sabato 13 febbraio 2016

Javier Cercas - Anatomia di un istante



Lettura diversa da quello che mi aspettavo, nel senso che mi è sembrata più una via di mezzo tra il saggio e il reportage simil-giornalistico che un romanzo. Cercas non parte dal tentativo di golpe del 23 febbraio 1981 per sviluppare una trama, ma si ferma ad analizzarne presupposti e conseguenze con grande perizia.
Il fatto di non essere uno storico permette all’autore di lavorare su più livelli: sull’accaduto, ovviamente, ma anche sulle ipotesi e soprattutto sui protagonisti, indagandone carattere e psicologia.
Nel 1981 avevo sedici anni e mezzo, e nei miei ricordi il 23-F ha i contorni della farsa più che quelli della tragedia: il tenente colonnello Tejero, con quei baffoni, l’improbabile tricorno e gli occhi spiritati… mi aveva fatto subito pensare a uno di quei soldati che Zorro sbeffeggiava quotidianamente che a un militare di prima fila. Per non parlare dei goffi tentativi che aveva messo in atto per sgambettare Gutiérrez Mellado… un soldatino, altro che un militare determinato e pronto a tutto. Probabilmente la realtà era un po’ diversa e io l’avevo percepita in quel modo a causa della mia giovane e della televisione ( è lo stesso Cercas a scrivere che “è probabile che la televisione contamini di irrealtà qualunque cosa riprenda, e che un evento storico venga in qualche modo alterato una volta trasmesso sullo schermo, perché la televisione distorce il modo in cui lo percepiamo”). Eppure la ricostruzione dell’autore spagnolo, per quanto dettagliata e ampiamente condivisa, sembra confermare quella mia impressione di golpe da operetta e per questo non riesce a convincermi fino in fondo.
“Forse il suo piano era campato in aria e peccava di troppa immaginazione.
Non ebbe successo, soprattutto perché nei primi minuti del golpe, quando era in ballo la riuscita o il fallimento, si verificarono due fatti imprevisti: il primo è che il sequestro del Congresso non avvenne secondo la discrezionalità prevista e degenerò in sparatoria, cosa che lordò con un'immagine da golpe duro quello che voleva essere un golpe morbido, mettendo in difficoltà il re, impedendogli cioè di accettare fin dal principio una manovra politica che si presentava con un simile eccesso di violenza; il secondo è che il nome di Armada era già sulla bocca dei golpisti prima che il generale avesse l'opportunità di spiegare al re la natura del golpe e fargli la sua proposta di soluzione, e aver menzionato Armada suscitò diffidenza nel re e in Fernández Campo, cui si aggiunge la rivalità tra Fernández Campo e Armada, ottenendo il risultato che i due decisero di tenere lontano dalla Zarzuela l'ex segretario. E fu così che, dopo soli quindici minuti, il golpe si impantanò.”
Questo per dire che mi sembra poco verosimile che un golpe militare possa andare gambe all’aria solo per qualche colpo di pistola sparato in aria e perché poi il segretario generale del re si rifiuta di ricevere il generale Armada alla Zarzuela.
L’altro aspetto che non mi ha convinto pienamente nella scrittura di Cercas è l’uso reiterato delle “simmetrie”. Qualche esempio:
“pur sembrando forte, il suo partito era ancora debole, e, pur sembrando debole, il franchismo era ancora forte”
“se è forse impossibile capire il comportamento di Armada il 23 febbraio senza tenere conto del suo rancore per Adolfo Suàrez, forse è altrettanto impossibile comprendere il comportamento di Milans quel giorno senza tenere conto della sua avversione per Gutiérrez Mellado.”
“per Tejero Santiago Carrillo rappresentava qualcosa di simile a ciò che Adolfo Suárez rappresentava per Armada, e Gutiérrez Mellado per Milans”
“Milans era contro la democrazia, ma non contro la monarchia, Armada non era contro la monarchia né contro la democrazia (almeno non in modo aperto ed esplicito), ma solo contro la democrazia del 1981 di Adolfo Suàrez”
“il golpe del 23 febbraio fu singolare perché si trattò di tre colpi di Stato diversi: prima del 23 febbraio Armada, Milans e Tejero credevano che il golpe fosse lo stesso per tutti e tre, e questo permise di sferrarlo; il 23 febbraio scoprirono che c'erano tre golpe distinti, e tale scoperta causò il fallimento del golpe. Questo fu ciò che accadde, almeno dal punto di vista politico; dal punto di vista personale accadde qualcosa di ancor più singolare: Armada, Milans e Tejero scatenarono tre colpi di Stato contro tre uomini diversi”
“Santiago Carrillo aveva tradito gli ideali del comunismo,  Gutiérrez Mellado aveva tradito Franco, Suàrez aveva tradito il partito unico fascista in cui era cresciuto, Suàrez, Gutiérrez Mellado e Carrillo tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente.”
Efficaci, niente da dire, e con indubbi vantaggi sulla leggibilità dell’opera, ma mi è parso che l’autore si sia fatto prendere un po’ troppo la mano, finendo in qualche frangente per abusare di questo espediente.

