sabato 18 agosto 2018

Tom McCarthy – Déjà-vu



Circoletto rosso

Reminder (questo è il titolo originale dell’opera) come ricordo ma anche come residuo, rimanenza.
Il libro racconta la storia di un uomo colpito da un oggetto non precisato che gli ha provocato la perdita della memoria e che lo ha costretto a reimparare i movimenti, a capire il significato di ogni singolo gesto prima di poterlo, lentamente, mettere in atto. Un risarcimento multimilionario e il déjà-vu di un momento del passato (o forse inesistente) saranno la molla che porterà il protagonista a cercare di rivivere quel momento specifico e più in generale tutti quelli in grado di farlo sentire vivo e sereno inscenando delle rappresentazioni il più accurate possibili. Il risultato sarà però quello di trascinare l’uomo in un gorgo mortale, una coazione a ripetere fatta di continue limature, di gesti rallentati all’infinito alla ricerca di una perfezione impossibile da raggiungere perché l’asticella delle sue ambizioni si alzerà ogni volta di una tacca, rilanciando la sfida a se stesso fino a precipitarlo in un loop senza via d’uscita.

Déjà-vu è un’opera sorprendente, una scatola magica che una volta aperta esplode contenuti, idee e suggestioni in ogni direzione. C’è il tema della memoria, intesa come unico luogo dove l’uomo riesce a essere autentico, ma c’è anche il suo contraltare, quei falsi ricordi che stanno lì a ricordarci quanto la memoria a volte possa essere fallace. Il tema della memoria è inevitabilmente un chiaro richiamo a Proust ma quella che ne fa McCarthy è una rilettura attualizzata perché qui non c’è solo l’interiorizzazione del ricordo ma anche tentativo di portarlo fuori, di inserirlo nelle realtà. C’è poi il tema del denaro, come serpente tentatore che si insinua nelle nostre vite e le cambia. C’è il solipsismo, l’incapacità a vivere con gli altri, l’uso degli altri per perseguire la propria felicità. C’è la ricerca della spontaneità, la consapevolezza che siamo tuti attori che recitano una parte (viviamo per recitare e recitiamo per vivere). Ci sono riflessioni sul tempo che l’uomo cerca di manovrare, manomettere, rallentare per diventarne il dominus, con risultati disastrosi. Ci sono riflessioni sull’arte (con un accenno michelangiolesco allo  sbarazzarsi della materia in eccesso). C’è il tema dell’inganno delle parole, che possono significare altro da quello che sembrano (come reminder), parole che rappresentano un terreno minato perché, analogamente al ricordo, se ripetute all’infinito si trasformano in qualcosa di diverso. E c’è, appunto, l’infinito, simboleggiato dal numero otto che si ripete dall’inizio alla fine del libro, il simbolo della ricerca di assoluto, di una perfezione irraggiungibile che porta l’uomo che tenta di trascendere il limite a precipitare nell’abisso.
Déjà-vu  è un’opera vertiginosa e Tom McCarthy è l’avanguardia. Circoletto rosso su questo nome.

domenica 5 agosto 2018

Antoine Volodine – Gli animali che amiamo




Non sei tu, sono io…

Sbaglierò, sicuramente sono io a non aver compreso il valore dell’opera, il suo intento, il disegno che c’è dietro e le intenzioni dell’autore… ma questo libro proprio non mi è piaciuto.
Peccato perché la copertina è bella, il progetto grafico accattivante ma l’impressione è che alla fine il pacchetto sia migliore del contenuto, che Volodine sia rimasto prigioniero della sua creatura e che a forza di teorizzare sul post-esotismo si sia dimenticato per strada la trama o non l’abbia supportata a sufficienza.
Ma chi sono io per criticare l’autore di Angeli minori e di Terminus radioso, uno che è pubblicato da Gallimard e che ha vinto il Prix Médicis nel 2014? Nessuno, proprio nessuno. E allora, scusa tanto Volodine se non ho capito questo libro. Non sei tu, sono io.

mercoledì 1 agosto 2018

Assonanze

 L’onda


Blandisce,
forse lenisce.
Poi scivola  
lieve.
Lascia una scia
ed esce di scena


[Xenia Dubinina: "Assonanze"]

sabato 28 luglio 2018

Clemens Meyer - Eravamo dei grandissimi



  
“Era l’epoca dei grandi incontri, e lui li aveva persi tutti.”

