sabato 19 marzo 2016

Angelo Calvisi – Adieu mon coeur

 


l'amor che move il sole e l’altre stelle



La cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani” (E. Hemingway).

“Sono contrario a tutti i trucchi che richiamano l’attenzione su se stessi, mostrando lo sforzo dello scrittore di risultare ingegnoso, o semplicemente poco diretto” (R. Carver).

Partiamo da qui, e diciamo subito che Calvisi è un autore che soddisfa entrambi i criteri esposti. Certo, stiamo parlando di uno scrittore di nicchia (in questo momento su anobii Adieu mon coeur conta otto lettori e diciotto sono quelli di Un mucchio di giorni così), che non infarcisce le storie di colori e aggettivi alla maniera sudamericana, che non frequenta i territori del minimalismo estremo o del postmodernismo spinto (per non dire del meta-letterario così di moda) di certa narrativa statunitense  e che, soprattutto, è immune dal narcisismo di tanti librivendoli italiani (di quelli, per intenderci, che ammiccano compiaciuti dalle quarte di copertina).

Calvisi è un artigiano, uno che costruisce storie per passione, senza seguire modelli stereotipati, senza la ricerca dei colpi a effetto o del lieto fine per forza, e Adieu mon coeur è una di queste storie. La storia di Paolo: bambino, adolescente e poi musicista di successo, eppure mai felice, mai realizzato veramente. La storia di una famiglia che va in frantumi, di amicizie che cambiano nel corso degli anni, di un amore (quello per Michela) vagheggiato, svanito, rincorso, sfiorato e poi perso definitivamente. Una storia che si dipana sul filo della nostalgia, con il rischio di cadere nei luoghi comuni che è sempre dietro l’angolo e che l’autore riesce a scansare mantenendosi nel territorio di una narrazione onesta, evitando facili strizzate d’occhio al lettore.

Adieu mon coeur è un romanzo che ci parla della vita, di come vorremmo che andassero le cose e di come vanno nella realtà, di quello che riusciamo a raggiungere e di quello che invece ci sfugge, di quello che aspiriamo ad essere e di quello che siamo, di quello che passa e non può tornare. Ci parla, soprattutto, di amore, di quello vero, che quando arriva è peggio di un terremoto che finisce per stravolgerci l’esistenza senza neppure chiedere permesso, di quell’amore che è come una condanna, che ci sceglie e non si fa scegliere e che non ha bisogno di realizzarsi per continuare a vivere.

“La parola chiave è armonia, scrive ad un certo punto Calvisi. Già, armonia intesa però non come conquista ma come una meta che rimane sempre un po’ più in là, aspirazione, obiettivo da perseguire anche sapendo che non lo si raggiungerà mai. Proprio come l’amore di Paolo per Michela.


sabato 12 marzo 2016

Mircea Cărtărescu . Travesti


Romanzo del 1994 che riprende, ampliandolo, un tema già trattato ne I gemelli, uno dei racconti presenti in Nostalgia (1993), e che presenta in nuce anche diverse delle tematiche proprie della poetica Cărtărescuana.
La trama è costituita dal lungo monologo di Victor, scrittore che si rifugia in una baita i montagna per trovare l’ispirazione necessaria a scrivere il suo libro, ma si ritrova a fare i conti con un ricordo della gioventù (un amico travestito da ragazza) dal quale non riesce a liberarsi e del quale cerca di esplorare il significato.
“Sai, Victor, che la mia solitudine ha sulla sua pelle bianca un ascesso e che questo ascesso si chiama Lulu? Sai che sono venuto qua per ricordarmi la pelle di quella ragazza che in me ha sempre trovato un oscuro riparo in cui poter cullare la sua bambola e che più giù, nel punto in cui l’orlo dell’abito tocca la pelle dolce e trasparente del polpaccio, ho trovato ora un ascesso miserabile che si chiama Lulu.”
Tra ricordi e sogni, alternando il punto di vista di Victor-scrittore a quello di Victor-ragazzo, Cărtărescu sviluppa un racconto che contiene, come detto, aspetti che verranno ampliati nelle opere più mature (penso, ovviamente, alla trilogia di Abbacinante): la solitudine (come una corda tesa sulla follia incombente), il tema del doppio, la scrittura come strumento salvifico e di tortura (anche qui il doppio), l’aspirazione a realizzare il romanzo totale, onnicomprensivo, contenente tutte le domande e tutte le risposte, l’adolescenza vissuta da escluso rispetto agli altri, intesa come età dell’infelicità e di preparazione per il progetto futuro, sogno e realtà che finiscono per sfumare l’uno nell’altra e per confondersi e soprattutto la sfrenata immaginazione (vero marchio di fabbrica dell’autore rumeno), capace di creare vortici di parole che danno vita a universi paralleli nei quali uomo e ragno finiscono per compenetrarsi e dare origine a qualcosa di diverso, avvitandosi in spirali vertiginose che salgono a folle velocità verso il cielo in cerca di una via d’uscita dall’esistenza, in cerca di una porta che non esiste che metta in comunicazione tutti i mondi possibili (e impossibili).



