Poesia è trovare le parole per esprimere emozioni che non possono essere espresse a parole.
martedì 31 marzo 2009
domenica 29 marzo 2009
da La mia candela brucia. Contorni di una nuova poetica
Una poesia deve svilupparsi nel campo di alta tensione fra una teoria e un canto. Ma non, alla maniera di molti semiologi autori di poesia, come una via di mezzo fra canto e teoria, piuttosto come la specifica prassi linguistica che sviluppa il rapporto stesso fra le due cose. [...]
Una poesia che non canta non è poetica, ma un testo poetico che non è cosciente di essere tale non è una poesia. [...]
La poesia nasce dalla tensione fra troppo-senso e quasi-nessun-senso. Troppo senso perchè possa essere espresso, troppa espressione perchè dia senso. [...]
Poiché la poesia si verifica dunque in quanto rapporto fra il senso e la mancanza di senso, fra la teoria e il canto, ciò implica che essa rappresenta il campo in cui è reso visibile il loro reciproco annientamento. Proprio per questo è un pericolo mortale sia per il canto sia per la teoria, ma allo stesso tempo è una grande sfida per entrambe le forme, ciascuna di per sé unica - ma inferiori nel loro reciproco dualismo corpo/anima - superato solo nel supremo metacampo della poesia, che non è possibile ridurre a senso o a mancanza di senso. E in questo risiede il suo significato.
[S.U. Thomsen: "Vivo"]
sabato 28 marzo 2009
Immaturi

Chi ha fatto invece dell'immaturità una filosofia di vita è l'immaturo per sempre o poeta. Per temperamento o scelta. [...] Attraversano, costoro, le età della vita non ancora convinti di essere del tutto nati al mondo.
Hanno forti passioni, trasgressive e "a rischio", esibite, che non rivolgono di preferenza agli affari e ai beni di consumo.
Sono inquieti ma contenti di esserlo. [...] Apprezzano la bellezza, la solitudine, l'indipendenza; credono in una maturità irraggiungibile e ascetica. Per l'amore che guida quel che fanno, pensano, creano, forse, saranno perdonati. Ma non sanno da chi.
Il gruppo cui appartengono li porta ad essere coerentemente in-maturi.
Un "in", non privativo, che bensì li spinge a penetrare ancor più nelle alchimie della vita matura per smascherarne le ipocrisie.
Per loro, la maturità non è di questa terra. Esploratori di quanto è invisibile e oscuro, sanno ironizzare anche su se stessi. Sono orgogliosi della loro natura multiforme, ma, di solito, non doppia e mendace. Odiano ciò che è puerile nei loro coetanei maturi; accettano di invecchiare. Sovente mantengono un'energia e un aspetto adolescenziali - senza soverchi trucchi - fino alla fine dei loro giorni. Talvolta sono e sono stati felici. Sanno ricominciare, hanno la modestia che deriva loro da un temperamento malinconico. Sorridono spesso da soli.
[D. Demetrio: "Elogio dell'immaturità"]
venerdì 27 marzo 2009
domenica 22 marzo 2009
Quel che resta

Alghe, legni spezzati e corde rotte
oggetti a fine corsa
quel che resta di un pasto,
e poi vetri, pezzi di plastica, ferri arrugginiti
cose con un passato ma senza domani
gli avanzi che il mare ha sputato in faccia all'arenile.
oggetti a fine corsa
quel che resta di un pasto,
e poi vetri, pezzi di plastica, ferri arrugginiti
cose con un passato ma senza domani
gli avanzi che il mare ha sputato in faccia all'arenile.
Quel che resta è un campo di battaglia
un corpo sfregiato da mille cicatrici
che il mare carezza con mano leggera -
docile, come fiera ormai sazia
un corpo sfregiato da mille cicatrici
che il mare carezza con mano leggera -
docile, come fiera ormai sazia
e la notte di tregenda
sembra tanto tempo fa -
sembra tanto tempo fa -
irreale, come il sole che ora incendia
un cielo sfolgorante.
un cielo sfolgorante.
[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]
sabato 21 marzo 2009
Errore
Dai vicini un bimbo suona Per Elisa.
Sempre da capo, sempre quell'errore.
Il dogma dell'infallibilità
è stato un passo falso. E' un fatale capitombolo
del parassita quello di uccidere l'ospite.
Detto altrimenti globalizzazione.
Pudico si occulta l'errore decisivo
in una duna di sbagli di poco conto
e ci sprofonda. Mai finora sono mancate
voci che avvertivano:
il mondo è l'Incorreggibile.