Formidabili quegli anni. Gli anni del crollo del Muro e della fine della DDR, anni in cui dall’altra parte finalmente si iniziava a sentire il profumo della libertà, anni carichi di euforia e possibilità, quando tutto sembrava fosse a portata di mano.
Formidabili quegli anni. Già, andatelo a dire a Dani, a Rico, a Walter, a Mark e agli altri personaggi del libro di Clemens Meyer… probabile che ne usciate come minimo con una bella frattura del naso. Figa, se quelli erano dei grandissimi! Eroi di un’epica moderna, nella quale gli adulti hanno abdicato al loro ruolo e recitano un ruolo da comprimari.
Le storie di Dani, Rico, Walter, Mark e degli altri sono le storie di un gruppo di ragazzi che si potrebbe sbrigativamente etichettare come “difficili”, mentre difficili erano il tempo che si trovavano a vivere e i contesti familiare (pressoché assente) e sociale nei quali crescevano. Cosa poteva rappresentare per ragazzi come questi il passaggio dall’Est all’Ovest? Forse solo il passaggio dall’alcool alla droga, altro che euforia e possibilità…
Eravamo dei grandissimi racconta storie minori sullo sfondo della Grande Storia, nessun intento moralistico o pedagogico da parte di uno scrittore che quegli anni li ha vissuti sulla propria pelle. Capitoli che potrebbero essere ognuno un racconto a parte, avvenimenti narrati senza una logica cronologica, quasi a collegare la frammentarietà della struttura del libro con la frammentarietà delle vite dei personaggi.
Il branco come succedaneo della famiglia, la violenza come protezione dell’identità del gruppo, la vitalità adolescenziale trasformata in una rabbia che non trova motivazioni vere (risuonano nella mente i perché? perché? perché? della madre di Daniel, destinati a rimanere senza risposta). Una rabbia che confina con la frustrazione, perché i protagonisti sono consapevoli di essere condannati ad una sconfitta che cercano di rinviare attraverso piccoli successi parziali, sbruffonerie, eccessi, tentativi di vivere sopra le righe il poco tempo che hanno a disposizione.
Figa, se quelli erano dei grandissimi!
Figa, se questo è un libro grandissimo!

Aggiungo che questo è uno dei pochissimi libri per i quali ho trovato il titolo italiano molto migliore di quello originale (“Quando sognavamo”).

sabato 21 luglio 2018

Bohumil Hrabal - Lezioni di ballo per anziani e progrediti



 Prisencolinensinainciusol

Gli scrittori:  ci sono i modernisti, i minimalisti, i realisti, i postmodernisti… e poi c’è Hrabal. Lui è uno scrittore a parte.
I libri di Hrabal: Una solitudine troppo rumorosa, Treni strettamente sorvegliati, Ho servito il re d’Inghilterra… e poi c’è Lezioni di ballo per anziani e progrediti, un libro a parte di uno scrittore a parte.
Uno stralunato monologo senza fiato e senza punti, un collage che mette insieme la trascrizione dei ricordi alcolici dello zio dell’autore (i Protocolli) con frammenti provenienti da un altro testo (I dolori del vecchio Werther) e altre storie ancora. Collage successivamente riveduto e corretto e dal quale sono state espunte diverse parti, tra le quali proprio quella che da il titolo al libro. Solo questo basterebbe a spiegare la bizzarria dell’opera.
Non un flusso di coscienza alla Joyce, come si potrebbe pensare, ma il tentativo di mettere su carta il parlato della gente comune, quel misto di banalità, opinioni, sbruffonerie e strafalcioni che costituiscono l’essenza della chiacchiera da bar o da strada. A questo proposito potremmo arrischiare un paragone, tanto ardito quanto irriverente, tra il lavoro di Michelangelo nello scolpire i Prigioni e quello di Hrabal nelle Lezioni di ballo: il primo procede per sottrazione, toglie marmo per liberare, per arrivare a realizzare la sua idea, lo scrittore ceco invece compie il percorso inverso procedendo per accumulazione, aggiungendo cioè personaggi e voci al coro fino a stordire il lettore.  
La storia prende le mosse dal protagonista che va a sbirciare nel giardino di un vicino dove “certe belle sventolone” sono intente a prendere il sole in costume da bagno, sventolone alle grazie delle quali non sembra immune neppure il curato del posto. Episodio minimo, ma pretesto per stappare la bottiglia dei ricordi e dei pensieri che saltano fuori con l’effervescenza di una schiuma troppo a lungo costretta al chiuso. Il protagonista, si diceva, è un settantenne, ex-calzolaio, ex-maltatore, ex soldato “dell’esercito più bello del mondo”, un tipo tronfio e dall’ego strabordante, un “adoratore del rinascimento europeo” che racconta le sue gesta con l’intento di mostrare come sia risultato “il vincitore” in ognuna delle sue imprese.
L’Austria Felix è la sua Arcadia, il mondo perduto al confronto del quale il presente è un piano inclinato verso una decadenza irreversibile; il punto di vista è quello della gente comune, che sogna in grande ma poi guarda alle piccole cose. Nei tempi attuali “gli ideali prendono a vacillare”, dice il protagonista, ma il fatto è che si tratta di ideali quanto meno discutibili…
I passaggi della narrazione sono legati tra loro da fili logici sottilissimi: a volte per analogia, a volte per contrasto, altre per semplice associazione d’idee. Difficile orientarsi in mezzo a una trama del genere, tra episodi surreali (come quelli dell’uomo con la mano di ferro e del raddrizzatore di nasi) e citazioni da libri immaginari come quello dei sogni di Anna Novakovna e quello del signor Batista sull’igiene sessuale. L’autore non risparmia nessuno e anche Cristo, Edison, i poeti Bondy e Havlíček finiscono trasformati in personaggi ordinari, che bevono e si comportano proprio come tutti gli altri.
In questo libro Hrabal diverte e si diverte, al punto che al lettore disorientato e frustrato nella sua ricerca di sottotesti e chiavi interpretative più o meno nascoste, non resterà altro che alzare bandiera bianca. Non è questa, a mio avviso, la strada per avvicinarsi a Lezioni di ballo. Provate invece ad accomodarvi in poltrona, magari in compagnia di un bel boccale di birra, e lasciatevi affascinare dal flusso affabulatorio del grande scrittore, dalle storielle di sbronze, risse, pisciate e sventolone  che agitano le pagine di questo libro e che spesso si concludono con morali improbabili. Vi assicuro che ne varrà la pena.