sabato 20 luglio 2019

César Aira – Il marmo



Il bombarolo.
C'è un uomo seduto sopra un blocco di marmo con i pantaloni abbassati che non ricorda come mai si trova lì. E allora scrive. Per ricordare, o forse solo per "preservare la felicità del momento". Il marmo è il racconto di come quest'uomo cercherà di mettere ordine nella sua memoria, un viaggio assurdo ed imprevedibile che a partire da una serie di cianfrusaglie ricevute al posto del resto in un supermercato ci porterà dentro ad una specie di video-game, dove ogni singolo oggetto costituirà un aiuto per procedere verso un livello successivo, in un'avventura tanto strampalata quanto affascinante.
Si parte dal marmo, simbolo di solidità e quindi, per astrazione, di certezza, ma ecco che ci troviamo subito davanti ad uno scarto rispetto alla strada principale: marmo è anche "la parola che la nomina", e siamo già su un piano metanarrativo.
Inutile star qui a raccontare tutte le avventure che capiteranno in sorte al protagonista del racconto, quello che ci interessa è avvertire il lettore di non fidarsi troppo del tono semplice, colloquiale, della narrazione: Aira gioca a confondere le acque e l'understatement è solo apparente. La stessa affermazione dell'autore argentino, che in più interviste ha detto di scrivere solo una pagina al giorno e di non correggere mai quanto scritto il giorno precedente, sembra sostenere l'idea che le sue opere abbiano una trama lineare e che i suoi libri prendano forma man mano che li stiamo leggendo. In realtà le cose stanno ben diversamente. Il marmo  è molto di più di una storia divertente e dietro la maschera del gioco cela un sottotesto importante e quanto mai attuale perché questo è un libro che riflette sulla memoria e sulle sue crepe: falsi ricordi, "confabulation", confusione tra fatti e supposizioni… un attacco in piena regola al castello delle nostre certezze che si spinge fino a mettere in discussione la realtà per come la conosciamo, arrivando a definirla "una grande coincidenza".
César Aira è un bombarolo in incognito, un surrealista arrivato fino a noi con l'incarico di abbattere quei confini dentro ai quali sguazziamo felici, un 'suprematista' dell'immaginazione che si prende gioco del nostro piccolo mondo:
"Mentre saltavamo nel vuoto si è avuta la dimostrazione che il supermercato era un mezzo, non un fine. La sua realtà era indiscutibile, ma non si esauriva in sé stessa. Era soltanto la soglia di accesso ad altre realtà, funzionale a queste."