Patetici sforzi per riparare, rammendare,
otturare, riformare, migliorare
con inchiostro rosso e pentimenti
portano a nuovi errori ancor più grossi.
Certo, difetti congeniti e aborti
sono due paia di maniche.
Però anche l'esecuzione fallisce,
il colore, l'invito, l'avvio,
l'accensione e il passo.
Una via lattea di confusioni
che c'è da stupirsi. Considerando il complesso
ne risulta un miracolo.
Evitare errori a ogni costo
sarebbe un errore.
Si confessa, si ammette
che si è sbagliato il gesto,
la direzione di marcia e anche a scrivere.
Certe poesie per esempio
sarebbero perfette
se non le avesse preservate da questa sorte
un errorino da nulla.
E' per svista che si è felici,
talvolta, per un momento,
per svista. Ma cualcosa non va.
[H. M. Enzensberger: "Più leggeri dell'aria"]
Sempre da capo, sempre quell'errore.
Il dogma dell'infallibilità
è stato un passo falso. E' un fatale capitombolo
del parassita quello di uccidere l'ospite.
Detto altrimenti globalizzazione.
Pudico si occulta l'errore decisivo
in una duna di sbagli di poco conto
e ci sprofonda. Mai finora sono mancate
voci che avvertivano:
il mondo è l'Incorreggibile.
Patetici sforzi per riparare, rammendare,
otturare, riformare, migliorare
con inchiostro rosso e pentimenti
portano a nuovi errori ancor più grossi.
Certo, difetti congeniti e aborti
sono due paia di maniche.
Però anche l'esecuzione fallisce,
il colore, l'invito, l'avvio,
l'accensione e il passo.
Una via lattea di confusioni
che c'è da stupirsi. Considerando il complesso
ne risulta un miracolo.
Evitare errori a ogni costo
sarebbe un errore.
Si confessa, si ammette
che si è sbagliato il gesto,
la direzione di marcia e anche a scrivere.
Certe poesie per esempio
sarebbero perfette
se non le avesse preservate da questa sorte
un errorino da nulla.
E' per svista che si è felici,
talvolta, per un momento,
per svista. Ma cualcosa non va.
[H. M. Enzensberger: "Più leggeri dell'aria"]
giovedì 19 marzo 2009
domenica 15 marzo 2009
sulla comunicazione

Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.
[P. Watzlawick: "Pragmatica della comunicazione umana"]
sabato 14 marzo 2009
La verità
Questo caldo alle mani
o anche il vento sul petto.
Questo guardare le mani
rigirandole
o lo sguardo per andare
tra le tante voci.
Sedermi e trovare un tavolo
dove non è più del convenuto.
I tanti colori, le tante
figure colorate, uguali.
O anche uscire dai passi,
smarrire giù
la protezione che mi resta.
[M. Benedetti: "Umana gloria"]
o anche il vento sul petto.
Questo guardare le mani
rigirandole
o lo sguardo per andare
tra le tante voci.
Sedermi e trovare un tavolo
dove non è più del convenuto.
I tanti colori, le tante
figure colorate, uguali.
O anche uscire dai passi,
smarrire giù
la protezione che mi resta.
[M. Benedetti: "Umana gloria"]
domenica 8 marzo 2009
E' caduto un acrobata

E’ caduto un acrobata. Quando è successo? Forse ieri, forse un mese fa, forse è già passato più di un anno… Non importa quando, o, più semplicemente, non fa piacere ricordare quei giorni.
E’ caduto mentre stava camminando sulla sua corda, come sempre. Non si sa bene come sia accaduto, si sa solo che all’improvviso si è trovato senza appoggio ed è precipitato nel vuoto. Un volo goffo, sgraziato, ridicolo nella sua tragicità. Un volo breve, perché lui non è un uccello capace di sfidare la forza di gravità, lui è (era?) solo un funambolo, un uomo-bambino che giocava a fare l’acrobata.
Neppure un grido, mentre cadeva, non ha aperto bocca neppure mentre si schiantava a terra. Un tonfo sordo e subito una piccola folla si è radunata intorno al corpo dell’acrobata accasciato sul selciato.
- Ora la smetterà di giocare su quella maledetta corda!
- Era logico che prima o poi sarebbe successa una cosa del genere…
- Ben gli sta! Chi si credeva di essere? Cosa voleva dimostrare standosene lassù in cima?
