domenica 22 maggio 2016

Saremmo stati in grado di dominare tutto quel silenzio?

“Che cosa eravamo noi, spersi laggiù? Saremmo stati in grado di dominare tutto quel silenzio o sarebbe stato lui a dominare noi? Mi resi conto della grandezza, della terribile grandezza di quella cosa che non poteva parlare e forse neppure udire. Che cosa c’era là dentro?”

“Viviamo, così come sogniamo – da soli…”

“In fondo, laggiù che cosa c’era? Gioia, paura, sofferenza, devozione, coraggio, rabbia – chi lo sa? – ma qualcosa di vero – la verità spogliata dal velo del tempo.”

“Non potete capire. Come potreste? Con i vostri solidi pavimenti sotto i piedi, con il sostegno dei vostri cari vicini pronti a incoraggiarvi o a saltarvi addosso, muovendo passi leggeri tra il macellaio e il poliziotto, con il sacro terrore di uno scandalo, della forca e del manicomio – come potete immaginare in quale particolare regione primordiale i piedi di un uomo privo di vincoli possano condurlo a forza di solitudine – una solitudine totale, senza neppure un poliziotto – sulla via del silenzio – un silenzio totale – senza neppure la voce ammonitrice di un vicino premuroso a sussurrarvi il punto di vista della gente? Sono queste cosette che fanno tutta la differenza. Quando non ci sono più, non rimane che contare sulla propria forza innata, sulla propria tendenza alla fedeltà.”

“quella terra selvaggia l’aveva stanato presto e si era presa su di lui una tremenda vendetta per quella bizzarra invasione. Penso che gli avesse sussurrato all’orecchio cose di se stesso che lui ignorava, cose che non era neppure in grado di concepire prima di confrontarsi con quella grande solitudine – e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. Aveva riecheggiato forte dentro di lui perché era vuoto, nel profondo…”

“Com’è buffa la vita – questa misteriosa disposizione di una logica spietata per uno scopo tanto futile. Il massimo che ci si possa aspettare è una certa conoscenza di se stessi – che arriva troppo tardi – una raccolta di rimpianti inestinguibili.”

[Joseph Conrad: "Cuore di tenebra"]


sabato 14 maggio 2016

Kent Haruf – Benedizione

La malattia e la morte di un anziano nella cittadina (immaginaria) di Holt, vicino Denver. Una storia minima che si allarga pian piano come i cerchi di un sasso gettato in uno stagno: la famiglia, i vicini, i parenti dei vicini. Storie di solitudini, di occasioni perse, di rapporti umani difficili, di caratteri chiusi, di vicende del passato che tornano a galla.
C’è la superficie, costituita da una comunità che si aiuta e collabora nelle piccole cose del quotidiano, e un sommerso, fatto da quello che è successo o che avrebbe potuto succedere, episodi che hanno segnato la vita dei personaggi, ferite che continuano a far male e che hanno reso le persone più dure o più fragili, comunque diverse da prima.
Uomini e, soprattutto, donne, ai quali manca qualcosa: si sono accontentati, o avrebbero voluto farlo. Persone che sembrano aver perso l’occasione, il momento giusto per la felicità. Già, la felicità, che ora identificano con la normalità, una normalità che non hanno mai avuto o che hanno perso e sentono di non poter più raggiungere.

Il limite di Benedizione, a mio avviso, è nell’architettura un po’ troppo “rigida” del romanzo: i brevi capitoli sono concepiti quasi come un racconto a sé (per certi versi come in Winesburg, Ohio) e costruiti ognuno attorno ad un personaggio del quale viene esposto, con prosa scarna ed essenziale, un episodio della vita attraverso un’alternanza di dialoghi, descrizioni d’ambiente e riflessioni che si ripetono forse un po’ troppo schematicamente.