domenica 7 febbraio 2016

Tadeusz Konwicki - Piccola apocalisse


 "Nessuno protestava, ci avevano fatto tutti l’abitudine."



Piccola apocalisse è un libro sull’approssimarsi della fine del mondo, tema che Konwicki finge di voler “sterilizzare” riconducendolo a una dimensione intima, quella del protagonista del libro, mentre nei fatti oggetto della sua attenzione è quel mondo che sembra andare (o essere già andato) in frantumi sia di qua che di là dal muro.

Protagonista del romanzo è uno scrittore che ha da tempo perso la fiducia nella parola scritta e guarda alla vita con disillusione: nulla sembra avere significato, agire è compiere azioni stereotipate, vivere è camminare sulle macerie di una guerra (la seconda guerra mondiale) che ha spazzato via tutto quello che ha incontrato sulla sua strada: cultura, moralità, principi, idee… precipitando l’umanità indietro di secoli, facendo regredire l’uomo a ominide. Si vive obbedendo ad un Destino che non si riesce a comprendere, accettando quello che accade con rassegnazione, magari concedendosi l’unico svago di giocare con l’idea della morte, assaporandone con la fantasia il gusto dolce e amaro, come fa lo scrittore al centro della trama.

Per questo quando una mattina bussano alla porta due suoi sodali, appartenenti agli ambienti dell’opposizione, e gli chiedono di farsi interprete di un gesto dimostrativo e darsi fuoco alle otto di sera davanti all’edificio del Comitato Centrale del partito, lo scrittore non trova ragioni valide per non farlo e da quel momento inizia la sua piccola apocalisse, una Via Crucis tra le strade di Varsavia in attesa che arrivi l’ora designata per immolarsi in nome di qualcosa nel quale probabilmente ha smesso di credere da tempo.

Attraverso le pagine di Piccola apocalisse, Konwicki ci restituisce l’immagine plastica della Polonia del dopoguerra: una nazione sottomessa al giogo sovietico con una popolazione incapace di alzare la testa davanti alle vessazioni quotidiane cui la sottopongono la casta di satrapi che la malgoverna. Una Polonia dove ci si abitua a tutto e tutto si accetta: non importa che ti stacchino acqua e gas da casa, che manchino latte e giornali, che si venga sottoposti a controlli dei documenti più volte al giorno e che un autobus passi ancora o meno per una determinata strada… Si vive sotto una cappa di nebbia che ammanta il quotidiano fino a rendere incerta pure la data: il giorno e il mese, per non dire l’anno.

L’analisi di Knowicki è lucida e senza sconti per nessuno: la società polacca è una palude e quelli che ci sguazzano felicemente non possono pretendere di farlo senza sporcarsi. Ce n’è, ovviamente, per l’intellighenzia che flirta con l’opposizione stando però ben attenta a non disturbare troppo il manovratore: conformisti vestiti da rivoluzionari, smidollati che vivono di sponda, vecchi tromboni interessati solo ad appagare gli appetiti di un ego smisurato. Tra gli aedi della resistenza e gli intellettuali organici che appoggiano il (e si appoggiano al) potere, non c’è poi molta differenza: sia in un caso che nell’altro si tratta di uomini senza carattere, che agiscono per pura convenienza, ad accomunarli è anche il fatto di considerare l’invasore sovietico esattamente per quello che è: un usurpatore gretto e volgare, dal quale però accettano di farsi mettere il morso con indifferenza.

Quello che manca è il carattere, quei carattere che “aveva fatto il suo tempo”.  Il problema non è (solo) la miseria, ma la monotonia di una vita senza speranza, l’accettazione pedissequa di quello che succede. Le persone che lo scrittore incontra sul suo cammino sembrano ripiegate su se stesse, capaci di vivere solo al loro interno, dentro un recinto privato, facendosi bastare quanto è loro concesso, consapevoli dell’inutilità delle loro vite.

