mercoledì 30 marzo 2016
sabato 26 marzo 2016
Saul Bellow – Herzog
Sono contento di essere, di essere proprio come si
vuole che sia, e per tutto il tempo che potrò restarne l'inquilino.”
Semplicemente
uno dei capolavori del Novecento.
La storia di Moses
Herzog, professore universitario che colto
dal secondo divorzio proprio mentre si trova nel mezzo del cammin di nostra
vita, vede andare in frantumi gli equilibri sui quali credeva fosse basata la
sua esistenza e si trova a riflettere su cosa è successo e perché. Herzog è simile
a un naufrago che si risveglia su un’isola sperduta e vaga spaesato sulla
spiaggia, alla ricerca di oggetti, frammenti e ricordi che possano aiutarlo a ricostruire
quello che è successo e a pianificare un futuro che appare quanto mai incerto. Noi
siamo quel naufrago, noi siamo Herzog, e il fatto che dalla pubblicazione di
questo libro siano trascorsi cinquant’anni non sembra aver diradato le nebbie
nelle quali ci dibattiamo, ma sembra anzi aver ingarbugliato ancor di più la
matassa, conferendo – se possibile – più forza e attualità all’opera di Bellow.
Molto
interessante (dostoevskijano, quasi) è l’approfondimento psicologico della
figura del protagonista, che l’autore tratteggia non mancando di sottolinearne anche
le contraddizioni:
“Che tipo era? Be', per dirla con una definizione
moderna, era un narcisista; un masochista; e anacronistico. Il suo era il
quadro clinico del depressivo - non grave.”
Herzog
si definisce un invidioso, un uomo non eccessivamente competitivo, generoso e
un po’ immaturo, ambizioso ma cosciente di avere poco senso pratico (e, con
buona pace di quanto afferma Bellow, per niente anacronistico). Il nostro eroe (o
anti-eroe) è un soldato che va alla guerra consapevole che l’armamentario di cui
dispone e le istruzioni che ha ricevuto sono del tutto inadeguati, eppure non
può sottrarsi al combattimento.
L’obiettivo
che Herzog/Bellow/l’intellettuale moderno si pone è decisamente alto:
“dare una nuova visione della condizione dell'uomo
moderno, dimostrare come la vita possa essere vissuta rinnovando continuamente
il sistema di rapporti universale; abbattere l'ultimo degli errori dei
romantici sull'unicità dell'Io; correggere la vecchia ideologia faustiana
dell'Occidente e indagare sul significato sociale del Nulla.”
Per
esplicitarlo l’autore sviluppa un “romanzo di idee”: il rischio dietro l’angolo
è quello del patchwork, dell’inserimento cioè nella narrazione di una serie di riflessioni
sugli argomenti più disparati che rischiano di compromettere la coesione dell’opera.
La struttura epistolare è l’espediente escogitato da Bellow per superare brillantemente
il problema.
Cosa
rappresentano le lettere che il protagonista scrive e poi non spedisce a
personaggi di ogni genere ed epoca a proposito di filosofia, psicologia,
matrimonio, politica, etica, costume… a proposito della vita? Sicuramente un
modo di affermare delle tesi, di esporre un punto di vista. Perché non vengono
spedite? Probabilmente perché sono cose che Herzog ha bisogno di dire a se
stesso: è lui il destinatario di queste missive, è lui quello che deve
convincersi di quanto afferma. Le lettere di Herzog rappresentano un bisogno di
fare ordine, di chiarirsi almeno in parte le idee, e nel momento in cui le
scrive acquistano verità.
È
anche grazie alle lettere che Herzog riuscirà faticosamente a costruirsi una specie di equilibrio, un ordine parziale, personale
e probabilmente anche provvisorio, ma
pur sempre un ordine, che consiste in una sostanziale constatazione e
accettazione dell’ambiguità del mondo, una stabilità forse apparente ma che gli
permetterà di guardare alle cose con maggiore indulgenza:
“In tutti i modi, posso pretendere di avere una gran
scelta? Mi guardo e vedo torace, cosce, piedi - una testa. Questa strana
organizzazione, io lo so che morirà. E dentro - qualche cosa, qualche cosa,
felicità... «Tu mi muovi.» Che scelta ti lascia? Nessuna. Qualcosa produce
l'intensità, un sentimento sacro, così come gli aranci producono l'arancione,
l'erba il verde, gli uccelli calore. Certi cuori sgorgano più amore, altri,
pare, di meno. Significa qualche cosa? Ci sono quelli che dicono che questo
prodotto dei cuori è conoscenza. «Je sens mon coeur et je connais les hommes.»