mercoledì 11 maggio 2016

L'inganno delle parole: A. Moresco

 
Cominciano sempre così, in un primo momento, le parole...” mi dicevo andando verso la chiesa “quando una è partita non si ferma più. L’aria acquista una certa quantità di moto, non può fare altro che continuare ad andare, ad avanzare, anche quando ormai la sua forza motrice non agisce più. Attira a sé altre parole, altri suoni che non può non incontrare sulla sua strada, altri ancora ne comincia a suscitare, e questi a loro volta ne suscitano altri e altri ancora... si espande sempre di più, solleva cartacce, ramazza dappertutto onde sonore, ingloba piccoli e grandi trasferimenti d’energia, spostandosi da un punto all’altro dello spazio, interi fronti vocali cominciano a scollarsi, non si capisce neanche più se è trascinante oppure trascinata, le sue pareti dilagano irresistibilmente, formano in un istante le necessarie connessioni, mentre la sua forza centrifuga aumenta ancora di più, smotta su altri piani che a loro volta smottano, le sue superfici cominciano a scottare, attira a sé colonie sonore sterminate, si raccoglie a valanga su se stessa, rotola sempre più irradiata e irradiante, sradica, strappa, e alla fine non può che assumere poco per volta l’inconfondibile aspetto di una grande sfera di fuoco che rovina...”

Sentivo le parole andare e venire rallentate eppure tutte attaccate. “Come fare a staccarle?” pensavo confusamente nel dormiveglia. “Ed è poi veramente possibile staccarle? Precedendo di molto la parola già pronunciata, forse, la prima parola mai pronunciata, oppure trattenendo così a lungo quella ancora da pronunciare che tutte le altre non possano che staccarsi e sgranarsi per forza nella loro corsa...”

domenica 8 maggio 2016

Witold Gombrowicz – Pornografia


“La bellezza stava tutta dall’altra parte, dalla parte dei giovani”

Le cose sono come ci appaiono. Guardando le interpreto, le faccio mie trasfigurandole. Questo, a grandi linee, è il pensiero che Gombrowicz sviluppa in quella ideale trilogia nella quale Pornografia si pone a metà strada tra Ferdydurke e Cosmo.
Seguendo l’assunto esposto, ne consegue che ognuno di noi “vede” un suo mondo e legge ogni fatto in maniera personale, con la conseguente scomparsa dell’oggettività, di una verità condivisa. Un mondo quindi per ogni persona, ma anche due mondi che si fronteggiano: quello degli adulti e quello dei giovani, due mondi che obbediscono a regole diverse.
La gioventù è l’età delle possibilità, non esistono ancora strade tracciate ma una miriade di sentieri da esplorare. È fuoco che cova sotto la cenere, età delle contraddizioni (innocenza/malizia, per dirne una) e delle contrapposizioni (istinto contro esperienza, leggerezza contro serietà, fantasia contro certezza), ma anche crudeltà e, soprattutto, incoscienza.
La gioventù è Bellezza, rifugio che l’autore sceglie per fuggire dalla normalità della vita adulta, ed essendo mondo adulto e mondo dei giovani due sistemi non comunicanti, l’immaginazione diventa l’unico strumento possibile per provare a stabilire una forma di contatto con un universo così lontano. L’opera a cui Gombrowicz si affanna a dar vita è una costruzione tanto affascinante quanto ardita, basata su fondamenta fragilissime, che vengono messe alla prova ogni volta che l’autore aggiunge una nuova carta al castello che sta faticosamente prendendo forma. Costruzione destinata a crollare irrimediabilmente, che da sempre costruire sui sogni è un po’ come scrivere sull’acqua…

Un doppio delitto, un “delitto a specchio”, sarà la conclusione che i due protagonisti del libro partoriranno per dare una logica al complesso di situazioni che si sono venute a creare, ottenendo però il risultato di accelerare ancora di più quel processo di frammentazione della realtà che Gombrowicz inizia a tratteggiare anche dal punto di vista stilistico (penso alla scrittura sincopata, con un sacco di puntini di sospensione) e che deflagrerà definitivamente con Cosmo.