Nulla desta più meraviglia, neppure il crollo di un ponte (“Non importa, - osserva un passante - sono rimasti ancora un paio di ponti.”). La vita è così priva di importanza che quando lo scrittore si accinge a fare testamento, le uniche cose che giudica meritevoli di essere tramandate ai posteri sono una ricetta per guarire dalla forfora, una per curare la stitichezza e dei consigli per cavarsela a “sette e mezzo”…

Non si può parlare neppure di un’umanità di “vinti”, perché gli abitanti della Varsavia che ci descrive Konwicki si sono arresi prima di combattere. Rassegnazione e disincanto dominano sovrani, non c’è più spazio neppure per l’indignazione o la rabbia: rassegnazione è quello che resta dopo aver messo la sordina anche alle emozioni e a dare la cifra del momento storico descritto dall’autore è l’indifferenza, quell’indifferenza che manifestano al protagonista tutti coloro i quali sembrano essere a conoscenza del suo progetto suicida (“Forse l’indifferenza, figlia della mediocrità, è quella materia volatile come la nebbia, che si pietrifica in rocce, si congiunge in macigni, cresce come massiccio montuoso fino al cielo schiacciando la nostra misera vita? Forse la trasparente, incolore, inodore, informe, svogliata, onnipresente, accogliente, gentile e innocente indifferenza è l’unico peccato che viene trattenuto dallo staccio della Provvidenza? Forse nel giorno del Giudizio Universale saremo giudicati unicamente per quel peccato- non peccato?”).

Tanta indifferenza da parte della gente per la propria sorte, fa sì che la tragedia si trasformi in certi momenti in farsa, come succede al Paradyz, quando un gruppetto composto da cuochi ed avventori finisce per banchettare con il pranzo destinato ai segretari del partito. Nulla importa, se non approfittare del momento, cogliere quello che si può senza preoccuparsi del futuro.

La società polacca presentata da Konwicki è un guazzabuglio dove convive tutto e il suo contrario, o – per meglio dire – dove ogni cosa si stempera in qualcos’altro, dove non esistono confini, dove tra potere e opposizione c’è una strana contiguità per cui l’uno giustifica l’altra e viceversa, proprio come la confusione che regna sovrana giustifica l’immobilismo, la passività della popolazione. La Varsavia (ma non solo Varsavia…) tratteggiata in Piccola apocalisse è un luogo in cui il peccato si confonde con la virtù, l’immoralità con la moralità, una melma maleodorante nella quale la gente galleggia più per abitudine che per convinzione.

domenica 31 gennaio 2016

Annie Ernaux – Gli anni



Dopo Knausgård, Ernaux. Torna di moda l’autobiografismo? Sembrerebbe di sì, anche se le differenze tra i due sono evidenti.
Ernaux evita il monologo torrenziale da Grande Fratello televisivo e procede per immagini, vecchie fotografie, ricordi personali, elencazioni (cliché invero, un po’ usurato), finendo per costruire un racconto frammentato in episodi che corrono prevedibili lungo i binari del trascorrere degli anni. Ecco, forse proprio nell'aspetto monocorde di una narrazione senza scatti, che non “evolve” mai, mi sembra di individuare un tratto che accomuna Knausgård ed Ernaux.
Ne Gli anni ho apprezzato l’eleganza della scrittura, l’originalità nell'alternare presente e imperfetto ed anche il continuo cambiamento del punto di vista, con gli avvenimenti che vengono raccontati usando ora la prima e ora la terza persona, sia singolari che plurali. Artifici che probabilmente avrebbero dovuto aiutare a movimentare la trama, eppure – ripeto – la mia impressione è quella di una narrazione “bloccata”, nella quale anche la partecipazione emotiva mi sembra molto molto ridotta.
Ci sono pagine di bella prosa, osservazioni acute su certi aspetti della società, espresse stilisticamente in maniera efficace ed elegante, ma sono poche. Prevalgono (o magari sono io che le ho trovate particolarmente disturbanti) certe banalità in forma di analisi sociologiche,  qualche spruzzata di politically correct e un pizzico di anti-americanismo radical chic che magari potevano essere evitate, anche considerando che sul passato recente francese in Algeria e Centrafica Ernaux ha sorvolato tranquillamente.

