sabato 8 settembre 2018

Franco Stelzer – Cosa diremo agli angeli




Vedere è un processo che parte dagli occhi ma arriva al cuore.

Cosa diremo agli angeli è romanzo indubbiamente originale. Il racconto in prima persona di un addetto al controllo dei passaporti d’aeroporto che osserva la gente passare e intanto fantastica su quello che dirà agli angeli quando sarà il momento. Il lavoro manuale (un vano che sta costruendo nella sua casa) è il legame che tiene ancorato il protagonista alla vita reale, il resto è immaginazione, una sorta di voyeurismo delicato, immaginare le vite degli altri come modo per guardare (anche) dentro se stesso.
Cosa diremo agli angeli è un libro breve, frasi corte, sincopate, ma cesellate come strofe di una poesia. Ma al tempo stesso è anche un fiume tranquillo, con Stelzer che dilata il tempo della narrazione per permetterci di godere della bellezza di ogni singolo istante, per aiutarci a recuperare il “nostro” ritmo, quello scandito dai grani della clessidra e non dal cronometro dell’epoca che viviamo. La lentezza è la vera misura, sembra indicarci l‘autore, quella che ci permette di vedere davvero le cose, quella che ci consente di fermarci senza provare sensi di colpa, di lasciare da parte la fretta per apprezzare ogni momento, ogni singolo gesto, di perderci nel mondo e di perderci dentro l’immaginazione.
Stelzer invita il lettore a rivedere le sue priorità, a cercare la bellezza nelle piccole cose, nei particolari secondari, in quello che rimane nell’ombra. Quello che ci propone è un universo nel quale la realtà si allunga verso il sogno e viceversa, un vivere languido ma anche malinconico perché il protagonista è consapevole di quanto la sua esistenza sia sbilanciata verso la contemplazione del mondo, sul pensiero più che sull’azione, anche se si tratta di un pensiero in grado di aprire porte su mille mondi diversi.
Come detto, è una vena lirica quella che attraversa le pagine di questo libro e che accompagna lo sforzo dell’addetto al controllo passaporti di avvicinarsi al cuore delle cose accontentandosi però di rimanere sulla soglia, di guardarle come si guarda un fiore che si teme di rovinare cogliendolo, di vivere rimanendo sempre un passo indietro per paura della delusione, per paura che lasciarsi toccare dalla felicità possa illuderci di possederla per sempre.

sabato 25 agosto 2018

Tom McCarthy – C



C è un romanzo complesso, che dietro l’apparenza di uno stile “classico” nasconde una ricerca quanto mai moderna. In superficie corre una trama lineare ma metafore, sottotesti, simboli e intertestualità aprono gli spazi a interpretazioni e chiavi di lettura che scavano parecchio in profondità. Un Pynchon travestito da E.M. Forster, verrebbe da dire, per un libro che si può leggere sia in orizzontale che in verticale.
Le vicende di Serge Carrefax, il protagonista della storia sono legate a doppio filo con il tema portante del romanzo, la divulgazione delle informazioni: da quella verbale al linguaggio dei segni, dai primi esperimenti di trasmissione senza fili  alle onde sonore ai messaggi subliminali, con corollario di crittografia e interferenze. Terreno complesso sul quale si combattono  conflitti non da poco, come quelli tra ordine e disordine, superficie e profondità, corpo e anima, razionalità e arte.
C è un romanzo circolare (che inizia e finisce con il richiamo kafkiano allo scarabeo) e complesso, a cominciare dal titolo che allude in mille direzioni diverse senza indicarne nessuna: C come Carrefax, ma anche come cloroformio (che usa la madre di Serge), cianuro (la sorella) e cocaina (il protagonista stesso). C come crittografia, carbonio… C come altre mille parole che saltano fuori dalle pieghe della storia e che individuano altrettante piste che il lettore potrà divertirsi a seguire, magari con il rischio di approdare lontanissimo da dove era partito.  
C, in ultima analisi è un romanzo sul messaggio e sulla sua interpretazione, sulla ricerca del punto ultimo, quello dove spazio e tempo si fondono, sul tentativo di trovare un senso alla vita, senso che McCarthy, in accordo con la sua appartenenza alla International Necronautical Society, sembra voler individuare nella morte.

Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo;
Né muove da né verso; al punto fermo, là è la danza,
Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,
Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,
Né ascesa né declino. Tranne che per il punto, il punto fermo,
Non ci sarebbe danza, e c'è solo la danza. (T.S. Eliot – Quattro quartetti)

sabato 18 agosto 2018

Tom McCarthy – Déjà-vu



Circoletto rosso

Reminder (questo è il titolo originale dell’opera) come ricordo ma anche come residuo, rimanenza.
Il libro racconta la storia di un uomo colpito da un oggetto non precisato che gli ha provocato la perdita della memoria e che lo ha costretto a reimparare i movimenti, a capire il significato di ogni singolo gesto prima di poterlo, lentamente, mettere in atto. Un risarcimento multimilionario e il déjà-vu di un momento del passato (o forse inesistente) saranno la molla che porterà il protagonista a cercare di rivivere quel momento specifico e più in generale tutti quelli in grado di farlo sentire vivo e sereno inscenando delle rappresentazioni il più accurate possibili. Il risultato sarà però quello di trascinare l’uomo in un gorgo mortale, una coazione a ripetere fatta di continue limature, di gesti rallentati all’infinito alla ricerca di una perfezione impossibile da raggiungere perché l’asticella delle sue ambizioni si alzerà ogni volta di una tacca, rilanciando la sfida a se stesso fino a precipitarlo in un loop senza via d’uscita.

Déjà-vu è un’opera sorprendente, una scatola magica che una volta aperta esplode contenuti, idee e suggestioni in ogni direzione. C’è il tema della memoria, intesa come unico luogo dove l’uomo riesce a essere autentico, ma c’è anche il suo contraltare, quei falsi ricordi che stanno lì a ricordarci quanto la memoria a volte possa essere fallace. Il tema della memoria è inevitabilmente un chiaro richiamo a Proust ma quella che ne fa McCarthy è una rilettura attualizzata perché qui non c’è solo l’interiorizzazione del ricordo ma anche tentativo di portarlo fuori, di inserirlo nelle realtà. C’è poi il tema del denaro, come serpente tentatore che si insinua nelle nostre vite e le cambia. C’è il solipsismo, l’incapacità a vivere con gli altri, l’uso degli altri per perseguire la propria felicità. C’è la ricerca della spontaneità, la consapevolezza che siamo tuti attori che recitano una parte (viviamo per recitare e recitiamo per vivere). Ci sono riflessioni sul tempo che l’uomo cerca di manovrare, manomettere, rallentare per diventarne il dominus, con risultati disastrosi. Ci sono riflessioni sull’arte (con un accenno michelangiolesco allo  sbarazzarsi della materia in eccesso). C’è il tema dell’inganno delle parole, che possono significare altro da quello che sembrano (come reminder), parole che rappresentano un terreno minato perché, analogamente al ricordo, se ripetute all’infinito si trasformano in qualcosa di diverso. E c’è, appunto, l’infinito, simboleggiato dal numero otto che si ripete dall’inizio alla fine del libro, il simbolo della ricerca di assoluto, di una perfezione irraggiungibile che porta l’uomo che tenta di trascendere il limite a precipitare nell’abisso.
Déjà-vu  è un’opera vertiginosa e Tom McCarthy è l’avanguardia. Circoletto rosso su questo nome.

domenica 5 agosto 2018

Antoine Volodine – Gli animali che amiamo




Non sei tu, sono io…

Sbaglierò, sicuramente sono io a non aver compreso il valore dell’opera, il suo intento, il disegno che c’è dietro e le intenzioni dell’autore… ma questo libro proprio non mi è piaciuto.
Peccato perché la copertina è bella, il progetto grafico accattivante ma l’impressione è che alla fine il pacchetto sia migliore del contenuto, che Volodine sia rimasto prigioniero della sua creatura e che a forza di teorizzare sul post-esotismo si sia dimenticato per strada la trama o non l’abbia supportata a sufficienza.
Ma chi sono io per criticare l’autore di Angeli minori e di Terminus radioso, uno che è pubblicato da Gallimard e che ha vinto il Prix Médicis nel 2014? Nessuno, proprio nessuno. E allora, scusa tanto Volodine se non ho capito questo libro. Non sei tu, sono io.

mercoledì 1 agosto 2018

Assonanze

 L’onda


Blandisce,
forse lenisce.
Poi scivola  
lieve.
Lascia una scia
ed esce di scena


[Xenia Dubinina: "Assonanze"]