Quasi un ossimoro
Una storia di donne e di legami familiari,
raccontata in prima persona da Ruth, una delle due sorelle protagoniste del
romanzo. Una prosa attenta alla scelta delle parole, precisa, ricca di descrizioni
minuziose e di descrizioni che la fanno sembrare quasi “anti-moderna”. Una
prosa carica di simboli: il buio e la luce e poi l’acqua, su tutti.
Sono i pensieri, più che i dialoghi, a
caratterizzare un racconto nel quale il tono lirico usato dalla Robinson per
narrare l’anaffettività dei personaggi, stride come gesso che graffia la
lavagna.
Le cose succedono, e pur nella loro drammaticità vivono
solo in quell’istante, perché un attimo dopo che sono passate sembra che una
coltre di polvere le ricopra:
“Questa quiete perfetta si era stabilita in casa loro dopo la morte del
padre. Quell’evento aveva sconvolto la sostanza stessa delle loro vite. Tempo,
aria e luce portarono ondate e ondate di trauma, finché tutto il trauma non si
esaurí, e tempo e spazio e luce ridivennero immobili e nulla parve piú tremare,
e nulla parve piú piegarsi. Il disastro era svanito nel nulla, come il treno
stesso, e se la calma che lo seguí non fu piú grande della calma che l’aveva
preceduto, l’impressione fu comunque quella.”
È come se l’inevitabilità della vita rendesse
superflua qualsiasi riflessione, inutile qualsiasi abbandono emotivo:
“Nel giro di un mese tutta la vita in
letargo e la decomposizione interrotta sarebbero ricominciate daccapo. Nel giro
di un mese non si sarebbe sentita in lutto”.
Questo il contesto nel quale Ruth e Lucille
crescono. Tra adulti che si sfilano più o meno volontariamente dalle loro
responsabilità (“tutta la nostra famiglia
amava mantenere le distanze. Questa era la definizione piú imparziale delle
nostre migliori qualità, e la descrizione piú gentile dei nostri peggiori
difetti”), o che quando sono presenti, come Sylvie, non sono in grado di “fare
casa” in senso classico perché “i suoi
pensieri erano sempre altrove”. Sarà proprio Sylvie a mettere in crisi il
rapporto simbiotico che lega le due sorelle, spingendole su due strada diverse:
Lucille deciderà di uscire dall’isolamento facendo un passo verso gli altri,
verso la luce e l’omologazione, verso quella sicurezza che la vita degli altri
sembrano offrirle, Ruth invece seguirà Sylvie lungo la strada buia e stretta di
chi vive senza certezze ed è consapevole della propria fragilità e che la teme
ma non abbastanza da rinunciarvi (“Credo
di non sapere cosa penso –. Questa confessione mi imbarazzò. Per me allora era
fonte sia di terrore sia di conforto il fatto di sapere che spesso sembravo
invisibile o, per meglio dire, sembravo esistere in modo minimo e incompleto.
Mi sembrava di non avere impatto sul mondo, e di avere in cambio il privilegio
di poterlo osservare a sua insaputa. Ma la mia allusione a questa sensazione di
spettrale inconsistenza suonò strana alle mie stesse orecchie e il sudore
incominciò a coprirmi tutto il corpo, dichiarandomi immediatamente colpevole di
palese corporeità”).
Come detto, la cifra di questo romanzo mi sembra
proprio lo iato tra la prosa piana de Le cure domestiche e i concetti che la
Robinson ci propone: ad un concetto di “fare casa” classico (quello inseguito
da Lucille), che rincorre affannosamente il miglioramento e la stabilità
sacrificando tutto quello che sembra non servire e soprattutto cancellando un
passato non in linea con le proprie aspettative, Ruth (/Robinson) contrappone un punto di vista decisamente anticonformista
che rifiuta il modello della sorella (“mi
sembrò che Lucille si sarebbe data da fare per sempre, pungolando, spingendo,
blandendo, come se potesse supplire alla volontà che a me mancava, per
costringermi dentro una forma decente e trascinarmi oltre le frontiere che
immettevano in quell’altro mondo, dove mi pareva che non avrei mai potuto
desiderare di entrare. Poiché mi sembrava che niente di ciò che avevo perso o
che potevo perdere potesse essere ritrovato là, o, per dirla in altro modo, mi
sembrava che qualcosa di quello che avevo perso potesse essere trovato nella
casa di Sylvie”) e sceglie di non rinunciare ai ricordi, un modello di vita
che mette al centro gli individui e non le cose (emblematico, a questo
proposito, l’incendio della casa prima di abbandonare la città). Andare contro
il comune sentire non è una scelta semplice, è un procedere rischioso, sempre in bilico sopra ad un filo, con il rischio di
cadere da un momento all’altro, concetto che la Robinson rende meravigliosamente
con la metafora dell’acqua, quella del fiume in cui era precipitato il treno
del nonno prima e nel quale si era gettata la madre delle due sorelle dopo,
fiume che Sylvie e Ruth sfideranno passando sulla ferrovia che lo sovrasta,
correndo il rischio di cadere a loro volta per poter essere libere di “fare
casa” da un’altra parte.