Per stile e contenuto Travesti non mi è sembrato ancora al livello di Abbacinante. A volte troppo descrittivo, con qualche difficoltà nel gestire la quantità e qualità del materiale messo in campo, risulta comunque romanzo utile a chi voglia iniziare la lettura dell’autore rumeno, forse prescindibile per chi ha già conosciuto il “caleidoscopio psichedelico” di Abbacinante, ma sicuramente interessante per apprezzare le fasi della crescita del progetto Cărtărescuano.

domenica 6 marzo 2016

Mircea Cărtărescu - Una motocicletta parcheggiata sotto le stelle


sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle,
accanto alla vetrina di un negozio che ripara televisiori.
dall’andito viene uno spiffero notevole. sono pallida, emaciata.
nel negozio hanno lasciato una luce accesa, sicché un paio di tubi catodici
vasi d’asparago e di cactus, scaffali di lamiera stipati di carcasse di televisiori, cassette AFGA e cavi
luccicano confusamente, popolano la mia solitudine.
mi sento sola infatti.
nel mio specchietto retrovisore pullulano le galassie,
svaporano le stelle in sciamature sferoidali,
trasmettono il proprio ansimare le radiosorgenti
allontanandosi tutte in velocità, come dei criminali dal luogo del delitto che si lasciano dietro una traccia d sangue.

che silenzio. talvolta mi chiedo

cosa potrà significare fare all’amore. loro parlano
infatti solo di questo. ogni sabato m’inforcano
e mi spingono sulle strade. vedo le colline, le nuvole, il sole
le gocce di pioggia, gli alberi che si aggrovigliano nell’arcobaleno…
ah , i cilindri battono in me all’impazzata. allora sento veramente di vivere.
loro entrano in un motel e fanno all’amore.
loro sono i Padroni e si sentono liberi.
ma come può essere qualcuno libro quando è fatto di cellule?
...e torno di nuovo nell’andito, accanto a una polverosa vettura dacia.
ho sete d’amore. se potessi amare almeno uno spinotto con prolunga di questa vetrina.
lascerei scivolare le mie dita sulla sua pelle di plastica bianca, se lo volesse
e se avessi delle dita. se potessi vivere
almeno nel campo bioelettrico del cactus…
presto, ben presto morirò, e non avrò fatto nulla in questo mondo, mi getteranno tra i ferri vecchi
mi spaccheranno il fanale e la lampadina bruciata mi rimarrà sospesa a due fili di rame.
per tutta la vita ho aiutato gli altri a fare all’amore
e io morirò in mezzo a bobine, magneti e cardi.

sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle.

domattina m’inforcheranno di nuovo, mi torceranno il manubrio, mi metteranno in moto
e rieccomi sull’asfalto variegato, fra le colline rossicce, fra i monti azzurri,
fra gli avvallamenti percorsi da fiumi
superare i passaggi a livello, attraversare luminose cittadine di provincia
marciando controvento fra sprazzi di pioggia e gas di scappamento,
divorando chilometri.
vorrà significare questo fare all’amore?
come che sia, questa è la mia consolazione, il mio mestiere, è il mio amore.
per questo merita essere soli.

