Augusto Roa Bastos – Io il supremo
(trad. Stefano Bossi)
Feltrinelli editore, 1978, I ed. 1988
Scrivere false verità.
La narrativa sudamericana è spesso un terreno ambiguo: facile e difficile, dice e non dice. Dice e mentre dice, dice qualcos'altro, o forse non dice niente e si diverte a prenderti in giro. Ti sfida a seguirla per sentieri impervi e dopo due passi ti accorgi che sei già sprofondato nel fitto di una giungla, privo di qualsiasi punto di riferimento. Con la narrativa sudamericana a poco servono le unità aristoteliche che costituiscono il canone o le altre categorie che siamo soliti applicare al romanzo classico, quello che serve è disponibilità a lasciarsi stupire, a immergersi in tanta confusione e bellezza senza cercare il bandolo della matassa, il filo logico che ci porti fuori dal labirinto, quello che serve è la capacità di volare sopra le pagine per riuscire ad ammirare, se non comprendere integralmente, la costruzione letteraria che si estende sotto i nostri occhi.
Io il supremo è una cattedrale uscita dal genio di un architetto visionario: Io il supremo è la Sagrada Familia e Roa Bastos il Gaudì (uno dei Gaudì) della narrativa sudamericana, che sceglie di romanzare la storia di José Gaspar Rodríguez de Francia, dittatore del Paraguay dal 1816 al 1840, come mai nessuno aveva fatto prima.
Un libro caratterizzato da una prosa torrenziale, barocchissima fumosa, ricca di digressioni, allitterazioni e giochi di parole. Stili e punti di vista diversi si accavallano senza dar tregua al lettore: conversazioni in prima persona del Presidente con il suo segretario, parti del "quaderno privato" del Supremo, flussi di coscienza, dialoghi con se stesso, memoriali, considerazioni di un punto di vista esterno e, alla fine, anche pareri di storici sulla figura di Gaspar Rodríguez… il tutto sviluppato su più piano temporali che si intersecano confondendosi e abbracciano l'intero corso della vita del dittatore ma si estendono anche per molti anni dopo la sua morte.
Difficile tener dietro a un garbuglio simile, eppure la scelta dell'autore risulta perfettamente in linea con l'immagine del personaggio che vuole tratteggiare: il Supremo è un uomo solo, un autarchico, nazionalista, illuminista e gattopardesco, ma soprattutto una personalità complessa e contraddittoria che aspira ad andare oltre i limiti della sua identità per riuscire ad abbracciare il Tutto. Un cinico disilluso convinto di essere un passo avanti agli altri e al contempo di non essere niente, che crede di essere superiore ma questo non basta a soddisfarlo. Una personalità ricca di sfaccettature e della quale è quasi impossibile venire a capo, un Don Chisciotte ottocentesco, forse pazzo e forse statista, o probabilmente entrambi, un grande personaggio che grazie alla prosa di Roa Bastos riesce a trascendere la dimensione storica per assurgere a un livello quasi di leggenda.
In fondo, è proprio il racconto in chiave farsesca dello scrittore paraguayano che smitizza la storia, mostrando come gli uomini che la fanno siano molto al di sotto delle loro ambizioni e come sia inutile tentare un resoconto dei fatti per provare a darne una spiegazione. "Le parole rimangono per dare un significato all'impossibile. Nessuna storia può essere raccontata. Il vero linguaggio non è ancora nato."
Scrivere diventa l'unico modo di sentirsi vivo, perché "si scrive quando non si può agire. Scrivere false verità."
Difficile dire dove finisca il Supremo e dove inizi Roa Bastos, nel furioso corpo a corpo del protagonista con la scrittura, che aspira a raggiungere una dimensione "totale", in grado di dire l'indicibile ma che a tempo stesso mostra la sua limitatezza e, in ultima analisi, l'inutilità ("alla scrittura poco importa se viene usata per la verità o la menzogna"). La scrittura quindi come strumento ambiguo ma straordinario, in grado di reinventare la realtà, e basterebbe questa considerazione che scaturisce dalla lettura di questo libro per proiettarlo nell'Olimpo letterario.