Questi i commenti della gente che lo circondava. Tutti, per un motivo o per l’altro, contenti che fosse successo, felici di vederlo finalmente a terra, anche lui nel loro mondo, come se l’acrobata avesse ricevuto la lezione che meritava.
- Anche tu sei come noi, - pensavano - e da oggi non te ne scorderai così facilmente. La smetterai una buona volta di sentirti diverso dagli altri!
E’ caduto mentre stava camminando sulla sua corda, come sempre. Non si sa bene come sia accaduto, si sa solo che all’improvviso si è trovato senza appoggio ed è precipitato nel vuoto. Un volo goffo, sgraziato, ridicolo nella sua tragicità. Un volo breve, perché lui non è un uccello capace di sfidare la forza di gravità, lui è (era?) solo un funambolo, un uomo-bambino che giocava a fare l’acrobata.
Neppure un grido, mentre cadeva, non ha aperto bocca neppure mentre si schiantava a terra. Un tonfo sordo e subito una piccola folla si è radunata intorno al corpo dell’acrobata accasciato sul selciato.
- Ora la smetterà di giocare su quella maledetta corda!
- Era logico che prima o poi sarebbe successa una cosa del genere…
- Ben gli sta! Chi si credeva di essere? Cosa voleva dimostrare standosene lassù in cima?
Questi i commenti della gente che lo circondava. Tutti, per un motivo o per l’altro, contenti che fosse successo, felici di vederlo finalmente a terra, anche lui nel loro mondo, come se l’acrobata avesse ricevuto la lezione che meritava.
- Anche tu sei come noi, - pensavano - e da oggi non te ne scorderai così facilmente. La smetterai una buona volta di sentirti diverso dagli altri!
Sarebbe stato così semplice... ma non ci pensò nessuno. A nessuno venne in mente di chiedere all’acrobata:
- Cos’hai, ti sei fatto male? Hai bisogno d’aiuto? Soffri molto?
A nessuno. E questo fu per l’acrobata il dolore più forte.
Il verdetto dei medici fu subito chiaro:
- Non morirai, ma non potrai più salire su quella corda.
I giorni ed i mesi successivi furono per lui un vero calvario. Non morirai, gli avevano detto… Ma condannare un acrobata a non salire mai più lassù non era forse la stessa cosa di una condanna a morte? Magari ad una morte lenta, lentissima. E forse per questo ancora più dolorosa.
Sulle prime l’acrobata accettò il verdetto dei medici. Era ferito, spaventato, distrutto nello spirito e nell’orgoglio. Cosa avrebbe potuto fare di diverso? Piegò il vestito da funambolo, ripose con cura le scarpe, cercò di dimenticare la corda concentrandosi sulla vita di tutti i giorni, quella che avevano sempre vissuto gli altri, a qualche decina di metri al di sotto di dove era abituato a stare lui.
Non fu una cosa indolore, ma se ci scappò qualche lacrima fece in modo che non la vedesse nessuno.
Si sforzò di essere come gli altri, ne studiò i movimenti fino a riuscire a riprodurli fedelmente. Copiò comportamenti, modi di fare ed abitudini della gente e con il tempo imparò a vivere come facevano loro. Sembrava proprio integrato, a guardarlo andare in giro per la strada quando portava a spasso il cane. Sembrava definitivamente guarito da quella strana malattia (come dicevano loro) che per anni gli aveva impedito di comportarsi come gli altri uomini.
Già, sembrava.
Perché in realtà fingeva. Un acrobata non può vivere come una persona normale, un acrobata è destinato a vivere ed a morire solo da acrobata. E così fece lui. Resistette, fino a quando riuscì a farlo, poi si costruì un’altra corda e ricominciò a camminare sul filo sospeso. Lo fece di nascosto, all’inizio con paura e poi con sempre maggior sicurezza.
Certo, era una corda di fantasia, non una corda reale, ma questo non vuol dire niente.
- Cos’hai, ti sei fatto male? Hai bisogno d’aiuto? Soffri molto?
A nessuno. E questo fu per l’acrobata il dolore più forte.
Il verdetto dei medici fu subito chiaro:
- Non morirai, ma non potrai più salire su quella corda.
I giorni ed i mesi successivi furono per lui un vero calvario. Non morirai, gli avevano detto… Ma condannare un acrobata a non salire mai più lassù non era forse la stessa cosa di una condanna a morte? Magari ad una morte lenta, lentissima. E forse per questo ancora più dolorosa.
