sabato 23 febbraio 2019

Sadeq Hedayat – La civetta cieca. Tre gocce di sangue



Questo libro è un viaggio lungo una serie di confini pericolosi: quello tra letteratura persiana classica e moderna (possiamo parlare di un modernismo di sostanza più che di forma), quello tra Oriente ed Occidente (diversi sono i riferimenti a simbolismo, Kafka e per certi versi anche al Rilke dei Diari di Malte Laurids Brigge), ma soprattutto i confini che separano cosciente e subconscio, sonno e veglia, vita e morte.
Hedayat si avventura in territori nei quali le certezze vengono meno, verità e realtà si trasformano in contenitori che il viandante  riempie con quello che trova lungo il percorso. Siamo nel regno del sogno e del mistero, dove tutto è possibile e provvisorio. I sensi hanno esaurito la loro funzione di guida, qui ci si affida all'istinto, a pensieri non più governati dalla logica ma dall'immaginazione.
La civetta cieca è un monologo con una trama non lineare ma costituito da eventi e immagini che si succedono in un eterno presente che ricorda la concezione bergsoniana del tempo. Una narrazione allucinata ricca di elementi ricorsivi e di simboli,  una camminata sull'orlo dell'abisso che attrae e spaventa al tempo stesso, la ricerca disperata di qualcosa che possa sostituire questa vita che provoca solo dolore, quel dolore  che il protagonista riesce ad alleviare grazie all'oppio e all'alcol. La ricerca di un mondo interiore da opporre a quello degli altri.

mercoledì 20 febbraio 2019

Mi scusi se le parlo così


Mi scusi se le parlo così ma sono così stufo di sentirmi solo, così stufo della farsa tragica e ridicola della mia vita, dell’hamburger dello snack–bar e della donna delle pulizie che fa la cresta sulle ore e sul detersivo. Così stufo che a volte, sa com’è, ho una gran voglia di allontanare da me l’inquieto disordine del quale mi nutro con nausea come certi animali dell’immondizia, e ho voglia di fischiettare’ allo specchio una contentezza senza macchia. Avrei voglia di vomitare nel water lo sconforto della morte quotidiana: che trasporto nello stomaco come una pietra di acido, che mi si ramifica nelle vene e mi scivola attraverso le membra in un flusso oleato di terrore, avrei voglia di ritornare, pettinato e sano, alla linea di partenza dove un circolo di volti compassionevoli e affabili mi attende, la famiglia i fratelli gli amici, le figlie, gli sconosciuti che si aspettano da me ciò che, per timidezza o vanità, non ho saputo dargli e offrire loro la lucidità priva di risentimento e il calore privo di cinismo di cui, finora, non sono mai stato capace. Avrei voglia di espellere questi defunti rigidi installati sulle mie sedie in un’attesa pallida e tenace, mia madre che passa indifferente accanto a me pensando ad altro, mio padre che alza dalla poltrona uno sguardo che attraversa senza vedermi, i fratellini avvolti nei loro complicati gomitoli interiori impossibili da districare, avrei voglia di espellere i pianoforti verticali coperti da damaschi i cui Chopin mi prendono nella tela di malinconie da narciso, avrei voglia di Isabel, della realtà di Isabel, della realtà indipendente da me di Isabel, dei denti di Isabel, del riso di Isabel, dei seni di Isabel come musi di cerbiatta sotto la camicia da uomo, delle sue mani sopra le mie natiche quando facevamo l’amore, e delle palpebre che tremavano e vibravano come se fossero state trafitte da uno spillo crudele su un foglio di protocollo. Può spegnere la luce: non ne ho più bisogno. Quando penso a Isabel mi passa la paura del buio, un chiarore di ambra riveste gli oggetti con la serenità complice dei mattini di luglio che mi pareva sempre disponessero davanti a me, con il loro sole infantile, i materiali necessari per costruire qualcosa di ineffabilmente piacevole, e per me sempre indecifrabile. Isabel che sostituiva ai miei sogni paralizzati il suo pragmatismo dolcemente implacabile, riparava le fessure della mia esistenza col rapido fil di ferro di due o tre decisioni di sbalorditiva semplicità, e poi, ritornata all’improvviso bambina, si coricava su di me, mi prendeva il viso fra le mani e mi diceva Lascia che ti baci, con una vocetta supplicante che mi sconvolgeva. Penso di averla persa come perdo tutto, di averla scossa via da me con il mio umore incostante, le mie collere improvvise, le mie esigenze assurde, questa angosciata sete di tenerezza che respinge l’affetto e rimane a pulsare dolorante nel muto appello pieno di spine di un’ostilità priva di senso. E mi ricordo, con commozione e rapimento, la casa dell’Algarve circondata da fichi e cicale, il tiepido cielo notturno pennellato dall’alone lontano del mare, la calce delle pareti quasi fosforescente nel buio, e la violenta e non formulata passione delle mie carezze che sembravano arrestarsi senza soluzione a qualche centimetro dal suo viso, e si dissolvevano infine in una carezza indefinita.

