«il libro sulla mia famiglia alla fine non è affatto sulla famiglia, ma su qualcos'altro. In realtà è sul meccanismo della memoria e su ciò che vuole da me.»
Memoria della memoria è un'opera sorprendente tra saggio e romanzo in cui, in una sovrapposizione di piani narrativi, letterario e meta-letterario finiscono per trarre linfa uno dall'altro. Stepanova riprende i fili di un tema che attraversa la letteratura europea e russa dal dopoguerra ad oggi, che sviluppa in maniera personale corredando i suoi pensieri con un intertesto ricchissimo.
I ricordi personali, quelli della scrittrice e della sua famiglia, diventano il pretesto per sviluppare una riflessione ad ampio raggio che parte dai materiali della memoria (oggetti, fotografie, lettere…) per affrontare il canone della memoria in senso lato. Stepanova individua i trabocchetti di cui è costellato il percorso, dai falsi ricordi ai rischi della post-memoria e si confronta con punti di vista diversi: quello di Mandel'štam di "seppellire il tempo passato in una bara di pino", quello di Charlotte Salomon di affrancarsi dal passato descrivendolo, quello di Joseph Cornell di salvare attraverso le sue scatole la memoria del passato e quello di Sebald – il più vicino alla scrittrice russa – che intende il tempo "come una caverna porosa, simile a certi monasteri scavati nella roccia, nelle cui celle ciascuno svolge il proprio lavoro parallelo".
In questo libro l'autrice lavora su due livelli, familiare e nazionale. Su quello familiare si propone di mettere ordine nei propri ricordi nonostante la consapevolezza che si tratta di un ordine illusorio. L'impresa merita comunque di essere intrapresa perché ha il potere taumaturgico di "farla stare meglio" e anche perché raccontare il mondo dei ricordi le consente di strapparlo per un attimo dall'oblio.
Sul piano nazionale invece, prova ad affrontare e superare la fissazione del mondo letterario russo per il passato, specchio di una crisi ideologica caratterizzata dal rifiuto di confrontarsi con il presente e di pianificare una prospettiva per il domani.
Memoria della memoria è un grande libro sul bisogno e insieme sull'impossibilità della memoria.
Sapevo che il vero aleph di questa narrazione l’avevo già in tasca. Era una statuina minuta, circa tre centimetri di lunghezza, di porcellana bianca e fattura piuttosto convenzionale, un putto nudo e riccioluto che sarebbe potuto passare per un cupido, se non fosse stato per i calzini. L’ho comprato su una bancarella di antiquariato a Mosca, dove si sono resi conto tardi che gli oggetti del passato sono costosi. Ma non mancavano quisquilie da due soldi, e infatti in una vaschetta colma di ogni genere di bigiotteria intravidi una scatola che conteneva un mucchietto di cosini bianchi. Stupiva che non ce ne fosse almeno uno tutt’intero, bene o male ostentavano tutti qualche mutilazione: chi niente braccia, chi niente testa, e tutti quanti senza eccezione scheggiati e ammaccati. Li rigirai a lungo tra le dita in cerca di uno un po’ più grazioso, finché non trovai il più bello. Era quasi intero ed emanava un luccichio da regalo. Ricci e fossette al loro posto, e anche i calzini lavorati a maglia, e né la macchia scura sulla schiena né l’assenza delle braccia impedivano di deliziarsene. Naturalmente chiesi alla signora della bancarella se per caso ne avesse uno ancora più integro, e in risposta mi raccontò la storia che decisi di approfondire. Queste statuine da due soldi sono state prodotte in una città tedesca per mezzo secolo, mi disse la signora, dalla fine degli anni ottanta del XIX secolo. Le vendevano un po’ dappertutto, nelle drogherie e nei negozi di casalinghi, ma la loro funzione principale era un’altra: semplici ed economiche, venivano usate nel trasporto delle merci come paracolpi friabili, affinché le cose pesanti non si sbeccassero urtandosi nel buio. In pratica queste statuine venivano prodotte apposta per essere mutilate; ma poi, prima della guerra, la fabbrica chiuse. I magazzini, pieni di queste piccole porcellane, rimasero dismessi finché non finirono sotto un bombardamento, e parecchio tempo dopo, quando le casse vennero aperte, dentro non rimanevano che pezzi monchi. Così comprai il mio putto senza prendere nota del nome della fabbrica o del telefono della signora della bancarella, sapendo però che probabilmente mi portavo in tasca il finale del mio libro: la soluzione del problema che si ha l’abitudine di cercare nelle ultime pagine. Diceva già tutto. E che non esiste storia che arrivi integra fino a noi, senza piedi malconci e teste penzoloni. E che lacune e strappi sono l’immancabile compagno di viaggio dello stare al mondo, il motore recondito, il meccanismo della futura accelerazione. E che solo il trauma ci trasforma da prodotti di massa in un noi inequivocabile, un noi al dettaglio. E che naturalmente anch’io sono una di quelle statuine, un oggetto di larga produzione, frutto della catastrofe collettiva del secolo andato, suo survivor e involontario beneficiario, al mondo per miracolo e tra i vivi.
[…]
Una sera piovosa la statuina mi cadde di tasca e si ruppe sul pavimento di piastrelle della vecchia casa, come l’uovo d’oro nella favola della gallina pezzata. Si ruppe in tre pezzi, la gamba nella calzina volò sotto la pancia della vasca da bagno, il corpo da una parte, la testa dall’altra. Ciò che illustrava alla meno peggio l’integrità della storia propria e famigliare d’un tratto divenne allegoria: dell’impossibilità di raccontarla e dell’impossibilità di conservare almeno qualcosa, e della mia totale incapacità di rimettere insieme me stessa dai frantumi di un passato altrui o almeno appropriarmene in modo convincente.