domenica 1 maggio 2016

Clarice Lispector – Legami familiari





“Il suo era l’apprendistato della pazienza, il voto dell’attesa. Dal quale forse non avrebbe più saputo liberarsi”
Ho faticato un po’ ad entrare in sintonia con i racconti della Lispector. La narrazione in terza persona, i periodi brevi che si limitano a descrivere comportamenti, gesti, parole e soprattutto la costruzione paratattica che trasporta gli avvenimenti in un eterno presente dominato da un’atmosfera di attesa e sospensione, mi attiravano sempre più dentro alla storia, sempre più avanti nella trama e contemporaneamente mi davano l’impressione che mi stessi perdendo qualcosa.
Perché c’è sempre qualcosa che si è perso, che si è rotto, nei personaggi della Lispector, qualcosa da cui discende tutto il resto.
Una raccolta che esplora - come detto nel titolo - l’universo della famiglia, le persone per quello che sono e per come interagiscono (o non interagiscono) tra loro. Mi viene in mente Felici i Felici, di Yasmina Reza: le due autrici affrontano pressappoco lo stesso argomento a cinquant’anni di distanza, anche se con una scrittura decisamente diversa, più compassionevole l’occhio della franco-iraniana,  decisamente più “crudo” il punto di vista della scrittrice (ucraino-)brasiliana.
Clarice Lispector osserva le dinamiche familiari, vite in bilico,  e ce le restituisce senza ammorbidirle, senza provare a smussare gli angoli. Questa è la vita, – sembra volerci dire – questi siamo noi. Specchiamoci e riflettiamo su quello che i nostri occhi vedono. Nessuna indulgenza, nessuna assoluzione. Solo la nuda descrizione di quello che i personaggi  provano.
È un vivere difficile, quello che si racconta nelle pagine di Legami familiari, un vivere al quale non si può sfuggire, ma solo cercare di interpretare sforzandosi di farsi meno male possibile, agendo con circospezione, stando perennemente sulla difensiva.
I personaggi della Lispector vivono soprattutto dentro se stessi, consapevoli che uscire dal guscio che si sono costruiti può rappresentare un rischio del quale non sanno calcolare la portata, accompagnati dalle “meschinità di una vita intima fatta di precauzioni”.
Sono racconti che comunicano un senso di qualcosa che incombe, che rischia di succedere da un momento all’altro. Quello che vediamo è un mare nero, con le acque ferme, ma sotto intuiamo che c’è un agitarsi di correnti, un turbinio di emozioni e sentimenti, che salgono e scendono senza raggiungere mai la superficie,  condannate a vivere compresse.
Ecco, credo che proprio questa “tensione”  sia la cifra di Legami familiari, una tensione che la Lispector dimostra di maneggiare con precisione ed efficacia, esprimendola al meglio quando descrive quell’ambivalenza affettiva dei personaggi sulla quale si è soffermata la psicanalisi.
Qualche esempio:
“Amava il mondo, amava quanto era stato creato – amava con repulsione. Così come era sempre stata affascinata dalle ostriche, con quel vago disgusto che l’approssimarsi della verità le provocava, mettendola in guardia.”
“perché quella bellezza estrema la disturbava. La disturbava? Era un rischio. Ma, no, perché un rischio?, la disturbava solamente, erano un avvertimento, ma! no, perché un avvertimento?”
“rifletté sulla crudele necessità di amare. Rifletté sulla malignità del nostro desiderio di essere felici. Rifletté sulla ferocia con la quale desideriamo giocare.”
“qualcosa di simile alla felicità, non era ancora odio, ma una volontà tormentata di odio simile a un desiderio”
Amore e odio, paura della verità, il bello che attrae e spaventa e poi tanta solitudine, anche questa cercata e fuggita al tempo stesso, ma alla quale i personaggi si votano per poter sopravvivere:
“«Sono sola al mondo! Nessuno mai mi aiuterà, nessuno mai mi vorrà bene! Sono sola al mondo!»”
“tutto quello che sentiva restava prigioniero dentro il suo petto, in quel petto che sapeva solo rassegnarsi, solo sopportare, solo chiedere perdono, che sapeva solo perdonare, che aveva imparato soltanto a possedere la dolcezza dell’infelicità, che aveva imparato solo ad amare, amare, amare. Pensò che non sarebbe mai riuscita a tradurre in azione quell’odio di cui era sempre stato fatto il suo perdono.”