Penso a Isabel, e una specie di marea vibrante d’amore, indomita e vigorosa, mi sale dalle gambe fino all’inguine, mi indurisce i testicoli con ondate di desiderio, mi si spande nel ventre come se aprisse grandi ali colme nelle mie viscere in agitazione. Visitiamo di nuovo i rigattieri polverosi di Sintra alla ricerca di vecchi mobili entriamo nell’acquario azzurro del localino notturno dove per la prima volta, come incantato, ho toccato la sua bocca, ci inventiamo il fantastico futuro di una profusione di culle e di figli bruni, e mi sento felice, giustificato e felice, mentre abbraccio il suo corpo nella bassa marea delle lenzuola, con le pieghe che formano una susseguirsi di onde rifrante sulla spiaggia bianca del cuscino, dove le nostre teste, la sua scura, la mia chiara, si riuniscono in una fusione che possiede i germi strani di un miracolo. Può spegnere la luce: forse non resterò poi tanto solo in questa stanza enorme, forse Isabel o lei verrete a trovarmi uno di questi giorni, sentirò la voce al telefono, la voce scandita e precisa attraverso i fori di bachelite della cornetta, il ciao di Isabel o il suo ciao mi entreranno nell’orecchio come l’oleosità piacevole e tiepida delle gocce auricolari della mia infanzia, andrò o verrò a prendervi in ufficio, aspetterò in macchina fumando impazientemente e aggiustandomi il nodo della cravatta nello specchietto in punta di chiappe, forse Isabel, o lei, si siederà accanto a me nell’oscurità dell’automobile, mi sorriderà, infilerà la cassetta di Maria Bethània nello stereo, e mi passerà intorno al collo le sue solide braccia di tenerezza. Lascia che ti baci. Lasci che la baci mentre si veste, mentre si allaccia il reggiseno con gesti mancini che conferiscono alle sue scapole sporgenti l’aspetto delle ali di un pollo, mentre cerca gli anelli d’argento sul comodino con una ruga verticale e infantile sulla fronte, mentre lotta con la spazzola sulla resistenza ondulata dei capelli gli abbondanti capelli che con la mia calvizie invidio di invidia feroce e invincibile. Tutte le mattine mi chiedo quando comincerò a fare la scriminatura vicino all’orecchio, con un bel riporto, leggo attentamente e senza ironia gli annunci dei parrucchini sul giornale, accompagnati da foto di irsuti ex–calvi soddisfatti, sorridenti sorrisi pelosi da gorilla. Mi allontano dalle mie fotografie dell’anno scorso come una barca dal molo, e mi sembra di assomigliare a una bizzarra caricatura di me stesso deformata dalle rughe in una specie di smorfia. Lascia che ti baci: chi mai potrà voler baciare la parodia triste di ciò che sono stato, lo stomaco che si dilata, le gambe che si assottigliano, il sacco vuoto dei testicoli ricoperto di lunghi peli biondastri? Ripensandoci, non spenga la luce: chissà che questo mattino non nasconda una notte ancor più opaca di tutte le notti finora attraversate, la notte che abita nelle bottiglie di whisky, nei letti sfatti e negli oggetti dell’assenza, una notte con un cubetto di ghiaccio in superficie, tre dita di liquido ambrato e un silenzio insopportabile in fondo, una notte in cui mi perdo, inciampando da una parete all’altra, intontito dall’alcol, raccontando a me stesso il discorso della solitudine grandiosa degli ubriachi, per i quali il mondo è un riflesso di giganti contro cui ribellarsi è inutile. Non spenga la luce: quando se ne sarà andata la casa diventerà inevitabilmente più grande, e si trasformerà in una specie di piscina senz’acqua dove i suoni si amplificano ed echeggiano aggressivi, tesi, enormi, sbattendo con violenza contro il mio corpo come le maree dell’equinozio contro il muraglione della spiaggia, facendo rotolare su di me una schiuma fosca di sillabe. Ascolterò di nuovo il rumore del frigorifero che ronfa nel suo sonno da mammut, le gocce che gocciano dai rubinetti come le lacrime dei vecchi, grevi di rugginosa congiuntivite. Esiterò a scegliere la camicia, la cravatta, il vestito, e finirò per sbattere la porta di casa come se abbandonassi dietro di me una tomba intatta dove la morte fiorisce nei vasi di vetro e negli steli imputriditi dei crisantemi.