Ma la sua mente si distaccò ora anche dal suo francese. Non lo potrei dire, con
sicurezza. Il mio viso troppo cieco, la mia mente troppo limitata, i miei
istinti troppo ristretti. Ma questa intensità, non significa niente? È una
gioia idiota che fa esclamare questo animale, l'animale più singolare di tutti,
che gli fa esclamare qualche cosa? E lui crede questa reazione un segno, una
prova, dell'eternità? E ce l'ha in petto? Ma non ho argomenti da contribuire a
questo proposito. «Tu mi muovi.» «Ma che cosa vuoi, Herzog?» «Ma è proprio
questo il punto - un bel niente. Sono contento di essere, di essere proprio
come si vuole che sia, e per tutto il tempo che potrò restarne l'inquilino.”
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letteratura statunitense,
letture
sabato 19 marzo 2016
Angelo Calvisi – Adieu mon coeur
l'amor che move
il sole e l’altre stelle
La cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani” (E. Hemingway).
“Sono contrario a tutti i trucchi che richiamano l’attenzione
su se stessi, mostrando lo sforzo dello scrittore di risultare ingegnoso, o
semplicemente poco diretto” (R. Carver).
Partiamo da qui,
e diciamo subito che Calvisi è un autore che soddisfa entrambi i criteri esposti.
Certo, stiamo parlando di uno scrittore di nicchia (in questo momento su anobii
Adieu mon coeur conta otto lettori e
diciotto sono quelli di Un mucchio di
giorni così), che non infarcisce le storie di colori e aggettivi alla maniera
sudamericana, che non frequenta i territori del minimalismo estremo o del
postmodernismo spinto (per non dire del meta-letterario così di moda) di certa
narrativa statunitense e che,
soprattutto, è immune dal narcisismo di tanti librivendoli italiani (di quelli,
per intenderci, che ammiccano compiaciuti dalle quarte di copertina).
Calvisi è un
artigiano, uno che costruisce storie per passione, senza seguire modelli
stereotipati, senza la ricerca dei colpi a effetto o del lieto fine per forza,
e Adieu mon coeur è una di queste
storie. La storia di Paolo: bambino, adolescente e poi musicista di successo,
eppure mai felice, mai realizzato veramente. La storia di una famiglia che va
in frantumi, di amicizie che cambiano nel corso degli anni, di un amore (quello
per Michela) vagheggiato, svanito, rincorso, sfiorato e poi perso
definitivamente. Una storia che si dipana sul filo della nostalgia, con il
rischio di cadere nei luoghi comuni che è sempre dietro l’angolo e che l’autore
riesce a scansare mantenendosi nel territorio di una narrazione onesta,
evitando facili strizzate d’occhio al lettore.
Adieu mon coeur è un romanzo che ci parla della
vita, di come vorremmo che andassero le cose e di come vanno nella realtà, di
quello che riusciamo a raggiungere e di quello che invece ci sfugge, di quello
che aspiriamo ad essere e di quello che siamo, di quello che passa e non può
tornare. Ci parla, soprattutto, di amore, di quello vero, che quando arriva è
peggio di un terremoto che finisce per stravolgerci l’esistenza senza neppure
chiedere permesso, di quell’amore che è come una condanna, che ci sceglie e non
si fa scegliere e che non ha bisogno di realizzarsi per continuare a vivere.
“La parola chiave è armonia”, scrive ad un certo punto Calvisi. Già,
armonia intesa però non come conquista ma come una meta che rimane sempre un
po’ più in là, aspirazione, obiettivo da perseguire anche sapendo che non lo si
raggiungerà mai. Proprio come l’amore di Paolo per Michela.
sabato 12 marzo 2016
Mircea Cărtărescu . Travesti
Romanzo del
1994 che riprende, ampliandolo, un tema già trattato ne I gemelli, uno dei racconti presenti in Nostalgia (1993), e che presenta in nuce anche diverse delle
tematiche proprie della poetica Cărtărescuana.
La trama è
costituita dal lungo monologo di Victor, scrittore che si rifugia in una baita
i montagna per trovare l’ispirazione necessaria a scrivere il suo libro, ma si
ritrova a fare i conti con un ricordo della gioventù (un amico travestito da
ragazza) dal quale non riesce a liberarsi e del quale cerca di esplorare il
significato.
“Sai, Victor, che la mia solitudine ha sulla sua
pelle bianca un ascesso e che questo ascesso si chiama Lulu? Sai che sono
venuto qua per ricordarmi la pelle di quella ragazza che in me ha sempre
trovato un oscuro riparo in cui poter cullare la sua bambola e che più giù, nel
punto in cui l’orlo dell’abito tocca la pelle dolce e trasparente del
polpaccio, ho trovato ora un ascesso miserabile che si chiama Lulu.”