[Mircea Cărtărescu "Poema dell'acquaio"]

domenica 28 febbraio 2016

E.L. Doctorow – La coscienza di Andrew


di cervello, coscienza e anima



Romanzo breve, complesso e spiazzante. Un lungo dialogo tra Andrew, scienziato cognitivo, e Doc, uno psicanalista forse, perché l’identità dell’interlocutore del protagonista non è precisata. Dalla prima alla terza persona, dal presente al passato, dal reale all’immaginato, dal dialogo al monologo, il tutto ambientato in uno spazio che l’autore non si cura di definire, lasciandolo alla nostra immaginazione.

La storia di un uomo bersagliato dal destino ma anche complice del destino, almeno per alcune delle sventure accadutegli, e che prova a guardarsi indietro manifestando indifferenza (“affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene e nel male”). La morte della figlia, il divorzio dalla moglie e poi un nuovo amore: la speranza di un riscatto, della possibilità di riemergere dal buio nel quale era finito… e di nuovo il destino a negargli questa chance.

Andrew si dichiara un impostore e allarga la definizione a comprendere anche Doc e tutti noi

“Siamo tutti impostori, dottore, anche tu. Specialmente tu. Perché sorridi? Fingere è il pane quotidiano del cervello. È quello che fa. Riesce perfino a fingere di non essere se stesso. Ah sì? E che cosa sa fingere di essere, tanto per fare un esempio? Be’, per lunghissimo tempo, e fino all’altro ieri, l’anima.”

Già, cervello, coscienza, anima. Dove sono i confini, quali le sfere di competenza? Cosa governa cosa? La strada che percorriamo è un andare per tentativi, l’esplorazione di territori ai confini delle nostre possibilità, assecondando la voglia di sapere e poi rilanciando con interrogativi nuovi. Cos’è la felicità (se esiste)? Cosa succede a scrutare dentro se stessi? Come si deve vivere? Ma soprattutto: quanto dobbiamo fidarci del cervello? Perché

“(l’anima) è la finzione del cervello. Dobbiamo andarci cauti con i nostri cervelli. Prendono le decisioni prima di noi. Ci conducono all’acqua ferma. Rinunziano al libero arbitrio. E la cosa è ancora più bizzarra: se tagliate un cervello a metà, emisfero sinistro ed emisfero destro continueranno a funzionare autonomamente senza sapere l’uno cosa fa l’altro. Ma non state a pensarci, tanto non siete voi a pensare. Limitatevi a seguire la vostra stella. A vivere dando per scontata la vita costruita socialmente. Abolite la scienza. Credete più o meno in Dio. Dimenticativi gli errori commessi. Offrite la vostra giustificazione allo specchio del bagno.”

Questioni destinate a rimanere aperte, domande per le quali non esistono risposte certe. La ricerca di una spiegazione onnicomprensiva va, fatalmente, a sbattere contro una realtà frammentaria, fatta di troppe cose, proprio come il gabbiano che ad un certo punto della narrazione si schianta contro il vetro di una finestra.

E allora? Come uscire da questo impasse? Con un coup de théâtre, ad esempio, come una verticale eseguita dal protagonista nello Studio Ovale della Casa Bianca, davanti al Presidente ed al suo staff allibito. Un “infinite jest” che segna una svolta, forse una resa, sicuramente un punto di non ritorno: da “Grande Impostore” a “Pazzo Santo”, un modo per difendersi, proprio come

“Le sciocchezzuole inventate da Twain accanto al letto delle sue figlie. Che lui le protegge, e che il mondo è un posto sicuro e confortevole adesso che devono fare la nanna. Che quando saranno grandi si ricorderanno di questa favola e rideranno d’amore per il loro padre. Che questo è il suo riscatto.”




sabato 20 febbraio 2016

Antonio Di Benedetto – L’uomo del silenzio




“Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo so.”