[António Lobo Antunes "In culo al mondo"]

sabato 16 febbraio 2019

Roberto Arlt – L'amore stregone



Perché anelo alla purezza e mi rotolo nel sudiciume?

L'amore stregone è la storia di un uomo, l'ingegner Estanislao Balder, che a dispetto delle convenzioni dell'epoca (siamo negli anni Trenta) decide di lasciare moglie e figlio per una ragazza di cui si è invaghito.
Trama piuttosto debole, soprattutto se confrontata con quella dei romanzi "pirotecnici" a cui ci ha abituato Roberto Arlt, anche perché qui l'autore argentino sembra divertirsi a confonderci sfoderando uno stile narrativo per lui inconsueto e che ricorda quello del romanzo romantico. È una parodia, ovviamente, perché già dal titolo del primo capitolo, "Balder va alla ricerca del dramma", si intuisce che ci troviamo piuttosto al cospetto di un romanzo psicologico (dostoevskijano, verrebbe da dire, seppure con molti distinguo).
I personaggi dell'opera sono tratteggiati con cura e ben si prestano ad un'analisi delle personalità: la contraddittorietà è la cifra che li caratterizza, a cominciare da Balder. Un cinico che però si innamora, un uomo che sente forte il bisogno di prendersi gioco di sé e degli altri, sincero e commediante al tempo stesso. Dall'altra parte c'è Irene, la sedicenne dall'espressione "gattesca", silenziosa e caparbia, in apparenza timida ma in realtà molto sicura di sé, una ragazzina della quale Balder è invaghito ma che sospetta viva solo per l'appagamento del suo piacere, un'egoista senza morale perfettamente a suo agio nel conformismo dell'ambiente.
Ambivalenti sono i sentimenti che Estanislao prova per la giovane ("volevo starle vicino e lontano, mi piaceva e non mi piaceva. D'istinto, ma in modo vago, sentivo che mi conveniva allontanarmi, e mi mancava il carattere per prendere quella decisione"). Ambivalente è in generale il suo modo di sentire e per tutto il romanzo lo vediamo oscillare sospeso tra l'indolenza della coscienza e l'aspirazione ad un'esistenza eroica dell'anima ("Perché anelo alla purezza e mi rotolo nel sudiciume?", si chiede, "Soffro per tutte le disgrazie che provocherò. E tuttavia, avanzo verso questo meccanismo di sventure come se fossi ipnotizzato").
È su questa ambivalenza che insiste Arlt, probabilmente per dimostrare come l'individuo sia ben di più dell'insieme delle sue parti e come sia difficile classificare qualcuno solo sulla base dei suoi comportamenti, perché la personalità di un uomo è qualcosa di più complesso di quello che crediamo e soprattutto è contraddittoria al punto che ritenere di conoscere qualcuno sino in fondo si rivela una chimera, una delle tante illusioni che spacciamo per certezze.
L'analisi dell'autore è sferzante, parte dal singolo ma arriva ad interessare anche la società e il suo perbenismo di facciata, al punto da far concludere Balder che "siamo tutti degli ipocriti. La verità è che siamo dei commedianti senza coraggio". Come sfuggire allora alla palude dell'ipocrisia dilagante? Rifugiandosi nell'illusione che "nella mia vita accadrà qualcosa di straordinario". Un sogno con il quale il protagonista del romanzo si balocca, perseguendone la realizzazione senza mai spingere fino in fondo sull'acceleratore per il dubbio di non essere lui l'artefice del gioco ma solo una pedina, di non essere lui il manipolatore ma il manipolato. E pure, anche sospettando di essere vittima del disegno di altri, Balder non riesce a sottrarsi al processo che porterà al suo annientamento. Ne è attratto, vuole vedere come andrà a finire, vuole percorrere fino in fondo il "cammino tenebroso" per arrivare a scoprire la "somma perfezione del male" e sapere così se al termine della sfida finale sarà stato annientato o ne uscirà più forte.
Quello che ci aspetta è però un finale aperto, perché il giocatore (per tornare a Dostoevskij) è condannato in eterno al suo ruolo perché attratto dal gioco più che dal suo esito. Anche una possibile vittoria non potrà mai soddisfarlo appieno, anzi finirà per legarlo ancora di più, costringendolo a tornare a sedersi al tavolo e puntare di nuovo le sue fiches.

