Bérénice
va alla guerra.
Libro strano, meno semplice di
quanto possa sembrare ad una prima lettura. Se ci si fermasse all’apparenza, ad
un’analisi superficiale del tema trattato, ad uno stile fatto di frasi brevi,
monologhi incentrati su sensazioni e sentimenti, narrazione in prima persona,
uso di forme gergali (“vaccata di una vaccata”), registro stilistico proprio
del ragazzino, sarebbe anche troppo facile rubricare quest’opera come una delle
tante che trattano il tema dell’adolescenza (ormai una vera e propria narrativa
di genere), considerare l’autore come uno dei milioni di epigoni più o meno
riusciti di Salinger e salutare nella protagonista l’ennesima “giovane Holden”
che si affaccia sul panorama letterario. Nulla di più sbagliato, perché questo
libro è altro e Bérénice, la protagonista, una figura di adolescente ribelle che
trova pochi uguali nella narrativa contemporanea.
È una bambina figlia di una coppia
disfunzionale, di due genitori che hanno deciso di dividersi la cura dei figli.
La sua educazione spetta a Einberg, il padre, che prova a crescerla secondo i
dettami dell’ebraismo, mentre quella del fratello Christian è affidata a Gatta
Morta (nomen omen), la madre, che dovrebbe instradarlo al Cristianesimo. Una
situazione sostenibile? Ovviamente no e la vita di Bérénice sarà pesantemente
influenzata dalla mancanza di amore, dalle assenze e dalle contraddizioni che
un ambiente del genere comporta.
Il rischio di finire inghiottita
da un mondo che reputa ostile la porta a inventarsene uno suo, dove vivere in
solitudine e dove organizzare le sue difese e poi passare al contrattacco. Gli
altri non servono, sono il nemico, perché è convinta che vogliano manipolarla.
E allora: offendere per non essere
offesa, inghiottire per non finire inghiottita.
Costruirsi un castello nel quale
esiliarsi non è impresa semplice, specialmente se sei una bambina di nove anni.
Non è facile imporsi un distacco dagli affetti, perché soprattutto la madre
esercita un fascino al quale è difficile sottrarsi. Eppure Bérénice lavora su se
stessa alacremente, conosce le sue debolezze e si impegna per cercare di
superarle. Usa la forza di volontà per soffocare le emozioni, sforzandosi di fabbricarsi
un’armatura di ferro, una personalità forte, un rifugio che la protegga dagli
attacchi del un mondo. Si impone di cancellare dal suo vocabolario la parola
amore per sostituirla con possesso. Amare significa essere volubili, finire in
trappola, preda di quei sentimenti che lei combatte. Il coinvolgimento è
pericoloso, “ciò che importa è volere, è avere ciò che si vuole
nell’anima”; esercitare il potere sugli
altri è “trionfare sulla loro volontà e su ciò che mi porta ad amarli”.
Di nuovo: inghiottire per non
essere inghiottita.
Bérénice va alla guerra, ma fare
guerra alle leggi di natura, sottrarsi a sentimenti e pulsioni connaturate alla
natura umana non è un’impresa da bambini e le crepe nelle sue difese si fanno
man mano evidenti: si sente brutta, si scopre a provare invidia e tristezza,
preda di passioni che era convinta di riuscire a tenere fuori dalla porta.
Prova a reagire alla debolezze coltivando l’odio, una furia cieca contro tutto
e tutti ma la sua è una lotta impari: il rifiuto di parlare e poi l’anoressia
sono i segni di un coscienza che sta
andando in frantumi. Rabbia e pietà, amore e odio, energia e rassegnazione,
indifferenza e bisogno, certezze e poi dubbi… più che artefice della sua vita, Bérénice
ne è vittima, passeggera di una giostra impazzita che gira a mille all’ora e
che sembra costantemente sul punto di scaraventarla fuori.
Il tentativo di fuga di Bérénice
dal mondo disegna una parabola destinata a trasformarsi in una discesa agli
Inferi, in una caduta negli abissi dell’Io che può concludersi solo con uno
schianto rovinoso e con la conseguente esplosione e frantumazione della sua identità. A forza di tendere quelle
corde che tengono insieme le contraddizioni di cui è fatta la sua coscienza, Bérénice
finisce per romperle, a forza di camminare pericolosamente sulla corda del
borderline, Bérénice scivola nella
psicosi, probabilmente schizofrenica.
Inghiottita è un libro duro, un atto d’accusa verso un mondo,
quello degli adulti, autoreferenziale e incapace di aprirsi a quello
affascinante e complesso dei bambini. “Se al mondo non ci fossero i bambini,
non ci sarebbe niente di bello”, sono le parole con cui Ducharme chiude questo
volume: provocatorie, probabilmente eccessive, ma vere.