Qualche esempio:
quello che scrive a proposito della scuola come istituzione, non mi sembra brillare per originalità:
"Pubblica, privata, la scuola si assomigliava, luogo di trasmissione di un sapere immutabile nel silenzio, nell'ordine e nel rispetto delle gerarchie, la sottomissione assoluta: indossare un grembiule, mettersi in fila alla campanella, alzarsi in piedi se entrava in classe la direttrice ma restare seduti se entrava una bidella"
E ancora:
"Soltanto gli insegnanti avevano il diritto di fare domande. Se non si capiva una parola o una spiegazione la colpa era solo nostra."
"I programmi non cambiavano mai,"
"Un blocco compatto di conoscenze trasmesso a una minoranza che vedeva così confermata, di anno in anno, la propria intelligenza e superiorità."

Segue un bell'esempio di cerchiobottismo:
"La condanna a morte da parte dell’imam Khomeini di uno scrittore di origine indiana, Salman Rushdie, accusato di aver offeso Maometto in un suo libro, faceva il giro del mondo e ci lasciava di stucco. (Anche il papa condannava a morte proibendo il preservativo, ma quelle erano morti anonime, in differita.)"

A proposito di antiamericanismo:
"il campo del nostro immaginario, ormai occupato tutto dagli americani, anche nostro malgrado, come un gigantesco albero che dispiegava i suoi rami sull'intera superficie della terra. Ci davano sempre più fastidio con quei loro discorsi moralizzatori, gli azionisti e i fondi pensione, l’inquinamento planetario e il disgusto per i nostri formaggi."
"Conquistatori senza altri ideali oltre ai dollari e al petrolio. I valori e i principi di cui si facevano portatori – contare solo su se stessi – davano speranza soltanto a loro, mentre noi sognavamo «un altro mondo»."

Chiudo con qualche perla a proposito dell’Undici Settembre tra sentimenti di rimozione e rifiuto di condividere quel dolore:
"Si rievocava un altro 11 settembre e l’assassinio di Allende. Dei conti venivano saldati. Il tempo per provare compassione e pensare alle conseguenze sarebbe arrivato più avanti."
"L’obbligo di far propria la paura degli americani raffreddava i sentimenti di solidarietà e di compassione. Ci si beffava della loro incapacità di catturare Bin Laden e il mullah Omar, volatilizzatosi in motocicletta."

sabato 23 gennaio 2016

Alexis Pansèlinos - La grande processione



Mah...



Secondo approccio alle letteratura neogreca (dopo Il loro profumo mi fa piangere di Menis Kumandareas) e seconda parziale delusione.

Scrittura ampollosa, poco scorrevole, con descrizioni d’ambiente ridondanti all’eccesso.
  
(…più in basso, lungo il dolce pendìo del monte, i rami spogli dei pioppi somigliavano a bende d’argento distese tra gli olmi purpurei. Fitte macchie di bosco si alternavano alla terra nera della pianura, che inviava il suo profumo fin lassù, coperta da una caligine simile a una nuvola bassa, e si estendeva a perdita d’occhio, mentre le tenebre sollevatesi da oriente, che si dilatavano come l’inchiostro su un tessuto, coprivano gli alberi, i campi, i villaggi punteggiati di luci, e, in fondo, la città e la caserma…)


Il libro è abitato da una serie di personaggi abbastanza piatti e poco sviluppati (forse, e solo parzialmente, lo è il protagonista). Invece di far emergere le idee dalla narrazione, Pansèlinos le espone direttamente (e spesso si tratta di cose scontate).

La trama è costituita da due storie che si alternano (e anche questa non è una trovata esattamente originale): una è rappresentata dal classico romanzo di formazione e l’altra da una specie di apologo fantascientifico. Il ritmo con il quale le due parti della narrazione si succedono si fa sempre più serrato con il procedere della storia, fino ad un finale quasi frenetico nel quale sembrano scivolare l’una nell’altra, finale che – se non altro – ha il pregio di non essere scontato.

sabato 16 gennaio 2016

Jerzy Andrzejewski – La volpe d’oro




Libro prezioso, fuori catalogo da tempo (e già su questo punto ci sarebbe da riflettere, su quanto rapidamente e colpevolmente l’editoria dimentichi opere importanti per proporre a ritmo continuo pubblicazioni che… vabbè, ci siamo capiti) costituito da due racconti lunghi e uno breve,  sul tema del passaggio dall'infanzia all'adolescenza.

La volpe d’oro è la storia di Lukasz, bambino di sei anni al cospetto del quale una sera si materializza un volpe d’oro che lui deciderà di nascondere nell’armadio di casa, diviso tra la voglia e la paura di condividere con familiari e amici la straordinaria apparizione.