domenica 10 febbraio 2019

António Lobo Antunes – In culo al mondo


Viaggio al termine della notte

La guerra come spartiacque dell'esistenza dell'autore/protagonista e che separa un prima, quello della giovinezza e dell'innocenza, da un dopo che è consapevolezza del male.
In culo al mondo è l'elaborazione di questa esperienza: un lungo monologo in forma di dialogo con una lei che rimane silenziosa, il ripercorrere contorto le tappe della vita secondo lo schema tipico della narrazione di Lobo Antunes, fatto di sovrapposizione dei piani temporo/spaziali e cambi di voce narrante. Rispetto alle opere successive dell'autore portoghese qui c'è in più un uso ridondante della metafora e una prosa nella quale la frase mantiene ancora (almeno parzialmente) la sua articolazione. Prosa, al solito, baroccheggiante: la trama non si sviluppa secondo lo schema classico ma per sovrapposizione di immagini, pensieri, ricordi, allegorie… e le frasi lunghe incalzano il lettore con il loro ritmo vertiginoso, lasciandolo quasi senza fiato all'arrivo del punto.
A dirla così, In culo al mondo sembrerebbe un'opera fatta di molto mestiere e in parte è vero. Ma non c'è solo quello, perché la scrittura ricca, ricchissima, con la quale Lobo Antunes veste il romanzo nulla toglie all'onestà del pensiero dell'autore. Questo è uno di quei libri dolorosi e necessari che parlano dell'uomo, un viaggio al termine della notte e dentro la memoria. Un libro vero, un grande libro di un grande scrittore.

mercoledì 6 febbraio 2019

Appunti di scrittura


…necessità di penetrare la cosa, di arrivare alla sua essenza, non più di descriverla, ma di riprodurla tramite la parola. «Tu stesso diventa ponte o che il ponte diventi te stesso, identificati o identifica. Sempre — devi dire in altro modo. Dire (dare la cosa) — è meno di tutto descriverla. Il pioppo visivamente è già dato; tu dallo internamente, dall'interno del tronco: tramite il midollo.»

(Marina Cvetaeva - da un quaderno del 1924)