La storia di un’ossessione, quella dell’uomo senza nome protagonista del romanzo per il rumore, rumore che fa il suo ingresso in scena già alla seconda riga (Apro il cancello e trovo il rumore) e che viene presentato come qualcosa di concreto più che entità astratta (lo cerco con lo sguardo, quasi fosse possibile determinare la sua forma e il limite della sua vitalità).

All’inizio è solo un disturbo, frastuono che proviene dalla strada e si limita ad infastidire il protagonista quando è in casa, ma nel corso della storia si dilaterà a dismisura fino a diventare ingovernabile, monomania in grado di fare da innesco per l’esplosione di quel malessere che il giovane non riesce più a comprimere dentro di sé.

Un uomo solo, che frequenta un strano e contorto amico di nome Besarion, con il quale non riesce ad avere un rapporto confidenziale ma solo conversazioni superficiali, ed è invaghito di una ragazza, Leila, una vicina di casa alla quale non riuscirà mai a dichiarare i suoi sentimenti, finendo poi per sposarne l’amica, Nina, più per indolenza che per amore (Sposerò Nina. È la cosa più facile, sì, molto più facile di tutto il resto.).

Un uomo freddo, apatico, che si sorprende della considerazione qualcuno può avere per lui (“Perché mi accetta?” – chiede a Nina – “Perché lei è buono e per bene.” “Sono buono e per bene?”), e che non riesce a provare alcuna forma di empatia per gli altri.

Un uomo che vive veramente solo nella sua immaginazione, nei suoi sogni, come quello del romanzo che vorrebbe scrivere senza però iniziarlo mai, ma che se non altro gli fornisce il conforto necessario per andare avanti (forse questo è il fausto giorno in cui comincerò il mio libro. Ce l’ho quasi tutto nella testa. Mi basta sceglierne un inizio: cosa dire per primo, con cosa cominciare. Seduto allo scrittoio, ci rifletto, e le creature che ho pensato già fanno quel che devono per vivere il dramma prefissato. Ho detto loro di camminare, e camminano. Mi meraviglio della magia del mio pensiero. Reclino la testa e mi assopisco. Sono felice e questo mio riposo è meritato).

Un personaggio simile in tutto e per tutto al Bernardo Soares di possoana memoria: un sognatore, ma forse anche un immaturo, uno che preferisce la fuga al confronto, che ha paura di assumersi delle responsabilità e appena può scappa in solaio a giocare da solo con i suoi soldatini. Un uomo lacerato, come lo definisce Besarion, senza sapere cos’è che lo lacera.

Gli altri, la gente, i vicini, sono nemici, fabbricatori di rumori e di disturbo, da evitare prima e combattere poi, in un crescendo che diventa drammatico con il procedere della trama.

Perché tanto accanimento nei confronti del rumore? Perché secondo il protagonista è ciò che gli impedisce la concentrazione, ma questa è solo una scusa, una giustificazione che racconta agli altri sperando di convincere anche se stesso, perché in realtà il problema è che non sa su cosa concentrarsi: il protagonista è un guscio vuoto, senza obiettivi, ambizioni, aspirazioni. Questo è il vero dramma, il dramma dell’uomo moderno che dopo essersi calato nei labirinti della coscienza scopre di aver perso il filo che lo legava all’esterno (Besarion tenta di essere, finge di essere, pur di non essere. Non essere che cosa? Non essere chi? Se stesso. Besarion tende decisamente a non essere. E io, tendo a non essere?... no, tendo a essere. Non me lo permettono. Interferiscono, mi bloccano. Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo so, Lo intuisco appena.).

Atmosfera kafkiana per una scrittura che per il rigore e la freddezza delle frasi brevi, secche come sentenze, mi ha ricordato Lo straniero di Camus. Ma Di Benedetto è scrittore argentino e come tale non può far mancare tra le pagine quegli squarci di luce tipici della letteratura sudamericana (il sole che si prodiga sul tavolo della stanza da pranzo, il giorno che non è altro che latticello acquoso alla finestra). Leggo sulla quarta di copertina che la rivista La Nacion ha definito l’autore “uno dei segreti meglio custoditi della letteratura nazionale”: ecco, sono contento che questo segreto sia stato finalmente svelato.