Il racconto è un apologo – delicato e crudele – su quella fase della crescita in cui il ragazzino rinuncia al mondo dei sogni per entrare in maniera decisa in quello della realtà. Andrezejewski è maestro nel raccontare con penna leggera come sia difficile per il piccolo Lukasz difendere la sfera della fantasia dalla quotidianità che tende ad occupare sempre più spazio, descrivendo bene anche anche quanto sia frustrante per il bambino dover vivere in solitudine questa esperienza.

Così a poco a poco Lukasz cominciò a rendersi conto quanto amari e tormentosi possono diventare i sentimenti più belli, se non è possibile farne partecipi gli altri. Se ciò che doveva restare un segreto possedeva il fascino della cosa insolita, risultava però anche pieno di tristezza, e così lacerante da rendere difficile a volte stabilire che cosa prevalesse in quel sentimento: la felicità o il dolore. E risultava pure che le persone, perfino quelle che ti sono più vicine, sono dure e difficili da capire.

Considerato che sembra l’unica ad avere fiducia in lui e a credere all'esistenza della volpe, la madre diventa per il bambino la figura di riferimento, quella sulla quale ripone tutte le speranze per far cadere il velo che sembra rendere gli altri membri della famiglia incapaci di vedere la volpe d’oro. Ma dopo aver origliato una conversazione dei genitori, nella quale la volpe sarà sbrigativamente degradata a fantasticheria, Lukasz si sentirà tradito anche da lei e ancora più solo.

Quanto può resistere il sogno di un bambino all'assalto dei mondo dei grandi? Poco, pochissimo.

…nei rapporti di Lukasz con la volpe d’oro iniziò un periodo completamente nuovo, senza più illusioni e senza la speranza che quel che per loro era tanto importante potesse trovare comprensione e appoggio fra le persone più vicine. Se almeno avessero potuto vivere insieme in qualche deserto o in fondo a una foresta disabitata, dove ancora la terra non fosse stata calpestata da piede umano, né voce d’uomo avesse rotto il silenzio del bosco. Ma il fatto era che si trovavano fra la gente, e dalla gente e dai suoi mille problemi erano circondati d’ogni parte e continuamente, come dall'immensa corrente di un amplissimo fiume. Come piccole e fragile sembrava talvolta a Lukasz il suo segreto! Scorreva fra le tenebre profonde di spazi indistinti, rilucendo di luce solitaria; ma verso quali rive scorreva, che cosa gli era riservato, dove potevano spingerlo i venti avversi?

È l’inizio della fine, e il compleanno del bambino rappresenterà il momento in cui il rito di passaggio verrà consumato: il prezzo da pagare per uscire dall'infanzia e consegnarsi al mondo degli altri sarà il sacrificio della volpe, evento che muoverà nell'animo di Lukasz sentimenti contrastanti.

Lukasz sentì che lacrime cocenti gli scorrevano sulle guance, ma nello stesso tempo per lui era come se tutte le più gravi  difficoltà si trovassero ormai alle sue spalle, come se, dopo un penoso arrampicarsi sulla cima di un monte, cominciasse ora a scendere giù, per un dolce declivio. E questa nuova impressione gli provocò un senso di sollievo. “Ma se fosse tanto meglio che la volpe se ne fosse andata?” – pensò ad un certo momento. E benché si vergognasse di questo pensiero, non lo respinse. Si asciugò col palmo gli occhi e le guance umide, tirò su col naso, e con un sospiro uscì dall'armadio.

L'altro racconto lungo della raccolta, Le porte del paradiso, è un’originalissima riflessione che prende le mosse dalla Crociate dei fanciulli del 1212, un episodio a cavallo tra realtà e leggenda secondo il quale un gruppo di ragazzini sarebbe partito dall'Europa per andare a liberare il Santo Sepolcro. Quello che interessa ad Andrzejewski è il dietro le quinte di questa crociata, raccontare le motivazioni che i ragazzini adducono per giustificare la loro impresa. Ci si aspetterebbe ragioni forti, convinzioni radicate, senso di appartenenza… e invece quello che emerge è un calderone dove bollono insieme realtà e bugie, emozioni, passioni, invidie, vendette,  intrighi, piccoli e grossi sgarbi. Cos’è che muove le folle? – sembra chiedersi l’autore. Siamo sicuri che siano sempre i grandi ideali oppure spesso si finisce per aggregarsi dietro simboli e bandiere (anche) per ragioni di convenienza o per motivi diversi da quelli in nome dei quali ufficialmente si lotta?  Le porte del paradiso è un gran bel monologo (il primo punto è alla fine del racconto),  un racconto allegorico scritto nel 1960 che ben si presta ad essere letto anche fuori dal contesto storico a cui fa riferimento.