sabato 13 luglio 2019

Michail Nikolaevič Kuraev – Ronda di notte


Il buio delle notti bianche
È possibile per un ex-funzionario della polizia politica sovietica provare nostalgia per i 'bei tempi andati', intendendo con questo termine quelli del terrore staliniano? Sì, è possibile, e Ronda di notte ne è la dimostrazione. Se la cosa può urtare la suscettibilità del lettore, sappiate che il vostro fastidio sarà ancora maggiore quando scoprirete che in questo libro la narrazione dei ricordi del compagno Polubolotov si sviluppa con un registro leggero, a tratti addirittura lirico ed intriso da un'ironia sottile, come se il protagonista non avesse consapevolezza delle azioni commesse.
Quello di Kuraev è un romanzo breve, che propone un punto di vista originale e provocatorio (fin troppo provocatorio…) per raccontare il buio dell'epoca sovietica attraverso l'esistenza di un piccolo uomo senza morale. Sullo sfondo delle notti bianche leningradesi di dostoevskijana memoria, vanno in scena i ricordi del protagonista del libro che per giustificare i suoi comportamenti passati usa parole che ricalcano alla lettera quelle di qualche ex-gerarca nazista: "Questo dovevamo fare, fonderci con la nostra epoca, e questo ho fatto." E ancora: "Si dice adesso che qualcuno abbia sbagliato, posso ammetterlo, anche se personalmente non lo credo, ma che tutto il popolo abbia sbagliato, abbi pazienza!.... Un'opinione del genere nessuno potrebbe condividerla, neppure oggi."
Polubolotov era semplicemente un soldato che obbediva agli ordini, e questo gli sembra sufficiente per togliersi ogni peso dalla coscienza. Vaso di coccio tra vasi di ferro, che grazie ad un comportamento accorto ha saputo attraversare indenne la tempesta ("ho sempre avuto l'abitudine di tenere la bocca chiusa, ed è per questo che sono arrivato sin qui sano e salvo, come vedi. Non mi lamento; attraverso i vetri limpidi delle finestre osservo la città spazzata dai venti primaverili, mi sono riturato dal servizio, con medaglia e pensione… non di mia spontanea volontà, certo, però mi è sempre andata meglio che a Pil'din…").
Ccome detto Ronda di notte è un libro pervaso un'ironia sottile e da uno humor nero che a tratti riecheggiano Gogol' e anche il Vojnovic di Propaganda monumentale, ma che nonostante l'apparenza non si arrende all'inevitabilità del male: "…Ho notato che durante le notti bianche tutto il disordine della vita sembra scomparire, – dice Polubolotov – non viene a galla, si nasconde, diventa invisibile, e la pace scende sugli uomini e sulla natura… In una notte bianca persino la pioggia, il vento impetuoso e i cicloni sono rarissimi." Torniamo dunque alla bellezza che salverà il mondo? Forse, o magari la risposta che Kuraev cerca è ancora più nel profondo, nelle radici dell'anima russa, nelle ricerca di una 'pulizia interiore' alla quale sembra alludere anche l'usignolo, simbolo che ritorna spesso nelle pagine nel libro ed al quale è affidato il compito di risvegliare le coscienze.
"Perché mi piace fare il turno alla vigilia delle feste? In occasione delle feste, dopo l’inverno, si lavano tutte le vetrate, sia qui in fabbrica sia alla direzione. E le tende, non so se lo hai mai notato, non vengono rimesse a posto subito. Probabilmente le mandano in lavanderia. Fatto sta che per tre o quattro giorni le vetrate appena pulite rimangono senza tende. Non c’è nulla di più bello di una finestra ben lavata! È come se quello spazio immacolato e trasparente non si aprisse nella parete, ma dentro la tua anima! Attraverso un vetro limpido anche la vita all’esterno sembra splendere piena di gioia.
Eh sì, tu sei libero di pensarla come buoi, ma secondo me nelle notti di Leningrado c’è qualcosa di unico ed eccezionale, una specie di sogno che si spande sulla città... Il silenzio. L’impressione che non vi sia nulla di malvagio né di fosco, che il futuro sia ancora tutto da giocare, e la vita stia appena cominciando. Guarda le nuvole, leggere come carta, che si stendono sulla terra simili a fogli bianchi; siediti e scrivi la tua vita in bella copia... La notte bianca ci è offerta per meditare su ciò che stiamo facendo, su dove stiamo andando...".

sabato 6 luglio 2019

Ivan Aleksandrovič Gončarov – Una storia comune



Una storia comune è un libro sfortunato perché paga inevitabilmente il confronto con Oblomov, come Gončarov paga quello con Dostoevskij e Tolstoj.
Eppure si tratta di un libro godibilissimo: anche se a tratti può risultare manierata e priva di profondità, Una storia comune non è opera da trascurare tout court ma piuttosto da considerare con attenzione. Intorno alle figure del giovane Aleksandr Aduev e soprattutto a quella di suo zio Pjotr Ivanyč (senza trascurare Lizaveta, moglie di quest'ultimo e personaggio tutt'altro che marginale) si gioca un carosello fatto di contrasti, di diadi che si intrecciano in un balletto vorticoso: giovani/adulti, vita di campagna/vita in città, cuore/cervello e soprattutto idealismo/realismo.
Particolarmente interessante e ricca di ironia sottile è la capacità di Gončarov di condurre la trama fuori dalle secche dei luoghi comuni, evitando di cristallizzare i contrasti ma anzi spingendo nel corso della storia i due protagonisti così lontano dalle posizioni di partenza al punto da farli approdare ad una sorta di originale contrappasso, disegnando una traiettoria imprevedibile che porterà addirittura Aleksandr a cercare rifugio nell'atarassia per diventare un "oblomoviano" ante-litteram.
Attenzione però, perché l'autore non persegue nessun intento pedagogico con quest'opera. Non ci sono certezze – sembra dirci Gončarov – le cose succedono indipendentemente dalla nostra volontà. Nessuna ricetta per la vita che sia valida per sempre e per tutti, ci vuole capacità di adattamento e, soprattutto, equilibrio tra cuore e cervello.