Sulle prime l’acrobata accettò il verdetto dei medici. Era ferito, spaventato, distrutto nello spirito e nell’orgoglio. Cosa avrebbe potuto fare di diverso? Piegò il vestito da funambolo, ripose con cura le scarpe, cercò di dimenticare la corda concentrandosi sulla vita di tutti i giorni, quella che avevano sempre vissuto gli altri, a qualche decina di metri al di sotto di dove era abituato a stare lui.
Non fu una cosa indolore, ma se ci scappò qualche lacrima fece in modo che non la vedesse nessuno.
Si sforzò di essere come gli altri, ne studiò i movimenti fino a riuscire a riprodurli fedelmente. Copiò comportamenti, modi di fare ed abitudini della gente e con il tempo imparò a vivere come facevano loro. Sembrava proprio integrato, a guardarlo andare in giro per la strada quando portava a spasso il cane. Sembrava definitivamente guarito da quella strana malattia (come dicevano loro) che per anni gli aveva impedito di comportarsi come gli altri uomini.
Già, sembrava.
Perché in realtà fingeva. Un acrobata non può vivere come una persona normale, un acrobata è destinato a vivere ed a morire solo da acrobata. E così fece lui. Resistette, fino a quando riuscì a farlo, poi si costruì un’altra corda e ricominciò a camminare sul filo sospeso. Lo fece di nascosto, all’inizio con paura e poi con sempre maggior sicurezza.
Certo, era una corda di fantasia, non una corda reale, ma questo non vuol dire niente.
[LWV: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
venerdì 6 marzo 2009
Carta a Georgina Hübner en el cielo de Lima
Mi hermosa mujer limeña, desenvuelta, aromática. Me siento un postergado del mundo sin su candorosa presencia. Mi rincón se sume en la melancolía sin su perfumada piel cerca de la mía. España está derritiendo sus cementos y flores bajo el sol de Andalucía, sus mares se hierven, Moguer está sola, pero en la colonial Lima llueve las penas de Dios. Georgina, amor, está usted tan lejos de España y de mi cuerpo como los astros y las nebulosas. Confieso, a instancias de mi edad crepuscular, que ahora sí creo que en Ultramar se encuentra el exquisito tesoro del Perú, leyenda encubierta de guerras de cruces y arcabuces que, antaño, contaban las abuelas a los niños en sus regazos. Usted, mujer de encantos infinitos, júbilo del Perú, delicada tapada limeña, provoca mi desespero a cada hora, sin poder sentir sus labios de capulí en los que sucumbiría como un divertido colibrí de penachos hinchados. La fantasía, y no los libros, me cuentan de Lima como una ciudad de fantasmas, de cielo grisáceo, donde las ropas de los mortales permanecen húmedas y sus cuerpos frágiles caminan con pesar hacia los acantilados de Barranco, de Chorrillos, de Miraflores, aquellos parajes de flores con tornasoles y tranvías solitarios, donde pasea su altivez y hermosura. Las andaluzas de Vejer de la Frontera eran hermosas, con un fino encanto de seducción que las hacían irresistibles a los ojos masculinos. Pero en su ciudad de Reyes, Georgina, qué hermosas son esas tapadas de sedas blancas, de aureola virreinal, con un velo suave que les cubre el rostro de durazno y dejan únicamente al descubierto, con galantería, un ojo como una gema de vidrio. Usted, Georgina mía, delicadeza encarnada en mujer, ha de referirme en una nueva correspondencia suya sobre sus sueños, sus penas, y yo redescubriré con la fantasía de mi provocación sobre la suntuosidad de su cuerpo cuando anda sobre esos pies chiquitos, cuando pasea junto al mar de Barranco bajo una sombrilla de jacarandás, la última de las tapadas. Su boca me diría del amor que siente por este otoñal hombre de Moguer, pero únicamente la seda de su mano que empuña la pluma me describe su pasión, la solitaria sensación de amar desde tan lejos, mi delicada alma de violeta. Sus palabras me dan cuenta de una mujer bella, dulce de manjar, con una tristeza lejana que me daña y alimenta mis ansías de pisar la tierra de los incas para apreciarla y disfrutarla. Cuánto amor nos espera al encuentro de nuestras existencias, Georgina amada. Cuento los días para verla, sentir su perfume de flores de Jericó, sentirla hablar en silencio como cuando se habla con Dios. Por lo pronto, Pajarillo de cielo azul, me despido con congoja en estas palabras expuestas con las letras de mi puño nervioso. Desearía hacerlo en su regazo, frente a usted, Georgina de Lima. La dejo con estos versos de mi primorosa inspiración sobre lo que siento ahora frente al vespertino ocaso de mi Moguer triste, sin la compañía de la mujer que siente y llora su más ilustre creador: Que eres tú, la humana primavera,La tierra, el aire, el agua, el fuego, ¡Todo!, y soy yo sólo el pensamiento mío.