Tra ricordi e
sogni, alternando il punto di vista di Victor-scrittore a quello di
Victor-ragazzo, Cărtărescu sviluppa un racconto che contiene, come detto,
aspetti che verranno ampliati nelle opere più mature (penso, ovviamente, alla
trilogia di Abbacinante): la
solitudine (come una corda tesa sulla follia incombente), il tema del doppio,
la scrittura come strumento salvifico e di tortura (anche qui il doppio),
l’aspirazione a realizzare il romanzo totale, onnicomprensivo, contenente tutte
le domande e tutte le risposte, l’adolescenza vissuta da escluso rispetto agli
altri, intesa come età dell’infelicità e di preparazione per il progetto
futuro, sogno e realtà che finiscono per sfumare l’uno nell’altra e per
confondersi e soprattutto la sfrenata immaginazione (vero marchio di fabbrica
dell’autore rumeno), capace di creare vortici di parole che danno vita a universi
paralleli nei quali uomo e ragno finiscono per compenetrarsi e dare origine a
qualcosa di diverso, avvitandosi in spirali vertiginose che salgono a folle
velocità verso il cielo in cerca di una via d’uscita dall’esistenza, in cerca
di una porta che non esiste che metta in comunicazione tutti i mondi possibili
(e impossibili).
Per stile e
contenuto Travesti non mi è sembrato
ancora al livello di Abbacinante. A
volte troppo descrittivo, con qualche difficoltà nel gestire la quantità e
qualità del materiale messo in campo, risulta comunque romanzo utile a chi
voglia iniziare la lettura dell’autore rumeno, forse prescindibile per chi ha
già conosciuto il “caleidoscopio psichedelico” di Abbacinante, ma sicuramente interessante per apprezzare le fasi
della crescita del progetto Cărtărescuano.
domenica 6 marzo 2016
Mircea Cărtărescu - Una motocicletta parcheggiata sotto le stelle
sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle,
accanto alla vetrina di un negozio che ripara televisiori.
dall’andito viene uno spiffero notevole. sono pallida, emaciata.
nel negozio hanno lasciato una luce accesa, sicché un paio di tubi catodici
vasi d’asparago e di cactus, scaffali di lamiera stipati di carcasse di televisiori, cassette AFGA e cavi
luccicano confusamente, popolano la mia solitudine.
mi sento sola infatti.
nel mio specchietto retrovisore pullulano le galassie,
svaporano le stelle in sciamature sferoidali,
trasmettono il proprio ansimare le radiosorgenti
allontanandosi tutte in velocità, come dei criminali dal luogo del delitto che si lasciano dietro una traccia d sangue.
che silenzio. talvolta mi chiedo
cosa potrà significare fare all’amore. loro parlano
infatti solo di questo. ogni sabato m’inforcano
e mi spingono sulle strade. vedo le colline, le nuvole, il sole
le gocce di pioggia, gli alberi che si aggrovigliano nell’arcobaleno…
ah , i cilindri battono in me all’impazzata. allora sento veramente di vivere.
loro entrano in un motel e fanno all’amore.
loro sono i Padroni e si sentono liberi.
ma come può essere qualcuno libro quando è fatto di cellule?
...e torno di nuovo nell’andito, accanto a una polverosa vettura dacia.
ho sete d’amore. se potessi amare almeno uno spinotto con prolunga di questa vetrina.
lascerei scivolare le mie dita sulla sua pelle di plastica bianca, se lo volesse
e se avessi delle dita. se potessi vivere
almeno nel campo bioelettrico del cactus…
presto, ben presto morirò, e non avrò fatto nulla in questo mondo, mi getteranno tra i ferri vecchi
mi spaccheranno il fanale e la lampadina bruciata mi rimarrà sospesa a due fili di rame.
per tutta la vita ho aiutato gli altri a fare all’amore
e io morirò in mezzo a bobine, magneti e cardi.
sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle.
domattina m’inforcheranno di nuovo, mi torceranno il manubrio, mi metteranno in moto
e rieccomi sull’asfalto variegato, fra le colline rossicce, fra i monti azzurri,
fra gli avvallamenti percorsi da fiumi
superare i passaggi a livello, attraversare luminose cittadine di provincia
marciando controvento fra sprazzi di pioggia e gas di scappamento,
divorando chilometri.
vorrà significare questo fare all’amore?
come che sia, questa è la mia consolazione, il mio mestiere, è il mio amore.
per questo merita essere soli.
[Mircea Cărtărescu "Poema dell'acquaio"]
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