essere eluso.
Solaris
è un
viaggio intorno ai limiti della conoscenza umana, un libro sull'impossibilità
di spiegare tutto e insieme sul bisogno di provare a farlo, un grande romanzo
su quel mediocre impasto di cuore e cervello che è l’uomo e sul suo bagaglio fatto
di poco sapere e tanta sicumera con cui va alla conquista del cosmo.
sabato 12 dicembre 2015
Dave Eggers – I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?
Un grande futuro dietro le
spalle?
Alle volte ho l'impressione
che la facilità di scrittura di certi autori (nordamericani, soprattutto)
rappresenti più un freno che uno stimolo a fare di più.
Eggers è uno scrittore
originale e curioso, che in questo libro ha deciso di fare il punto della
situazione: dove siamo, perché non siamo arrivati dove volevamo, cosa è andato
storto? Roba grossa, materiale su cui si potrebbe riflettere a lungo, con la
certezza di approdare a risposte sostenute da argomentazioni solide ma che
probabilmente finirebbero per andare in direzioni diverse. Nulla di male, la
complessità dell’argomento è tanta manna per uno scrittore che nell’abbondanza è
libero di scegliere dove intingere la penna e dove sorvolare; questo non è un
saggio ma un’opera narrativa, qui non ci interessa tanto la teoria o la
costruzione di modelli quanto il ragionamento, il percorso, lo sviluppo della
trama e dei personaggi.
Ottimo l’argomento quindi, e
ottima ed originale anche la scelta della forma. I vostri padri è un romanzo fatto di soli dialoghi, Thomas, il
protagonista, vuole delle risposte dalla società, dagli altri, e per averle non
esita a rapire diverse persone per costringerle a parlare con lui, per capire
perché ad un certo punto della sua vita si è guardato intorno e non ha trovato
più nessuno. Lui ha sempre creduto in quello che gli raccontavano, nelle spiegazioni,
nelle motivazioni e nelle promesse che via via gli sono state proposte… e
allora perché si è ritrovato da solo? Perché gli altri non sono più accanto a
lui? Perché non fanno quello che dicono? Cosa ne è stato, per riassumerla in
una frase, del sogno americano?
«Ho qui un
astronauta che ha fatto tutto quello che gli era stato detto di fare e questo
non l’ha portato da nessuna parte. È solo un esempio. Arriva al massimo nel suo
campo e gli rifilano un calcio in culo. Dall’altra parte della scala c’è Don,
che voleva essere lasciato in pace, che era confuso, e il prezzo per essere una
persona confusa in questo mondo sono diciassette pallottole ricevute nel
giardino di casa tua.»
Il problema, secondo me, è
che l’autore dispone molto bene le carte sul tavolo ma poi non sviluppa il
gioco, si accontenta di quello che ha abbozzato senza voler andare oltre. Peccato,
perché Thomas è un personaggio interessante, con un sacco di sfaccettature che
avrebbero meritato di essere approfondite; potenzialmente vedo il lui l’antieroe
del romanzo del nuovo millennio (ok, magari esagero un po’…), eppure Eggers sembra
non accorgersene o non essere interessato alla possibilità di scrivere il grande
romanzo. Si ferma sulla soglia, e quando scrive:
“Etichettiamo
tutto alla velocità della luce, senza appello, tanto che non troviamo più
spazio per le sfumature”
ecco, ho l’impressione che
in questo libro lui abbia fatto lo stesso.
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