Siempre suyo, Juan Ramón Jiménez
giovedì 5 marzo 2009
Quasi
Un poco più di sole... ed ero brace.
Un poco più d'azzurro... ed ero oltre.
Per riuscire mi è mancato un colpo d'ala...
Potessi almeno restare al di qua...
Stupore o pace? Invano... Tutto è svanito
in un basso mare di spuma ingannatore;
e il grande sogno svegliatosi in bruma,
il grande sogno - ahimè! - quasi vissuto...
Quasi l'amore, quasi il trionfo e il fuoco,
quasi il principio e la fine - quasi l'espansione...
Ma nell'animo mio tutto si scioglie...
Eppure niente fu solo un'illusione!
Tutto ho iniziato sempre... e tutto errato...
- Ah, il dolore senza fine di esser-quasi... -
Io fallii per gli altri, ho fallito in me,
ala che si slanciò ma non volò...
Momenti d'anima dissipati...
Templi dove mai misi un altare...
Fiumi smarriti e non condotti al mare...
Ansie sofferte, che non ho fissato...
Se mi vagheggio trovo solo indizi...
Ogive a mezzogiorno - sono sbarrate;
e mani di eroi, empie, intimorite,
hanno cinto di grate i precipizi...
In uno slancio fradicio di accidia,
tutto intrapresi e nulla conquistai...
Oggi di me rimane il disincanto
di ciò che senza vivere baciai...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un poco più di sole... e sarei brace,
un poco più d'azzurro... e sarei oltre.
Per riuscire mi è mancato un colpo d'ala...
Potessi almeno restare al di qua...
[M. De Sà-Carneiro: "Dispersione"]
Un poco più d'azzurro... ed ero oltre.
Per riuscire mi è mancato un colpo d'ala...
Potessi almeno restare al di qua...
Stupore o pace? Invano... Tutto è svanito
in un basso mare di spuma ingannatore;
e il grande sogno svegliatosi in bruma,
il grande sogno - ahimè! - quasi vissuto...
Quasi l'amore, quasi il trionfo e il fuoco,
quasi il principio e la fine - quasi l'espansione...
Ma nell'animo mio tutto si scioglie...
Eppure niente fu solo un'illusione!
Tutto ho iniziato sempre... e tutto errato...
- Ah, il dolore senza fine di esser-quasi... -
Io fallii per gli altri, ho fallito in me,
ala che si slanciò ma non volò...
Momenti d'anima dissipati...
Templi dove mai misi un altare...
Fiumi smarriti e non condotti al mare...
Ansie sofferte, che non ho fissato...
Se mi vagheggio trovo solo indizi...
Ogive a mezzogiorno - sono sbarrate;
e mani di eroi, empie, intimorite,
hanno cinto di grate i precipizi...
In uno slancio fradicio di accidia,
tutto intrapresi e nulla conquistai...
Oggi di me rimane il disincanto
di ciò che senza vivere baciai...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un poco più di sole... e sarei brace,
un poco più d'azzurro... e sarei oltre.
Per riuscire mi è mancato un colpo d'ala...
Potessi almeno restare al di qua...
[M. De Sà-Carneiro: "Dispersione"]
domenica 1 marzo 2009
Lo sguardo di un altro su di noi
[...] Quando qualcuno ci tocca, ci trasformiamo di nuovo in pionieri, in esploratori. Un nuovo mondo diventa possibile, perchè le mani di qualcuno ci passano sul petto, sulle guance, sul lobo dell'orecchio; siamo costretti a prestare ascolto - come al tintinnio remoto, al delicato mormorio di un prato estivo - al profondo di noi stessi, alle fonti del nostro corpo.
Questo è vero. Ma è vero anche che si viene disturbati!
Gli sguardi di un altro si concentrano su di noi, spostano e modificano le relazioni del nostro universo. Si diventa Qualcuno là dove prima si esisteva soltanto, come una vista, un fatto. Davanti agli sguardi di un altro si viene vestiti, classificati, inseriti in una gerarchia... Si è confinati. Quel che era aperto si chiude.
[G. Tunstrom: "La Vita Vera"]
Iscriviti a:
Post (Atom)