domenica 30 giugno 2019

César Aira – Come diventai monaca



Un ballo in maschera

Come diventai monaca è uno stranissimo romanzo di formazione, che a partire da un ricordo banale, l'acquisto di un gelato alla fragola, mostra come le imprevedibili conseguenze di questo episodio condizioneranno l'esistenza futura del protagonista. Ad un punto di vista apparentemente innocente, quello del bambino, e ad uno stile narrativo semplice, fa da controcanto la maniera di rappresentarsi il mondo del ragazzino, tutt'altro che lineare.
L'autore stesso è il protagonista di questa surreale autobiografia "spuria", un bambino così consapevole della propria diversità al punto da immaginarsi con un'identità femminile. Viene in mente Gombrowicz nel leggere come il giovinetto viva appartato dagli altri, intento ad un gioco solitario che consiste nel  riprodurre il mondo esterno e le sue dinamiche secondo regole personali, gioco che finisce per diventare il suo unico scopo, mezzo che gli permette di trascendere la realtà per crearne una che sia solo sua.
La tesi sostenuta da Aira in questo romanzo e che ritorna anche in altre opere dello scrittore argentino, sembra essere quella dell'esistenza di due realtà, quella degli altri e la nostra: la vita sarebbe così il risultato dell'eterno conflitto tra come sono le cose e come ci appaiono. Conflitto impari, nel quale siamo destinati a soccombere perché la realtà è troppo forte per le nostre forze; anche in Come diventai monaca il giovane César non sfuggirà al suo destino così che quando la realtà verrà a prenderlo lui non farà nulla per resisterle, anzi si consegnerà spontaneamente a lei, consapevole (forse) della necessità di chiudere il cerchio.

domenica 23 giugno 2019

António Lobo Antunes – L'ordine naturale delle cose


Ognuno vola come può

Secondo romanzo del "ciclo di Benfica" ed ennesima prova di bravura di uno dei due Dioscuri (l'altro è Saramago)  della letteratura lusitana moderna. Lobo Antunes è una specie di Omero contemporaneo e la trilogia della quale questo libro fa parte una sorta di racconto epico delle trasformazioni del Portogallo novecentesco (paese «dove tutto ristagna e s'immobilizza nel tempo»), narrato con la consueta scrittura rigogliosa e ricca di metafore, qui arricchita da venature quasi surreali.
La Lisbona che emerge è lontana dalle immagini da cartolina, è una città grigia nella quale i protagonisti del libro galleggiano tra indifferenza ed egoismo. La trama scorre con un ritmo lento, intrecciando tra loro le esistenze di uomini e donne che vivono di espedienti (c'è anche un venditore di corsi di ipnotismo per corrispondenza), travolti dal corso della storia, incapaci di vivere nei tempi mutati e costretti a trascinarsi per le «strade dell'amarezza» nelle vie del quartiere di Alcântara sotto la cappa di un'atmosfera rarefatta, sospesa tra realtà ed invenzione («sospesi in una specie di limbo, a parlare di niente, circondati da tetti e alberi e gente immateriale, in una Lisbona immaginaria che digrada verso il fiume in un confuso affastellamento di vicoli inventati»).
La trama  si snoda come la tela di un ragno: discorsi diversi si intrecciano, ogni personaggio nel raccontarsi aggiunge qualcosa alla storia dell'altro, parole, musica (ma non comprensione), voci che tessono la storia del Portogallo del secolo trascorso e si organizzano in un romanzo polifonico caratterizzato da quei salti spazio-temporali e dai  cambi di prospettiva a cui Lobo Antunes ci ha abituato.
Si vive di disincanto, di amori non ricambiati, figli del bisogno e costruiti sull'acqua, si vive di ricordi che continuano a tornare a galla rifiutando di perdersi nelle nebbie della memoria. «Ognuno vola come può», dice uno dei protagonisti, ognuno è perso dentro la propria storia: chi continuando a credere di essere in miniera a Johannesburg, chi isolandosi nel silenzio in manicomio, chi dentro la malattia, chi cercando di costruirsi un progetto di vita zoppicante e provvisorio… si vive soli. I personaggi che incontriamo nel libro sono uomini e donne chiusi in un passato che non è mai passato davvero e che cercano di vivere come possono, chi immaginando di essere sottoterra e chi in cielo, perché l'importante è volare, non restare costretti dentro ad un presente angusto.
Il passato è come l'onda lunga che torna sempre ad accarezzare la riva: l'Africa coloniale, la Polizia Politica i tentativi di golpe… ricordi, che come nel Trattato delle passioni dell'anima costituiscono la sola certezza, l'unica cosa che ci resta, da custodire per non farli morire, e poco importa se siano belli o brutti.
L'ordine naturale delle cose è una lenta elegia, un lungo addio alla vita, al tempo passato che era il tempo dei personaggi di questo libro, quel tempo nel quale erano vivi, lontanissimo da un presente confuso che scivola via senza lasciare segno di sé.
«Così come cadono gli alberi io cado e cadendo cado come cadono lentamente e lievi le foglie e le ombre e io le sento piangere e parlare con me e non posso rispondere mentre cado perché se rispondessi cosa direi se non che sto crollando come crollarono un tempo mio padre mia madre mio marito improvvisamente silenziosi e immobili e bianchi come la luce in questa casa tanto bianca sui mobili bianchi gli specchi restituiscono il silenzio e le loro lacrime e domani saliranno con me lassù in cima e senza parole oltre a quelle del prete volgeranno il mio viso verso il sole.